CAPITOLO QUARTO
Ma è oramai tempo che veniamo al vero ed effettivo pranzo:
fin’ora non vi ho pasciuto che di ciarle, le quali possono bensì riescire
indigeste, ma non dànno alcun nutrimento. Abbiate dunque pazienza un istante
ancora, e poi vi metto a tavola, e staremo allegri. Affinchè i miei consigli
non prendano aria di pedanteria didascalica o d’oracoli da cattedra bisogna
proprio sedere insieme a mensa, e così dai casi pratici emergerà spontanea la
teoria: date casus, dabo leges, come dicea quel gran giurista Andrea Alciato.
Oh, appunto; oggi è il 20 febrajo e si va a desinare dall’amico Giorgio che, da
quanto ho capito, vuol trattarci in Apolline: benissimo! la tavola dell’amico
Giorgio sarà la nostra scuola, il nostro libro. Precedetemi di cinque minuti, e
anche annunziatemi, che io vi seguo tosto. Gran libro, vedete, quello della
natura e dei fatti! Giovani, che vi date a tentare la carriera delle lettere,
per carità di voi stessi non salite sui trampoli dell’idealismo e delle
fantasticherie: non fareste che battere la nebbia e i moscherini dell’aria e,
ciò che è peggio, scrivereste per voi soli. Ma se bramate colpire gli oggetti
reali e palpabili di quaggiù, mettetevi al loro livello, cioè abbasso, abbasso
molto, che alla peggio darete nelle gambe. Copiate sempre dal vero: riproducete
le vicende e le abitudini più communi, domestiche, giornaliere della vita, che
sono le più interessanti, che offrono ancora allo scrittore immensi campi
ricchi e vergini come le grandi foreste d’America: e in questo secolo positivo,
osservatore, analizzatore, motteggiatore avrete ben più successo e fama di
originalità che colle epopee decrepite e i voli matti della lirica e gli
elegiaci piagnistei e altri siffatti narcotici fuori di stagione. Siccome poi
la descrizione del vero è per natura sua una satira, perchè nel vero
sovrabbondano gli elementi viziosi, ignoranza, leggerezza, vanità, sciocchezza
e ridicolo; così non v’è quasi letteratura popolare possibile che non sia
eminentemente satirica: ogni altro genere (salvo poche illustri eccezioni) è
cantare ai sordi, e non distrae un minuto la società dall’assiduo e faticoso
esercizio dei suoi sette peccati capitali.
Spero che mi avrete inteso a discrezione, tanto più che v’ho
detto in poche parole quanto dovrebbe svilupparsi in un lungo discorso: e noi
adesso abbiamo fame. Sopratutto non mi farete il torto di applicare ciò che
dissi ai pranzi, i quali non sono un vizio ma una virtù. E che? mi credereste
capace di andare a desinare da un amico per metterlo in canzone? sarebbe il più
nero dei tradimenti. Io ci vo per fargli da mentore, per prodigare a Giorgio i
consigli della mia esperienza, e così poterlo presentare alla patria degno e
perfetto anfitrione1).
Manca un quarto d’ora alle cinque: entro in casa dell’amico.
«Madama, i miei rispetti: riverisco queste belle signorine: caro Giorgio:
signor avvocato, signor canonico, ho l’onore: servo di donna Eufrasia: signor
Onofrio, lei ringiovanisce tutti i giorni (complimento pessimo e da bandirsi
perchè in sostanza rinfaccia la vecchiezza): che bella ciera ti trovo, maestro!
