CAPITOLO PRIMO
Convier
quelqu’un, c’est se charger de son bonheur pendant tout le temps qu’il est sous
notre toit. Brillat-Savarin
Lungi, o profani! via di quà amatori degli artifizii retorici
e dell’eloquenza tirata giù dalle nuvole: chè questa volta io parlo al caro
popolo: e perciò entro a dirittura, senza esordio, nelle viscere del mio tema e
incomincio.
A chi volesse sapere prima di tutto che cosa io intenda per
popolo, dico, a scanso di astruse e complicate definizioni, che intendo il ceto
medio: giacchè il ceto basso si usa e si osa ancora chiamarlo plebaglia o
popolaccio. Io che amo poco i peggiorativi, non mi occupo di questa classe,
anche per non rubare la clientela agli ultra-democratici, che si sono messi
alla mirabile impresa di farne col tempo la più eletta porzione della società.
Oltre di che sarebbe stravaganza ragionar di conviti a gente la quale, non che
essere incapace di dar pranzi, ha un bel da fare a cavarsi la fame quotidiana.
Eppure potrebbe accadere che, mentre il mio libro non si
indirizza a costoro, molti di costoro si indirizzassero al mio libro, tratti,
non fosse altro, dall’immensa bellezza dell’argomento. Se ciò avvenisse, vada
in compenso dei tanti libri che si compongono a benefizio universale, e che
sono schivati da tutto il mondo. Dunque, se anche la marmaglia vuol leggere, si
serva. Sarà come quando si passa per via presso a una cucina da signori, d’onde
emani un soave odore di squisite vivande, che si resta là sui due piedi per
qualche istante a deliziarsi almeno colla imaginazione e col naso. Aggiugnete
che siffatta lettura potrebbe essere un fausto preludio, quasi un preparamento
a un più lieto avvenire. In questo mondo non si sa mai che cosa possa nascere:
un’eredità inattesa, un terno al lotto, dei grassi negozii, qualche bricconeria
lucrosa, che so io? insomma, non è raro il caso che uno passi dalla categoria
degli affamati all’altra tanto rispettabile e filantropica di quei che mangiano
bene e fanno mangiare. Ed ecco che a buon conto sarà prudente consiglio di far
precedere la teoria alla pratica, per non trovarsi poi imbarcati su di un
pelago affatto sconosciuto. La speranza è il dolce conforto di tutta la vita: e
il proverbio che la sa lunga, ci dice netto e preciso: Impara l’arte e
mettila da parte.
Il mio discorso poi non s’attaglia per nulla al ceto alto.
Grandi e potenti della terra, ricchi nati, aristocratici, gente di puro sangue,
anche di mezzo sangue, anche di nessun sangue, ma distinti per modi e abitudini
signorili, come se aveste un sangue, voi non avete bisogno del mio libro: anzi,
il mio libro avrà sommo bisogno di voi: poichè sarà dai vostri esempii che io
trarrò i più sani e indeclinabili precetti di un’arte che in voi è natura.
Perciò voi sarete le mie fonti di erudizione, i miei testi venerati, i miei
classici autori: vos exemplaria græca. Se dunque per ozio o passatempo
vorrete abbassare un occhio benigno su questo mio trattatello elementare,
abbiate bene per inteso che non avrete nulla da apprendere; bensì rileverete la
vera distanza che vi separa dal resto dei mortali. Fors’anche troverete buono
che fra tante norme di eleganza e di squisito vivere, io abbia scelto quella
parte sola che si adatta alla commune intelligenza. Fors’anche taluno di voi si
degnerà giovarmi di consigli preziosi per la riproduzione dell’opera mia.
