CAPITOLO TERZO
Quì temo che alcuni, anco tra i più benevoli lettori, non
abbiano a maravigliarsi e a perder coraggio alle tante difficoltà che io vo
loro accennando. Ma, cari amici, sono ben poche le cose che, a voler farle
bene, non sieno difficili; e al contrario sono quasi tutte facili quando ci
accontentiamo di farle male. Perfino a scegliere un buon zigaro di Virginia fra
tanti cattivi ci vuole il tatto e l’occhio e la pratica di un fumatore provetto.
V’ho io forse lusingati che l’arte di convitare sia facile? Appunto l’ho
chiamata arte, perchè bisogna impararla e rendersene padroni a forza
d’esercizio e di ingegno. Anzi, fra tutte le arti che si dicono belle, perchè
intese a soddisfare l’intelligenza e gli affetti, questa si dovrebbe chiamare
bellissima, perchè mira ad appagare e la mente e il cuore e il senso, e perfino
il ventre, che è pur tanto prosaico. Credevate forse che io dovessi fornirvi un
trattato di volgare epicureismo, e farvi ridere grassamente colla disputazione
sulle salse, o coll’elogio della selvaggina? Allora io avrei composto un libro
frivolo, e ciò non è più lecito nel secolo del progresso che vuole ogni opera
dell’ingegno coordinata a rigenerare, a rialzare, a rieducare tutto il corpo
sociale. Ed io, fedele al generoso appello, tento di perfezionare l’arte
dell’anfitrione, che ne’ suoi rapporti materiali è stata finora un monopolio
dei ricchi, e nei rapporti morali è poco meno che una rivelazione, una scienza
nuova. E pretenderete che una scienza nuova vi riesca facile di primo colpo?
Non bisogna però disanimarsi; anzi è d’uopo adottare la divisa di Galileo: provando
e riprovando: e raddoppiare di studii, e moltiplicare i pranzi, e voler
sempre per commensale qualche critico di gusto severo che vi renda ragione dei
vostri progressi: e sperare che coll’esercizio e col tempo vi renderete maestri
nei più riposti segreti dell’arte. Il conseguimento della gloria esige sforzi e
sagrificii; e di vera gloria a buon mercato non se ne vende in nessuna bottega.
Ma il terribile sta in ciò, che molte volte non si può
comperarla nemmeno a caro prezzo: perchè a forza di denaro si daranno pranzi
splendidi, magnifici, epuloneschi, sardanapaleschi: ma i pranzi dei capi ameni,
della giocondità sincera, della libera ciarla, delle lunghe risate: che si
ricordano per tutta la vita, e fanno dire ai vecchi: «Che belle ore si
passavano, e che cara società si trovava in casa del tale di buona memoria»;
oh! questi pranzi tanto desiderabili sono altretanto rari, perchè a saperli
combinare abbisogna e buon senso e bel cuore. Dico bel cuore, piuttosto che
buono: perchè il primo implica l’idea della delicatezza e della scelta. Il buon
cuore è una virtù che troppo facilmente degenera in vizio, perchè volendo
abbracciar troppo, finisce a non istringer nulla. Le umane forze hanno un
limite, e bisogna saperle calcolare e applicare saggiamente per trarne il
partito migliore. Disperdetele in cento scopi, e non ne raggiungerete alcuno.
V’han di quelli che ambiscono di giovare a tutti, servire a tutti, farsi amici
tutti: e non riescono in nulla, e nessuno si tien loro obbligato; e in mezzo a
mille conoscenti, è miracolo se trovano un amico. Lettori miei, avete mai
accettato per buona moneta la stima di uno che stima egualmente qualunque
altro? Avete mai avuto la menoma fiducia nella protezione e nelle lettere
commendatizie di certi protettori universali? E, ditemi, trovate appetibili
certe mense, dove un po’ per volta vedete a sedere un esercito di persone
nuove?