frutto di quel buon appetito da suonatore che è passato in proverbio: ecc.». Le
risposte potete imaginarle. Intanto mi avvicino al fuoco e mi lagno della
stagione che è fredda assai. Il discorrere del tempo che fa non è cosa frivola
e sciocca come pensano alcuni. È un opportunissimo luogo commune quando si è lì
come marmotte e non si sa in che modo avviare una ciarla qualunque: massime in
un circolo dove non si conoscono bene i sentimenti dei singoli. È uno dei
pochissimi discorsi che si possono fare tra noi senza pericolo di compromettere
o di compromettersi.... anche in questi tempi di libertà, grazie alle così
dette spie, delle quali non v’è penuria mai. Quì però non è il caso, e l’idea
si accenna in via affatto generica. E poi è un tema che si accommoda a tutti,
perchè delle stagioni tutti se ne intendono e possono metter fuori il loro
savio parere. Difatti l’argomento vien afferrato con avidità e la conversazione
diventa a un tratto animatissima. Uno dice che gli inverni di Lombardia si
vanno facendo sempre più rigidi: soggiugne un altro che diventano anche più
lunghi, e che si passa di colpo dal gelare all’ardere e viceversa senza
temperature intermedie: cosicchè per molta parte d’Italia anche il bel clima va
a classificarsi tra i vanti dei tempi andati. Dai fatti si rimonta alle cause,
e Giorgio, appassionato per le grandi teorie cosmo-telluriche, dice che la
terra va progressivamente raffreddandosi dai poli all’equatore, e che un giorno
si avrà la Siberia
nel centro dell’Africa, e che infine gli animali tutti moriranno per mancanza
di calorico: parole che fanno impallidir di paura le donne, non escluse le
vecchie. Il secretario dà la colpa di questi mali alla distruzione delle
foreste, e massime agli improvidi diboscamenti delle montagne, cause anche
delle frequenti e rapide innondazioni e di tante altre publiche sciagure
prevedute e minacciate fin dal principio del secolo da autorevolissimi
scrittori2). Ma il signor Onofrio, che sorride e crolla la testa a siffatte
idee, proferisce gravemente che il vero e unico motivo delle rovinate stagioni
consiste nell’avere spalancato alla furia dei venti freddi quell’orribile
finestraccia che si chiama la strada del Sempione, e di fidarsi di lui che lo
sa e lo dice da quarant’anni e più.
Il maestro, che nelle sue escursioni artistiche di gioventù
capitò fino a Copenaghen a fregare il violino, dichiara essere inutile il
fantasticare sulle cause, ma importantissimo il rimediare agli effetti. Che nel
nord di Europa, dove si fabrica subordinatamente allo scopo massimo di
ripararsi dal freddo, l’inverno lo si vede e nulla più: ma per soffrirne tutti
i rigori bisogna venire tra noi dove si fabrica leggiero leggiero come se
dovesse essere una perpetua primavera: dove i cristalli doppii alle finestre
sono ancora un lusso da grandi signori: dove a parlare di stufe sotterranee
diramanti vene calorifere a un’intera casa è come a discorrere dei costumi
chinesi: dove con molto peculio si riscalda a stento una stanza, mentre si gela
in tutto il resto d’un appartamento: quindi in inverno tanta abbondanza di
malattie che si potrebbero evitare, e tanto tripudio della medicina. E lì si
scaglia contro alla moderna architettura non avente scopi nè carattere (ripeto
le parole del suonatore, io non c’entro), che si becca il cervello e fa sprecar
somme enormi in facciate piene di eleganze o frivole o assurde: e bugnati e
lesene e frontoni e statue pagane sul tetto (abbasso poi le botteghe da
cappellajo e da barbiere) e fregi con arpe e cigni, e perfino con teschi di
buoi che inspirano ribrezzo e pajono insegne da macello: e dietro a buaggini e
anacronismi così insopportabili si trascurano affatto le supreme esigenze
dell’epoca borghese e mercantile, quali sono i comodi interni, i conforti
domestici della vita.
Fra queste ciarle mi accorgo che la padrona di casa è
inquieta: vorrebbe fare la disinvolta e stare in compagnia, ma va e ritorna
ogni minuto: e quando si ferma un istante ha una parolina da dire nell’orecchio
della figlia maggiore, e poi un’altra per la seconda: e le figlie fanno da
corrieri, e riportano altre paroline secrete alla mamma. Oimè! di che si tratta
dunque? s’ha da dare l’assalto a una fortezza? siamo una mano d’amici venuti a
godere la vostra compagnia e a mangiare insieme un cappone: e se il cappone
sarà duro, tireremo più forte: e se una pietanza si sarà capovolta sui carboni,
avremo in compenso un aneddoto e una risata di più. Capisco benissimo che il
dare un pranzo è un avvenimento per questa famiglia, una vera giornata campale.
Ma appunto bisogna saper imitare i famosi esempj storici di quei sommi capitani
che dormirono tranquilli la notte precedente a una battaglia decisiva. Per
qualche cosa si scrivono le storie, e per qualche cosa le si fanno imparare
anche alle donne. E sapete mo’ perchè abbiano potuto dormire quegli illustri
condottieri? perchè avevano disposto tutto prima, e non restava più che
combattere. Così all’ora che abbiamo, cioè un momento prima di metterci a
tavola, le donne devono aver già ordinato tutto: altrimenti sarebbe da
applicarsi a loro l’oportet studuisse, riservato a quegli scolari
negligenti che cominciano a disporsi agli esami nel giorno di subirli. Sarebbe
diverso il caso se alcuno dei convitati, come pur troppo ebbi a vedere nella
mia lunga esperienza popolare, fosse tanto indiscreto da venire a seccarvi tre
o quattro ore prima della indicata. Allora si ha il diritto di piantarlo là
solo, o meglio di consigliargli una lunga passeggiata: perchè il padrone di
casa è occupato in cantina, la signora in dispensa, e le figliuole attendono ad
apparecchiare la tavola, a disporre i piattini delle paste e dei frutti, ecc.