Ma, replico, io parlo precisamente al popolo, cioè alla classe
di mezzana fortuna (aurea mediocrità), e sopratutto di non troppo schizzinosa
educazione (gente alla buona), piena di gentilezza e cordialità, ma bisognosa
d’essere iniziata a certi raffinamenti che l’epoca nostra esige con sempre
crescente imperiosità nel tanto facile accommunarsi di tutti i ceti. E quì mi
corre l’obligo d’una speciale avvertenza a fine d’impedire grossolane
illusioni: che cioè non abbiano a credersi al di sopra del mio popolo alcuni di
fortuna assai più che mediocre, ma ricchi di recente data, che per mancanza di
uso o di naturali disposizioni si trovano inesperti e imbarazzati
nell’esercizio del loro nuovo mestiere. Contro a costoro la bassa invidia cova
rancori implacabili, e n’ha ben d’onde, la poveretta. Ora, non è raro il caso
che la maldicenza osi colpirli di scherno perfino nell’atto di allontanarsi
collo stecco in bocca dalle loro laute mense. Oh ingratitudine umana! Ma a far
tacere d’ora in avanti le male lingue ci penso io, insegnandovi a dar da pranzo
in modo da ridurle al silenzio. Nel quale scopo mi pare che ci sia della morale
assai; giacchè, guai al libro moderno che non sia tutto unto di moralità, come
è unta d’olio un’insalata, o come.... Quasi mi dimenticava che non devo fare
l’esordio: sono però a tempo a troncarlo. Entriamo in materia, e attenti bene.
Oh, il meglio mi scordava, come dicea quella buona lana di
Figaro. Avverto che rigetto come frivola e insussistente qualunque taccia di
allusione individuale. Scendo con mio non poco fastidio a siffatta protesta,
perchè così vuole miseria di tempi e di luoghi. Molti troveranno che io
descrivo quanto accade in casa loro: ma appunto io descrivo ciò che accade in
casa di gente infinita. Se un romanziere narra i palpiti, i terrori, le
speranze, le veglie di una ragazza innamorata, credereste mai possibile che un
migliajo di amabili signorine lo accusassero di aver sorpresi e svelati i loro
secreti? Ma alcuni vorrebbero sapere almeno (giacchè la questione va a ridursi
fino a questo punto) se quando l’autore scriveva pensava a loro. Miei cari,
dimandate all’ape qual sia precisamente il fiore che gli fe’ generare l’ultima
stilla di miele. Fu un fiore del prato, e i fiori per generi e specie si
rassomigliano tutti. Perciò, Gaspare, Bertoldo, Zaccaria, sareste matti a
credere che io abbia voluto parlare di voi: io parlo degli usi del popolo;
quindi, senza volerlo, degli usi vostri, perchè siete del popolo, e compite la
vostra missione providenziale a fare da popolo. Sono del popolo anch’io, e me
ne vanto: se non che voi, dando pranzi in casa vostra appartenete, per così
dire, al popolo sovrano; mentre io sono di quel popolo suddito che va a
pranzare in casa altrui. Questo però mi accadeva una volta: dopo l’esilio e la
consunzione, io non pranzo più da nessuno; e se vi sembrasse che lungo il mio
discorso io cadessi in qualche contraddizione, mettendomi, per esempio, a
tavola a cioncare allegramente con voi; per carità non credetemi: sarà tutta
finzione poetica per dare naturalezza ed evidenza alle mie lezioni; ma voi
ritenete per inconcusso quanto ora vi annunzio: che cioè io non pranzo mai,
assolutamente mai, da nessuno. E ciò sia detto per convincervi sempre più
dell’impossibilità di allusioni a chichessia. Io lavoro a reminiscenze lontane
e confuse; sopra tipi che nessuno conosce, che non conosco più nemmen io, che
forse non esistono più. Scrivo ancora riferibilmente a Milano, dove ho fatto i
miei studii pratici; secondo le idee vigenti in Milano; come se fossi ancora in
Milano, a quei tempi (o tempora!) quando, prediletto figlio della
patria, mi trovava spesso ipotecato per una gran sequela di pranzi, a guisa di
una bella fanciulla che ha già impegnati una settimana prima tutti i valzer
d’una festa da ballo. Allora i conviti o sontuosi o cordiali, e allegri sempre,
mi mettevano indosso una tale vivacità che, se credo ai critici più sottili, i
miei versi e le mie prose sentivano perfino un po’ del satirico. Ora
l’ostracismo, i digiuni e l’aqua fontis mi hanno domato di una tal
maniera, sono divenuto così prudente, meticuloso, rispettoso anche per le
persone indegne di rispetto che, a dirvela in confidenza, fo compassione a me
stesso. Ma, replico per la terza e ultima volta, veniamo all’arte di convitare.