Sì: fra i traviamenti dell’arte nostra, mi è pur d’uopo
marcare quello di alcuni facoltosi, che fanno spensieratamente mille relazioni,
e prodigano le distinzioni della intimità a chiunque capiti loro tra’ piedi: la
casa di costoro è un porto di mare, e la loro tavola sta aperta per tutto il
mondo. Dio buono, dar da pranzo a tutto il mondo! ma questo è perfino un
invadere i diritti degli Umanitarii, ai quali soli è concesso di convitare
l’universo allo sterminato banchetto dei voti ardenti, delle speranze poetiche,
delle magnifiche profezie. Che allegria e che abbandono vi può mai essere a una
tavola ove siedano sempre diverse faccie sconosciute? e dove ogni momento
bisogna dar nel gomito al vicino, e susurrargli all’orecchio: «Chi è quel
pancione che vien dopo don Flamminio? — È N. N., parassito famoso, che si
caccia dapertutto ove ci sia da desinare, e che s’è fatto presentare solamente
jeri. — E quel magrino sentimentale vicino alla moglie dell’architetto? — È un
giovine artista, amico dell’architetto, che lo protegge e lo introduce nelle
case: dicono anche che sia il suo Cireneo. — Cioè? — Cioè che lo ajuti a
portare la croce del matrimonio.» A questi pranzi alcuni ci vanno per
convenienza; moltissimi per pranzare: chè in fin dei conti, anzi, in quanto
risguarda ai veri conti, è una gran ragione anche questa. Ma secondo le nostre
vedute estetico-morali, siffatti pranzi ci richiamano involontariamente alla
prosaica idea di una buona trattoria gratis.
Però: siccome appunto lo scopo di pranzare è in sè stesso
abbastanza ragionevole e buono per molta gente: siccome l’arte, se scapita ne’
suoi rapporti altamente filosofici, può essere vantaggiata nelle sue parti
materiali: quindi, siccome da questi pranzi possono difundersi nell’agiato
popolo e il gusto per le squisite vivande, e il senso dell’ordine e del buon
servizio, e l’amore dell’eleganza e delle confortevoli commodità del viver
dolce: così non insisterò più su questo tema del troppo facile invitare.
Rifletto poi anche che non tocca a me il farlo: perchè colle mie sottigliezze
ed esigenze soverchie riescirei agli antipodi della meta prefissa, insegnando
niente meno che l’arte di non convitare. E, data questa piccola assurdità,
volete sapere qual sia l’idea che mi fa paura? è la disapprovazione e l’odio di
tante persone rispettabili che fanno i commensali di professione, che hanno
sette cuochi per settimana, che insomma vivono della filantropica abitudine di
compiacere a coloro che desiderano compagnia alla propria mensa. Oh, agli occhi
di questa buona gente io avrei proprio composto il più iniquo e bestiale de’
miei libri: e correrei pericolo di esserne punito con alcuno di quei tremendi
articoli bibliografici che mi colmano di rimorsi, e mi fanno intisichire
d’avvilimento. Dunque, o ricchi benemeriti, spesseggiate pure e largheggiate
d’inviti, e date sull’arte nostra eloquenti e magnifiche lezioni pratiche, ben
più efficaci dei freddi e insipidi precetti affidati alla carta: e io dal mio
ritiro vi darò ragione e vi applaudirò sempre come i tanti affamati scolari che
vi fanno bella corona a tavola, avidi tutti di apprendere e perfezionarsi.
Vorrei solo una condizione: che su trenta giorni del mese ne riservaste uno,
almeno uno, pei veri amici.
Ma, oimè! che quì è proprio dove manca il terreno sotto ai
piedi. Le persone dal cuore troppo espanso, che sono tutto per tutti, hanno un
diluvio d’amici nel senso volgare e abusivo della parola: ma ordinariamente
sono destinati a non averne nella significazione nobile e sacra del concetto.
In ciò rassomigliano molto ai dotti enciclopedici che, a forza di trattar
confidenzialmente tutte le scienze, non riescono mai a possederne alcuna. La
cosa non è che troppo naturale. L’amicizia è oculata, e perciò, a lungo andare,
più gelosa dell’amore, che dalla sapienza antica fu dipinto cieco, e spesso si
appaga di illusorie apparenze. Primo e supremo elemento di quell’affetto è la
stima che conduce alle più delicate distinzioni: ma queste cessano di esser
tali se si usano con varii. Che uno vi confidi un’afflizione intima, o una
gioja secreta: ciò vi lusinga l’amor proprio, v’inspira interessamento e
benevolenza. Ma se quella confidenza fu fatta a molti, se vi accorgete che è
divenuta il secreto della communità, cessa ogni illusione, e la simpatia,
principio d’amicizia, si raffredda e svanisce. Nelle reminiscenze della propria
vita molti troveranno il fatto seguente: di aver ricevuto da un Tizio numerosi
e anche importanti tratti di gentilezza e cordialità: e di non aver mai potuto
provarne un senso proporzionale di affezione e gratitudine: del che, come animi
di buona tempra, si saran dati colpa e rimprovero. Ma di questa, non meno che
di altre supposte anomalie del cuore, se vorranno frugare nel fondo della
coscienza, troveranno le ragioni; delle quali la principalissima, se non anche
l’unica, sta in ciò, che quei tali favori venivano indifferentemente estesi a
molte altre persone, e, ciò che è peggio, ad alcune immeritevoli di
parteciparne.