Dunque non dubito che l’ansietà presente dipenda solo dalle ultime ordinazioni
del momento, e dal timore che tutto non vada bene a norma del già disposto.
Ma quì è proprio dove bisogna nasconder l’arte coll’arte e
affettare la massima tranquillità e indifferenza, come se si trattasse del
vostro ordinario di famiglia: e ciò per due ragioni: perchè il mondo è egoista,
e perchè esige anche nelle cose di poco rilievo la dissimulazione, arma
perpetua e indispensabile della convivenza sociale. Come egoisti, vogliamo che
le vostre inquietudini le teniate ben secrete, perchè ci danno tedio se non
dolore: e il non voler nemmeno sapere che altri si incomodi per noi, è l’ideale
del genere in discorso. Nel nostro caso poi e anche di pieno diritto, perchè
noi siamo venuti quì al solo fine di godere. Ma c’è di più: come uomini di
mondo avvezzi al continuo bisogno di mascherare gli interni sentimenti,
esigiamo la simulazione, la quale sta alla verità come la poesia alla prosa, o
meglio come le vesti al nudo, che è facile a figurarsi e sconveniente a
vedersi. Per esempio: noi sappiamo benissimo che quella leggiadra sposina,
legatasi per interesse a un vecchio stomachevole, sospira ardentemente non dirò
la morte del marito, chè sarebbe troppo, ma il giorno di diventare una
adorabile vedovella (sono così interessanti le vedovelle!). Il contrario
sarebbe nientemeno che assurdo. Eppure il dire che ciò sia è maldicenza, è
giudizio temerario, e perfino calunnia: vedete un poco dove vanno a ficcar la
calunnia! E guai al buon nome della signorina, se non celasse ben bene i proprj
sentimenti, dei quali sono tutti persuasi. Anzi, quando giugnerà l’ora fatale,
essa sarà per qualche tempo inconsolabile, e poi fortemente rassegnata, e in
fine anche felice, sempre per opera del tempo che è un gran balsamo anche per
le più crudeli ferite. Così, nel caso presente, è facile imaginare che per una
famigliola non troppo fornita di persone di servizio e di suppellettili, il
dare un pranzo numeroso e di pretensione è un impegno forte e imbarazzante. Ma
ve lo siete assunto, e bisogna portarlo con esemplare intrepidezza.
Ripeto che la dissimulazione è poesia, e prosaccia la verità.
Per il bisogno di attenersi alla prima la famiglia invitante deve essere tutta
sorrisi e cordialità e disinvoltura, e chiamarsi felice di passare, per nostra
bontà e degnazione, una sì bella giornata, e manifestare la speranza di potere
essere onorata altre volte. Ma se leggessimo la prosa dell’animo intimo, Dio sa
quali diavolerie salterebbero fuori! Non è improbabile, a cagion d’esempio, che
la padrona di casa pensi: «Quella bestia di mio marito! vuol grandezzare per
vanità, e mettersi a paro coi signori per rendersi ridicolo: e alle povere
donne toccano i fastidii; smagazzinare e capovolgere tutta la casa, e lavorar
tre o quattro giorni tra prima e dopo: a che pro? per consumare in due ore
quanto basta a vivere due settimane: e sciupare il fatto nostro per dei parassiti
che non ci servono a nulla. Avesse almeno lasciato fuori quella figura
antipatica di N.! ma no: se c’è un soggetto equivoco e mal capitato, Giorgio ha
il talento di tirarselo in casa pe’ capegli.» Amici, questa prosa è
spaventevole, e pur molto verosimile. Or dunque, se siamo soliti a passare la
vita ingannando e illudendo perfino noi stessi, non faremo almeno altretanto
riguardo al caro prossimo? Sì, la dissimulazione, celando mille disgustose
verità, è la virtù massima dell’incivilimento, e la sua vera arte poetica che
riesce a comodo e vantaggio universale. Oh, non c’è tanto da ridere quando
leggiamo in Molière di quello sciocco che si meravigliava di aver sempre
parlato in prosa senza saperlo: anche noi, senza avvedercene, parliamo quasi
sempre in poesia. Il mondo è un teatro, e la vita è una lunga comedia, quando
non è corta: noi tutti ora siamo spettatori, e pretendiamo divertirci ed essere
perfettamente illusi; ora siamo attori, e dobbiamo rendere con arte somma il
carattere che ci tocca o che ci scegliemmo a rappresentare; altrimenti la
platea fischia.