Per la storia dei conviti vi rimetto ai molti autori che
trattarono questa specialità. Il raccontarvela quì anche in compendio ci
menerebbe troppo per le lunghe, e sarebbe inutile allo scopo pratico. Però, un
cenno brevissimo, altamente filosofico, a viste grandiose, complesse,
sintetiche, ve lo diedi anch’io quando provai che dalla cucina ebbero vita
tutte le scienze, tutte le arti, tutte le cose buone e belle di questo mondo.
Ora soggiungo che il pranzar bene non basta, ma bisogna pranzare in buona
compagnia, perchè ciò produce il piacere morale, e raddoppia il piacere fisico,
rendendoci capaci di mangiare il doppio del solito. Chiamo in testimonio di
questa verità tutti i miei lettori, eccettuati però quelli che vanno via a
pranzo tutto l’anno: perchè il mangiar sempre il doppio del solito è un po’
difficile a ottenersi. Ma come si fa a pranzare in buona società? Io,
rifiutando l’idea della venale osteria, non vedo che due modi: o andare a
cercarla in casa altrui, o attirarla in casa propria. Per il primo caso
abbisognerebbe un trattato sull’arte di farsi convitare, su di che forse
discorreremo un’altra volta; per ora amo meglio trattenervi del secondo caso,
che sotto varii rapporti facilita anche il primo, e quasi lo include. Dunque, quando
alcuno di voi ha deciso di dare un pranzo, e fissato il giorno, che cosa ha da
fare? scegliere i commensali e poi invitarli. Mi riesce comodo invertire
l’ordine delle idee, parlando subito dell’atto d’invitare, e poscia delle
persone da invitarsi.
Il modo più volgarmente adoperato tra noi per invitare uno a
pranzo, si è di pregarlo a venire il tal giorno a far penitenza. Questa
formola è brutta, disgustosa, e mi ricordo che quando l’udiva fin dalla prima
puerizia, mi suonava istintivamente antipatica. Ora, notate che le antipatie
anche le più istantanee e non ancora ragionate, non sono altro che il rapido e
confuso senso di quelle ragioni che pur sussistono, e che non abbiamo o il
tempo o la volontà o la capacità intellettuale di sviluppare. Far penitenza! ma
di qual colpa, io dimando, e perchè in casa vostra? Tocca al confessore e al
missionario d’inculcarci la penitenza: gli amici devono fornirci i piaceri e le
gioje. Quella frase è poi sempre bugiarda e ipocrita, se non nel fatto, almeno
nella intenzione. Il vostro convito riescirà pur troppo una grave e lunga
penitenza, se non saprete evitare la maggior parte degli inconvenienti che io
verrò additandovi; ma il vostro desiderio e la persuasione vostra sono di far
passare agli invitati alcune ore piacevoli e graditissime. Voi dunque dite per
modestia una bugia, e fate che la virtù generi il vizio: ma siccome ciò è
assurdo, così bisogna concludere che anche la virtù è apparente e non reale; e
questo è proprio il vostro caso che mentite per modestia falsa.
Sembrerà a molti che io spenda troppe parole per un modo di
esprimersi meramente convenzionale, cui non si dà il suo letteral valore nè da
chi lo dice nè da chi lo sente: perchè difatti non intende a significar altro
se non un invito a pranzo. Ma, non sarebbe pure una bella cosa che almeno nella
nostra lingua casalinga e sincera ci avvezzassimo a sbandire le frasi
antilogiche e stolte, che dividono colle stolte opinioni la fortuna di essere
perenni, quasi fossero gemme di stile, o sublimità di concetti? Fate conto che
quel modo d’invitare si usava dai nostri bisnonni, e che si userà dai pronipoti
nostri, se non gli si grida addosso la croce. Dunque, o lettori, cominciate voi
a non adoperarlo più, e fate la carità di spiegare e difundere queste mie ragioni
fra tutti gli ignoranti che non leggono nessun libro, e fra tutti gli
importanti che non si degnano di libri come i miei; perchè si ricordino in
avvenire d’invitare i conoscenti a pranzo, e non già a far penitenza. Diamine!
profanare l’idea tutta santa della penitenza, parificandole un buon pranzo! la
mi sembra perfino una mezza empietà. E avvertite bene che queste cose io le
dico, forzato dalla prepotenza del vero, e a malincuore, perchè stanno contro
al nostro interesse commune. Infatti, se l’andar via a pranzare di quà e di là
fosse proprio un far penitenza, sapete, miei cari amici, che questa solazzevole
e ghiotta Lombardia dovrebbe mutar nome e chiamarsi la moderna Tebaide? Oh
quanti che respirano a stento sotto alla ciccia di Ermolao, si sentirebbero
emuli d’Ilarione!