Ma che diamine vo io spigolando nei perigliosi campi della
morale, quando si tratta di pranzi? E poi, le teorie generali e astratte
rassomigliano molto ai precetti delle poetiche, per le quali il mondo si divide
in due sole classi: la prima, immensamente piccola, che non ne abbisogna perchè
ha dal proprio ingegno il senso delle più squisite e riposte convenienze dell’arte:
la seconda, immensamente grande, che o non sa nemmeno l’esistenza dei trattati,
o non sa capirli, o non sa applicarli alla prova. E poi, c’è ancora di più. A
sciorinare precetti, e a vender consigli si fa presto: è il mestiere più
commodo e facile del mondo. Ma bisogna trovarsi negli impicci dell’atto
pratico. «Sì, il tale è un imbecille nojoso e insoffribile, ma frequenta la
casa da trent’anni, lo abbiamo sempre tra i piedi; ai pranzi, se non lo si
invita, egli ci viene istessamente: come si fa a cacciarlo via? è una specie di
onere vitalizio. Il tal altro è un briccone: chi non lo sa? ma è persona
influente e pericolosa, potrebbe farci del male: perciò lo teniamo da conto
come il migliore degli amici.» Miei cari, non so che dire; quindi interpretate
le mie massime a discrezione, e approfittatene alla meglio, secondo lo spirito
e non secondo la lettera. Aggiugnerò solo un pensiero circa ai cattivi
soggetti. È compatibile nel fatto di tolerarli chi veramente ha motivo di
temerli: ma chi ha una posizione indipendente e forte, no. È una vergogna
marcia, è una vera immoralità che i birbanti trovino il tornaconto a essere
tali anche per la nostra debolezza di carattere. Il non saper metterli una
buona volta alla porta equivale a incoraggiarli nelle loro infamità. Che se i
birboni stanno sempre fra loro in lega contro i galantuomini; perchè non vi
sarà mai la santa lega dei galantuomini contro i birboni? così questi trionfano
spesso su quelli; e così si perpetua una fonte d’infinite ingiustizie e di mali
infiniti.
Però, avanti di chiudere il paragrafo sulla scelta dei
convitati, bisogna che vi parli di una combinazione gravissima, che
assolutamente reclama un serio ed efficace provedimento, e sul quale ho a
proporvi una misura nuova, che s’accomoda a tutte le intelligenze ed è
applicabile da chichessia. Si danno in società dei casi di antipatia e
avversione così forti, che un tale schiva un tal altro a tutto potere, e per
nessun titolo non vorrebbe mai trovarsi con lui faccia a faccia in un piccolo
crocchio, e meno poi sedere alla stessa mensa. Cose riprovevoli, lo concedo; ma
bisogna pur farsene carico come di fatti non infrequenti. Per citare un solo
esempio, forse il più compatibile anche agli occhi della severa morale, vi
addurrò quello del creditore violento. Chi ha mai saputo definire siffatto
animale? Un impertinente che nega di riporre in voi la debita fiducia: che si
rifiuta di tener aperta una piccola partita di conti con la vostra rispettabile
casa: che non vi lascia respirare, e sotto ai più oltraggianti pretesti, e a
costo delle più odiose vie di fatto pretende niente meno che di essere pagato,
e a tempo fisso e brevissimo, contro i dettami della sapienza popolare che
inventò espressamente per questi indiscreti l’adagio a morire e a pagare non
è mai troppo l’aspettare. Costui vi trascina a forza in pretorio, dove
bisogna far sapere i vostri interessi a scribi e farisei: dove il mostro vi
promette a sangue freddo l’oppignorazione, la vendita giudiziaria, la
prigionia! E voi nel giorno susseguente, forse nel giorno stesso, andando a
sollevarvi l’animo con un buon pranzo in casa di un caro amico, dove si