Anche Giorgio è inquieto: guarda l’orologio sul caminetto, e
poi l’oriuolo da tasca, e poi ancora l’orologio. «Che cosa hai, Giorgio? — Sono
già le cinque e mezza, e manca ancora il dottore. — Ebbene, se la tavola è
pronta, pranziamo: una mezz’ora di aspettazione è anche troppo, in regola
generale, per chichessia: quì poi non si tratta che di un dottore, ed egli
stesso non vorrebbe, secondo la sua scienza, che tanta brava gente patisse i
languori di stomaco per eccesso di riguardi.» Il diritto di arrivare un’ora
dopo dell’indicata, quando il pranzo è già a un terzo del proprio corso, non è
concesso che ad uomini di celebrità sterminata, enti eccezionali, angioli,
demonii, meteore, comete; per esempio, Byron, Liszt e altri consimili vagabondi
immortali. Questi idoli del secolo mirano in tutto agli effetti da scena, e li
attendono dalla nostra bontà, che è immensa essa pure. Quel giugnere desiderati
a lungo, e quando già si aveva disperato di possederli; quelle venti bocche che
si arrestano dal mangiare, e quei venti cuori che battono con più di frequenza,
e quei venti paja d’occhi che si affissano sul Genio trasognato, e quel
bisbigliare sommesso e rispettoso; tutto ciò è abbastanza piccante perchè valga
la pena di procurarsi e procurare siffatte emozioni. E nella stessa sera pei
caffè, per i palchetti dei teatri, per le conversazioni si sparge la notizia
che al pranzo del marchese A il famoso O (che è sempre un forestiere con un
nome esotico) aspettato per più di un’ora, arrivò alle sette e diciotto minuti,
dopo il manzo. E tutti inarcano le ciglia. Ma per farsi lecite queste cose
grandi, bisogna portare dei nomi grandi. Se in cambio di Liszt o di
Byron3) voi siete semplicemente il signor Taddeo, o il signor
Bartolomeo, non vi aquisterete altra fama che di villano indiscreto, o forse
nemmen tanto, perchè nessuno rimarcherà la vostra assenza o il vostro arrivo.
Giorgio, poichè vuol attendere ancora un momento a riguardo
del dottore, andiamo io e tu a dare un’occhiatina alla tavola.... eccoci. Bene
questa stuoja, e ottimamente questa stufa, che difunde un tepore delizioso.
Nella mia lunga esperienza mi è occorso di trovarmi a qualche pranzo, dove si
avrebbe dovuto stare in clacche, tabarro e cappello, e anche coll’ombrello
spiegato, non dirò sopra la testa, ma dietro le spalle, per ripararsi dai colpi
di vento che irrompeva nella sala a ogni aprir d’uscio. Forse col permettere
questi disagi, gli ospiti sagaci intendevano darci una eloquente lezione di
filosofia morale, ricordandoci che anche in mezzo ai piaceri l’uomo è
essenzialmente nato per patire.