Molti invitano a mangiare una zuppa: e taluni dicono
perfino una cattiva zuppa. Male assai; cioè, male la zuppa, e peggio
l’epiteto. Condanno l’aggettivo per gli argomenti sovr’accennati circa alla
penitenza e alla modestia falsa: e scarto anche il sostantivo per due ragioni,
anzi tre. Primo: perchè è un modo d’invitare soverchiamente usato, logoro,
plateale. Secondo: perchè essendo appunto un mero termine di convenzione,
spesse volte riesce una menzogna, e la zuppa non c’è. Ora, si deve dare assai
più di quanto si promette, ma ciò che si promette ci ha da essere sempre. Vo
avanti, e soggiungo che la zuppa si può benissimo darla, ma non si deve
prometterla mai, come non si promette l’insalata, perchè indegna di onorevole
menzione. Difatti, quantunque la zuppa possa avere complicazioni squisitissime
e meritevoli di stabilire la fama di un cuoco, per sè stessa è un’idea poco
solleticante. Fette di pane gonfiate nel brodo, parenti strettissime del
pancotto e del pantrito, che ci fanno venire in mente la malattia o la
convalescenza in berretto da notte, e che solitamente venivano dopo allo
stomachevole olio di ricino o all’esecrabile infuso lassativo. Insomma, se io
ho da onorare la vostra mensa, sottoponetemi alla fantasia un concetto molto più
appetitoso di quello che mi risveglia la zuppa, per la quale vi dico che io non
mi movo nemmeno. Quando vogliate intitolare il pranzo dalla minestra, anzichè
usare quel brutto gallicismo, sarà ben meglio invitare ai ravioli o al risotto,
che sono tutt’altra cosa, e che sono parte integrante del nostro orgoglio
nazionale.
Ed eccovi messi sulla strada delle formole regolari e logiche
d’invitare. Sì; trattandosi di amici e persone di confidenza potete prendere
per pretesto d’invito un qualunque piatto non commune che intendiate di dare.
Per esempio: avete delle lingue di Zurigo? o dei fagiani della Stiria? o un
porcellino di Praga? o un pasticcio di Strasburgo? Si invita a venire ad
assaggiare o il pasticcio, o il porcellino, o il fagiano, ecc.: ben inteso che,
se aveste anche tutte queste cose insieme, ne nominiate una sola, e non mi
anticipiate in mezzo alla strada o su di un viglietto la lista delle vivande.
Se è personaggio di qualche importanza e soggezione, pregatelo a farvi
l’onore di favorirvi a pranzo il tal giorno. Se il pranzo è dato
espressamente per lui, pregatelo ad accettare un pranzo. Che se la
parola pranzo vi sembra, come è difatti, alquanto alta e promettitrice,
non crediate di sostituirle un invito a desinare, giacchè quest’altra è
bassa, alludendo solo al soddisfacimento di un materiale bisogno, qual’è
l’azione del mangiare.
Ma il modo d’invitare più polito e nobile, perchè accenna
esclusivamente al piacere morale della convivenza, si è quello di pregare a tenervi
compagnia il tal giorno; formola universalmente conosciuta nella buona
società per sinonimo d’invito a pranzo. Che se mai aveste qualche dubio e
inquietudine di non essere intesi sul valore della frase, soggiungete verso
le cinque ore, che è l’ora commune di pranzare. Quando poi si trattasse
proprio di un gonzo cascato dalle montagne, dite chiaro e tondo, a scanso
d’ogni equivoco, che si anderà a tavola alle cinque ore.