lasciano i fastidii alla porta, v’innoltrate inconscio e giulivo nella sala, e,
oh vista! trovate là il vostro demonio persecutore. Ombre sanguinose e incivili
di Banco e del Commendatore, che osaste turbar le gioje delle mense; le
apparizioni vostre dovean essere inezie e scherzi puerili in confronto di
questa: perchè almeno voi sarete state infelici, scarne, e non avrete dato alle
vittime vostre l’insultante spettacolo del mangiare! ma il creditore è florido,
impassibile, non ha mai ciera da morir presto. Vedetelo a tavola: giacchè, per
quanto vi collochiate lontano da lui, un’attrazione magnetica vi spinge a
sogguardarlo, come dicesi avvenga dell’usignuolo in vista della serpe: eccolo
là che ride e ciarla e mangia, anzi divora, con un abbandono e una pienezza di
sentimento come se fosse in pace con tutti, come se tutto il mondo fosse suo. E
difatti, rapporto a voi, tutto il mondo è suo, poichè siete suo voi, e vi
trovate nella di lui terribile podestà. Che se il di lui sguardo s’incontra col
vostro, egli mette fuori per voi, tutto per voi, e impercettibile a chiunque
altro, un sogghignetto infernale che sembra dire: «Amico, non ti dimentico; ci
rivedremo!» Per un povero diavolo che sia posto a questo eculeo, il pranzo deve
pur riescire indigesto, venefico e degno di essere evitato a qualunque costo; a
costo, per esempio, di affrontare debiti nuovi.
Ora, dico io, tocca all’umanità e alla filosofia del secolo
onniveggente a impedire simili sciagure; a non permettere che l’ospitalità
diventi inconsapevolmente barbara e micidiale. Ma come si fa? per l’addietro la
cosa è sempre camminata nei modi seguenti: o andare al pranzo coll’olio santo
in saccoccia, come suol dirsi, cioè a tutto rischio e pericolo di funesti
incontri: o dover dimandare all’invitante l’elenco dei commensali, e se ci
verrà il tale, e se ci sarà il tale altro, e se mai sia probabile che capiti
Cajo, e se mai possa darsi il caso che sopragiunga Sempronio. Ma come si fa per
quelli che avrebbero bisogno di chieder conto di mezzo mondo? E poi siffatte
indagini, oltre al non essere il più delle volte praticabili per le tante
ragioni che ognuno vede da sè, sono anche quasi sempre sconvenienti perchè
implicano rivelazioni di sentimenti gelosi, o mettono altri sulla via di
studiare e imparare qualche segreta pagina della vostra vita. Quand’io
frequentava i pranzi, mi ricordo che nella mia qualità di scrittore un po’
rabbiosetto, ero sempre in grande sospensione di animo, per paura d’incontrarmi
o in faccie insoffribili a me, o in faccie alle quali fossi insoffribile io:
giacchè bisogna poi anche avere la virtù della filantropia, e saper dolersi dei
dolori altrui. E fino da quell’epoca io meditai il rimedio che vengo adesso a
indicare. Dunque proporrei che quando uno abbia preso la buona risoluzione di
dare un pranzo, fissi dapprima tutti coloro che vuol radunare, e poscia li
renda vicendevolmente noti con due righe d’invito a ciascuno. «Vi prego a favorirmi
nel giorno, ecc.; avremo la compagnia del tale, del tale, ecc.». Chi trova un
nome che gli sia insopportabile, si esentua con un pretesto qualunque, e tutto
è finito. Mancando alcuni, questo metodo lascerà sempre un bel margine di
sostituzioni posteriori nel gran numero di coloro che non valgono la pena di
essere annunziati prima, perchè la loro perfetta e garantita nullità li rende
incapaci di portare o inspirare avversione a chichessia. Però anche in questo
ci vorrà occhio e cautela: giacchè non v’è grado di melensaggine e d’innocenza
pecorina che non abiliti un uomo a divenire per lo meno un creditore brutale.