Quì viene opportuno il ricordare due generi opposti di
invitatori egualmente viziosi, cioè i freddi o indeterminati, e i seccanti o
violenti. I primi non si sa mai se invitino di cuore, o per distrazione, o per
dire una parola oziosa. «Dimani pranzano in casa mia il tale e il tal altro:
vuol venire anche lei?» Che razza di dimanda è questa? se voglio venire tocca a
voi a volere che io venga, e poi spiegherò la volontà mia. Ma il vostro parlare
indica per lo meno l’assoluta indifferenza sulla mia determinazione, o anche il
desiderio che io non accetti: e allora, che necessità d’invitarmi? E poi, ho io
da venire perchè vengono altri? Va bene che questa sia la principale ragione
dell’invito, ma si deve dissimularla: può anche essere accennata dopo, per far
risolvere la mia volontà dubiosa, giacchè la buona compagnia è un buon
argomento: ma deve insomma apparire che invitiate me per posseder me, e non per
tirarmi a far numero o corteggio ad altri.
Taluni dicono: «Bisogna poi ricordarsi di favorirci qualche
volta a pranzo: perchè non viene mai? qualunque giorno è buono per noi: si
capita verso le cinque senza cerimonie.» Fortunato chi può invitare in questo
modo; è segno che la sua lucerna è sempre ben provista d’olio; ma non è questo
il modo d’invitare, no: perchè una persona dotata della menoma delicatezza, non
lo trova mai quel giorno da venir là a dire: «Sono quì.» Ci vuole un bel
coraggio a entrare in una famiglia per pranzare, quando non si è precisamente
aspettato, a rischio di generare qualche sorpresa e di ricevere un accoglimento
non troppo caldo. Perciò tali inviti non sono accettati per buona valuta che
dalle così dette faccie bronzine; per tutti gli altri sono semplici parole e
nulla più. Quindi è che siffatti invitatori perpetui che non invitano mai,
commettono, direi quasi, una piccola mariuoleria, una specie di truffa morale,
spendendo ciarle per gentilezze, e aspirando alla gratitudine di favori che non
impartiscono in fatto, e forse non hanno voglia d’impartire: con che
rassomigliano un poco a certi vecchi volponi che con astute frasi fanno sperare
la propria eredità a Tizio, a Cajo, a Sempronio, per cavarne protezione,
premure, riguardi, e col perfido intendimento di corbellarli poi tutti. Gli
uomini positivi e sinceri schivano le idee vaghe, e stringono sulle concrete.
Se bramate di avere un tale a pranzo, e vi sia indifferente il giorno, lasciatelo
pur scegliere a lui, ma fate che lo scelga. Per esempio, ditegli: «Mi favorisce
oggi? — Non posso. — Ebbene, dimani. — Nemmeno. — Dunque posdimani: insomma,
fissiamo un giorno, poichè sarà per me uno dei belli, e, più presto arriverà,
me ne farà sperare alcun altro.» Così vi troverete sul campo del buon senso e
della schietta cortesia.
Alcuni corrono all’eccesso contrario, invitando con una
violenza e pertinacia tale, che la loro volontà diventa una specie di sentenza
inappellabile. Si anderà in una casa a far visita: «Oh bravo! che fortuna è la
nostra! è proprio capitato a tempo: oggi bisogna restar qui a far compagnia a
noi e a qualche buon amico. — Aggradirei tanto volentieri, ma non posso
perchè.... — Non ci sono pretesti che tengano, di quì non si parte. — Parola
d’onore, oggi sono impegnato altrove. — Dica dove e manderemo ad avvisare, e
disimpegnarla», ecc., ecc. E sono capaci di nascondervi il cappello per
impedirvi la fuga. Che se tenete saldo a voler partire, vi fanno il muso lungo
e le lagnanze pungenti: «Oh, già, se si trattasse di casa X o di casa Z non
direbbe di no: ma noi non abbiamo nulla che la interessi, e quì si secca.»
Talora con queste sconvenienze si vince la partita, e un povero diavolo resta
ad annojarsi davvero con una famiglia per provarle che non è nojosa.
Taluni hanno perfino questo vizio che, più un tale si ostina a
schivare i loro pranzi, più si infuriano a invitarlo: ma non basta: spingono
l’indiscrezione a voler sapere per forza quale sia il motivo che lo tenga
lontano. Indagini d’una inciviltà prodigiosa. Come saperlo, e perchè saperlo?
Forse non vorrà staccarsi dalle proprie abitudini: forse la vostra cucina non
gli è sana, o non gli accomoda l’ora del vostro desinare, o gli è antipatica
qualche persona di casa vostra, o vuole evitare una qualche Putifar: che so io?
si danno tanti casi in questo mondo! Trovate che alcuno sia un po’ troppo
difficile ad accettare? diradate gl’inviti fino a non farne più: che si può
essere ottimi amici senza mangiare insieme. Stiamo al pensiero semplice delle
cose: perchè si invita a pranzo? per far gentilezza e piacere. Ma la gentilezza
che insiste troppo si cambia in importunità: ma il piacere per forza diventa
disgusto: dunque non seccatevi e non seccate.
A proposito di ore, bisogna bene che io sappia quale è quella
di casa vostra. Il bel mondo suol pranzare alle cinque: l’aristocrazia, la
burocrazia, i possidenti, i negozianti, i professionisti, gli artisti, ecc.
Molti tirano innanzi qualche mezz’ora, ed è del gran genere, massime in certe
stagioni, attender le sei, e anche al di là. Insomma, il tardare è sempre cosa
sublime, mirabile, lionesca. Altri mo’ anticipano qualche mezz’ora, e taluni
sono capaci di calar giù fino alle ore quattro, al disotto delle quali poi non
è permesso discendere, sotto pena di sentirvi a dimandare qual sia la vostra
setta o da qual mondo veniate. E quì bisogna avvertire che quando si parla di
ora del pranzo, s’intende sempre del pranzo in famiglia. L’uomo solo,
disoccupato, che va alla trattoria è un exlege, libero affatto di
seguire il capriccioso orario della fame o della propria fantasia. Nè si ha da
credere che il generale accordo della buona società in un’ora quasi simultanea
pel pranzo sia atto di servilità a una moda irragionevole. Per molta parte
dell’anno alle ore cinque il giorno è prossimo alla sera, e d’inverno questa
incomincia. Quindi il pranzar tardi e abbrevia per le signore la monotonia
delle lunghe serate, e allunga per gli uomini d’affari l’utile godimento delle
ore diurne. Quell’ora bipartisce equabilmente la giornata ai ricchi che non la
cominciano troppo presto; e riesce comodissima anche d’estate, perchè dà tempo
agli ardori del sole di moderarsi, e vi dispone al passeggio vespertino, alla
trottata sul corso, ecc. D’ordinario gli studii dei negozianti, e costantemente
i pubblici ufficii, si chiudono alle quattro; e il buon impiegato che dimandò
tante volte quell’ora al pigro oriuolo, si dà una fregatina di mani, con un «se
Dio vuole, anche quest’oggi ho finito», e, fatta qualche chiacchiera per via, e
qualche visituccia simpatica, arriva a casa proprio nel momento fumante che si
serve in tavola la minestra. Il pranzo, che sia degno del proprio nome, e non
si riduca alle proporzioni di una frugal refezione, ci rende poco atti alle
serie e continuate occupazioni tanto dello spirito quanto del corpo: talchè, se
per il nostro moderato clima è soverchio il precetto della scuola salernitana, post
prandium stabis, sarebbe ottimo senno il sostituirgli post prandium
vacabis. Ed ecco perchè gli uomini naturalmente inclinano a protrarre il
pranzo finchè abbiano fatto il meglio e il più di quanto hanno a fare.