Finalmente, bisogna che mi appaghiate d’un’altra curiosità. I
piccoli fanciulli li tenete a tavola in occasione d’invito? su tale proposito intendiamoci
chiaro. O questi ragazzetti sono politi, tranquilli, graziosi, e nulla di più
naturale e ragionevole quanto radunare a mensa tutte le età della vita e
mischiarci alla nostra piccola posterità. Lo studio dell’infanzia è bello,
interessantissimo, commovente: nè vedo opportunità migliore d’istituirlo
spontaneamente e senza fatica, che nel libero e dimestico conversare del
pranzo. Certe osservazioni piene a un tempo d’ingenuità e d’acutezza; alcuni
lampi lucidissimi di una ragione ancora inconscia di sè medesima e quasi
istintiva; quella povertà di lingua che fa dei più communi vocaboli i più
bizzarri e felici traslati, dando al pensiero una forma ineffabilmente
originale e poetica; quel primo, debole, incerto manifestarsi di tendenze e
caratteri che poi diventeranno pronunciatissimi, immutabili come i lineamenti
del volto: tutto ciò per chi ha mente e cuore è miglior pascolo di qualunque
più astrusa disquisizione d’arti o di scienze. Pregherò solo i genitori a non
farsi mai commentatori, e meno apologisti della tenera prole, perchè v’è
rischio di pigliare i più grossolani qui pro quo e rendersi ridicoli.
L’incarico di lodare e ammirare i loro figliuoletti lo lascino tutto ai
commensali, che per quanto possano peccare di esaggerazione, staranno sempre al
di sotto del cuore paterno e materno, capace di travedere in una fatua
sguajataggine gli indizii d’un genio che darà lustro alla famiglia. Dunque noi
vogliamo a tavola la piccola Adelina e il piccolo Enrichetto. La prima sul fine
del pranzo verrà a farci la sua bella riverenza col solito avez-vous bien
diné? E noi la faremo salire sopra una scranna e la sentiremo a ripetere,
con gesti analoghi, il preambolo che declamò nell’ultima solennità alla
vicina parochia. Enrichetto poi verrà a confidarci nell’orecchio ch’egli è già
molto avanti nello studio dell’abecedario, che adesso non iscrive più le aste,
ma le parole, che sa tutte quante le orazioni a memoria, e che a scuola è più
bravo di Lorenzino e di Giacomino. Quindi vorrà farci ammirare la piccola machina
del vapore e l’ussero a cavallo, doni ricevuti a Natale dalla mamma grande e
dalla zia Dorotea.
Ma (seconda parte del dilemma) se i vostri ragazzi sono
sporchi, piagnucoloni, testerecci; se hanno il vezzo di allungare le mani sui
piatti o di rovesciare i bicchieri sulla tovaglia; se urlano per disputarsi la
testa o il culo del cappone: se, agitando le gambe come remi o il
cucchiajo come un aspersorio, tengono i vicini di posto in continuo spavento
pei loro abiti..., cari amici, farete una gran bella cosa a non lasciarli
nemmeno vedere quei diletti bimbi, speranze della patria: perchè non ci vuol
meno delle forze riunite del sangue e dell’abitudine a renderli tolerabili.
Perciò, nei giorni d’invito fateli pranzare a scuola, o mandateli da qualche
parente o vicino di casa; insomma fate in modo che non ci sieno. Che se mai
fosse inesorabilmente deciso di farci godere la loro compagnia, almeno abbiate
l’avvertenza di non ispargerli tra gli invitati, ma di trincierarli fra persone
di famiglia, e sopratutto di abbandonarli a sè stessi, risparmiando i
rimproveri e le lezioni di galateo. Che noja a sentire ogni momento il padre e
la madre a predicare! Sentite la mamma: «Ehi, Orsolina, abbasso quelle mani
dalla testa! giù quei gomiti dalla tavola! dritta quella schiena! ma dove hai
imparata la creanza? in un porcile?» Sentite ora il papà: «Signor Carlino,
signor Carlino, ho sempre da ripeterlo, che quando parlano i grandi, i piccoli
devono tacere, e che a tavola non si cerca mai niente? e sì che lei oggi è a
tavola per miracolo, dopo tante impertinenze e golosità commesse in cucina e in
dispensa: vergognaccia! bisogna sorvegliarlo come una scimia slegata.» Orsolina
si fa di bragia, alza una spalla e poi l’altra e poi tutte e due, inchioda il
mento sullo sterno, e fa mille attucci bisbetici e dispettosi: Carlino strilla
di confusione e di rabbia: bisogna farli strascinar via frammezzo al più
fragoroso crescendo musicale, complicato talvolta da quattro busse e dagli
abbajamenti del cane, perchè fino i cani detestano queste scene troppo intime e
famigliari. Voi però avrete pienamente giustificato la formola del vostro
invito, quando pregaste gli amici di venire in casa vostra a far penitenza.
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