Stabilito poi una volta l’orario da ceti numerosi e autorevoli, bisogna che vi
si uniformino tanti altri che ne dipendono o vi si collegano, per quanto loro
preme il buono e regolare andamento del consorzio sociale: come in geografia,
fissato una volta per punto di partenza il meridiano di Parigi, bisogna che
tutti vi si uniformino, sotto pena di errori e di confusione. Così tutti sanno
fino a quale ora si possano protrarre le visite, fino a quale altra non si
possano ricominciare senza indiscrezione: e vi hanno per le famiglie ore sacre
e inviolabili di domestica libertà. Giacchè (se mai v’è ancora chi abbia
bisogno di sentirselo a dire) ritenete per assioma affatto elementare di
civiltà, che, eccetto fra persone della massima confidenza, non si va mai
nell’ora del pranzo in casa altrui, perchè almeno quando si dorme e quando si
mangia si ha da poter credere di essere in casa propria. Supponiamo, per modo
d’esempio, che da voi si pranzi alle ore due: chi può imaginarselo, fuori degli
amici? Appena mangiata la minestra, arriva una visita di persone di riguardo
che sono dolenti e imbarazzate d’avervi sorpresi a tavola: ma voi fate i
disinvolti e i giulivi tuttochè più dolenti e imbarazzati di loro per esservi
lasciati cogliere a un pasto esemplarmente frugale; cosa tanto probabile in chi
desina alle due ore. Quei signori vogliono partire e lasciarvi in libertà; voi
non potete permetterlo quantunque in cuor vostro li mandiate sulle corna di
tutti i diavoli; e protestate di aver quasi finito, e fate passare la frittura
per l’arrosto, e fate correre di soppiatto l’unica servetta o un figliuolo a
comperare quattro pera e una fetta di formaggio che debbano rappresentare il dessert,
intanto che un pajo di piatti vuoti s’ingegnano a nascondere le più larghe e
vivaci macchie della tovaglia. Questa piccola scena comica basti per tante
altre a dimostrarvi gl’inconvenienti del non pranzare all’ora commune. Almeno a
quell’ora potrete cavarvi la fame con patate e carne di pecora, e poi alla sera
lagnarvi sbadatamente in conversazione che i tartufi e la selvaggina v’han dato
un po’ di peso allo stomaco. Insomma, poco prima o poco dopo, si pranza alle
cinque, e meglio dopo che prima: e se vi trattenni alquanto su questo tema, fu
per dimostrarvi che certe consuetudini, le quali a primo aspetto sembrano
affatto arbitrarie e convenzionali, hanno le loro buone e belle ragioni in
rerum natura.
Ora veniamo a noi. Ditemi un poco, sareste per avventura di
quelli che pranzano alle due? forse a un’ora? oimè, c’è ancora di peggio? già
io parlo al popolo, e il popolo è di tutti i colori, e ne fa di belle. Sareste
dunque di quelli che mangiano tre volte al giorno subito dopo i tre Angelus
Domini? In tal caso, miei cari, bisognerà bene che rinunciate all’onore di
convitare, o che vi limitiate a invitare i pari vostri. Per carità non
offendetevi di questa parola che è d’un’intenzione affatto innocente. Nulla di
più rispettabile nel buon vecchio popolo quanto l’attaccamento alle usanze
patriarcali dei bisavoli che si mettevano a tavola al tocco della campana
parochiale, e che d’estate facevano anche la merenda. Alcuni che vissero a
lungo, secondo natura, nella libertà del villaggio, ci forniscono anche in
città l’idillio piccante dei costumi campestri. Molti che di buon mattino si
dedicano al lavoro (nel senso energico e muscolare della parola), non possono
resistere più lungamente al bisogno di un pasto sostanzioso. Molti hanno a
sorvegliare uomini di fabrica, operaj, manifatturieri che appunto riposano
dalle dodici alle due. Nè dimenticherò che han l’orario obligato tante persone
côlte che attendono alla educazione della gioventù nei collegi, nei seminarii,
nei conservatorii, negli instituti di ogni specie. Ed ecco come quell’ora
diventa o indicatissima o anche necessaria per tanta gente non solo
rispettabile, ma amabile e cordiale al punto da voler fare frequenti inviti
alla propria mensa meridiana.
Ma qui appunto mi corre il dovere di avvertirli di limitare i
loro favori a persone che si trovino nelle stesse circostanze, e quindi nelle
identiche abitudini e che, salvo alcune eccezioni inevitabili, lascino nel loro
brodo tutti quelli delle ore cinque: perchè le abitudini diventano nell’uomo
una seconda natura, alla quale troppo penosamente si resiste; e le dietetiche
sono tra quelle cui più difficilmente si vorrebbe derogare. Figuratevi che
quando alcuno di costoro accetta per convenienza un vostro pranzo, comincia un
giorno prima a meditarvi sopra. «Dimani si desina a un’ora! (dico un’ora,
perchè le famiglie del mezzogiorno quando fanno inviti, diventano terribilmente
aristocratiche, e sono capaci di aspettare fino alla una), dunque bisognerà
tralasciare di far colazione: e poi, che si fa tutto il resto della giornata?
come si fa a ottenere la sera? vuol essere una gran noja!» Difatti a due ore e
un quarto, due e mezzo al più, il pranzo è finito. Si resta un’altra mezz’ora a
far chiacchiere, e poi? siamo ancora nel cuore della giornata, e questa famiglia
avrà le sue occupazioni. Si parte, ma per dove? e a che fare? come può
impiegare utilmente il tempo un uomo pieno di cibo e di bevanda? Pieno per più
ragioni: perchè non aveva fatto colazione, perchè della roba ve n’era, perchè
poi sovratutto ve la ingollavano per forza. E tanto più cresce il senso della
obesità, in quanto che per l’ora insolita anche la dose abituale di nutrimento
sarebbe troppa. Si gironza per le strade, ed è un’invidia a vedere il suo
prossimo snello e attivo che va preparandosi l’appetito per il pranzo. Si ha
bell’affettare un’aria disinvolta e rinunciare allo stecco a fine che nessuno
sospetti che si attende seriamente all’opera del chilo. L’uomo appena escito
dalle mani dell’ospitalità cordiale, ha scritto su tutta la persona le parole: ho
desinato. È un po’ più tondo e rubicondo del solito, il respiro alquanto
greve, e un tutto insieme d’impacciato e di svogliato che tradisce da un capo
all’altro della contrada il mistero di una digestione importante. E quì notate
che tutto ciò è in piena regola quando accade all’ora debita e in compagnia
degli altri: ma quattr’ore prima diventa un ridicolo anacronismo. Difatti gli
amici vi fermano, sogghignano, vi fanno confessare il vostro secreto, e
vogliono cavarsi cento curiosità, come diamine sia avvenuta la cosa, se il
vostro ospite abbia la coda, o almeno se sia della confraternita, e se la
minestra era ben satura di lardo, e se il vino era grosso, e se vi abbiano dato
il rosolio di garofani. È una disperazione. Alle cinque, quando il mondo si
ritira, si va, tanto per ammazzare un po’ di tempo, ad assistere al desinare
d’una famiglia di confidenza. Ma, oimè! è una gran noja, quando si sta
digerendo, a osservare gli altri a mangiare. Pare fino impossibile che si abbia
a trovar gusto nel cacciar giù quella minestra e quel manzaccio. Anche l’atto
del mangiare assume un aspetto sguajato e triviale: tutto l’individuo, fosse
pure una Saffo, o una Corinna, non si annunzia più che sotto i rapporti d’una
macina, di un frullone, di un laboratorio chimico: e si pensa con che pazza
disinvoltura l’umanità abbia da un bisogno cavato fuori argomenti di piaceri,
di abusi, di mali infiniti; si giugne a ripetere certi periodici proponimenti
di temperanza e frugalità, che poi svaniscono colla notte: insomma si passa per
tutte le stramberie della filosofia morale, sentimentale e animale: e tutto ciò
per aver pranzato a un’ora brutale.
Quì parmi sentire alcuno degli uomini del mezzodì (che vi
prego a non confondere con gli uomini del sud) a dimandarmi se dunque non
potranno più procurarsi la fortuna di convitare persone di garbo. Rispondo che
il caso è serio, ma non disperato: è appunto nei grandi mali che si spiega la
potenza dei grandi rimedii: eccovi dunque il vostro in due parole. Bisogna
precisamente invertire l’ordine abituale dei pasti, invitando al pranzo per
l’ora in cui siete soliti a cenare: e voi altri di famiglia per quella volta
cenerete al mezzo giorno. Che se mai, per supposto, il mezzodì fosse l’ora non
solo della vostra casa, ma del vostro paese (e se è quell’ora, vi saranno le
sue buone ragioni locali); allora, intendiamoci bene, sareste in piena regola,
e invitate pure tutto il mondo perchè io mi sono riferito, come dissi da
principio, agli usi di Milano, e quì la questione è principalmente sull’uso e
sul bisogno di uniformarvisi. Quando poi voleste proprio trattare un forestiero
dalle ore cinque coll’estremo della gentilezza e della deferenza, invitatelo a
cena e non a pranzo. Vedete come nelle cose ragionevoli io sia facile e
accomodante.
|