«Eh, dico, Giorgio! che significano quelle cartoline
distribuite su tutti i coperti? la destinazione dei posti, eh? — Appunto. —
Perdona, mio caro, ma questa usanza mi sembra alquanto gretta, e non ti accadrà
mai di vederla tra quelle famiglie che dettano le leggi del buon gusto. Implica
l’idea di una certa importanza che si vuol dare al vario grado di merito dei
convitati, e ciò non va bene. Avendo tra gli ospiti alcune persone degne di
speciali riguardi, le s’invitano con disinvoltura a sedere a quei due o tre
posti che, secondo la forma della tavola o altre circostanze locali, appaiono i
più onorevoli. Tutti gli altri lasciamoli distribuirsi a loro beneplacito. Mi
imagino poi che nella destinazione dei posti avrai mirato allo scopo essenziale
di alternare uomini e donne il più che si possa. — Certo, questa è la mira
principale. — Capisco: pare quasi che si voglia farla in barba alla dottrina
cristiana, dove si separano i sessi perfino colle tende: ed è superfluo
l’aggiugnere che altra studiosa cura è quella di allontanare più che sia
possibile il marito dalla moglie, la madre dalla figlia: e di metter vicini quì
un pajo d’amanti già constatati, là due persone che offrano la probabilità di
divenir tali. Caro Giorgio, le sono tutte corbellerie di genere abbastanza
rancido, che per solito non conducono a nulla di buono. Certamente che la noja
o il piacere d’un pranzo diminuisce o cresce assai dall’avere vicino un
individuo antipatico o prediletto; ma chi può mai presumere di cogliere giusto
nella secreta, complicata, capricciosa e variabile facenda delle simpatie e
delle antipatie? Forse quei due che ordinariamente si trovano anche troppo
vicini, oggi avranno il ghiribizzo di tenersi l’un l’altro alla maggiore
distanza che loro la tavola permetta: lasciali fare. Quell’altro mo’ e
quell’altra che per commune opinione si schivano a tutto potere, oggi, vedi
stravaganza! capiteranno vicini a caso, forse per darsi reciprocamente
alcune spiegazioni: vorrai tu impedirneli? Insomma, queste attrazioni e
ripulsioni umane sono veri problemi di chimica, e qui si tratterebbe di chimica
animale, che è una scienza ancor molto bambina: lasciamo dunque fare alla
natura che l’ha esercitata da tutti i secoli, e quindi deve intendersene assai
più di noi. Perciò leva tosto quelle cartoline, e ognuno sieda presso a chi
vuole, che sarà meglio così. E, per esempio, chi avevi tu destinato di mettermi
alle costole? — Donna Eufrasia e la moglie del signor Onofrio. — Ah birbone!
trattarmi da giubilato in questo modo! fortuna che a tavola io non vedo sessi,
ma solamente piatti. Credo poi anche che quelle due anticaglie si detestino al
maggior segno: quanto sarebbe compromessa la mia imparzialità! No, no, voglio
avere da un lato te, per seccarti co’ miei consigli di filosofia gastronomica,
e dall’altro una delle tue figlie che almeno non dirà sciocchezze e, in cambio
di voler essere servita da me, starà attenta a non lasciarmi mancare di nulla.
Del resto, mi congratulo che la tavola è ben disposta e
ornata, e sopratutto che ci staremo commodi e con sufficiente spazio per
muoverci e manovrare delle braccia. Lo sconcio di far servire una tavola per un
numero maggiore di persone che non si possa senza disagio, è grave e pur troppo
assai frequente: anzi, mi ricordo di averne mosso lagnanza, sono già molti
anni, in qualch’una delle mie opere passate; credo precisamente nella Prefazione
delle mie opere future; ma il disordine continua, come se io non avessi mai
fatto gemere i torchi. È destino dei libri buoni di non essere ascoltati mai.
Il publico è così avvezzo a leggere teorie oscure e imbrogliate, sopra temi che
non hanno nulla a che fare colla vita reale, che, quando gli vengono sott’occhi
precetti sinceri, facili, evidenti e di giornaliera applicazione, crede perfino
che l’autore buffoneggi, lo chiama umorista, piglia in riso le più savie
ammonizioni, e seguita a diportarsi sceleratamente. Vi sarà una tavola che,
tirata alla sua massima estensibilità, può ragionevolmente servire a sedici
persone; e si vuol già mettercene intorno diciotto; via! per amore del prossimo
ci ingegneremo a starci. Sopragiungono altri due inattesi: che s’ha da fare in
questo caso? ilico et immediate apparecchiare una piccola tavola di
soccorso, vera tavola di salvamento per tutti e venti, giacchè accoglierà non
due ma quattro persone, a sollievo della mensa maggiore. Ma per solito non si
fa nulla di ciò: bensì si continua a stringere le file già troppo fitte della
tavola: per dare così a tutti un vero saggio di tortura, e sciogliere un
problema di fisica sull’ultimo grado possibile di coercibilità del corpo umano.
Per giugnere a così deplorabile risultato, partono dal dato fallacissimo che,
mettendo intorno alla tavola venti scranne bene unite e serrate, vi stanno
tutte: quasichè una persona di oneste dimensioni, non debordi dalle meschine
seggiole moderne delle nostre camere: e quasichè, anche non debordando, si
possa far senza di un certo spazio tra l’uno e l’altro per distaccare i gomiti
dalle costole. Che se fra i commensali vi sono donne fornite di molto sentimento
e uomini consunti al par di me, si finisce a levarsi da tavola storpiati,
coll’asma e coi crampi. Io, quando prevedeva siffatte angustie, teneva il
sistema di collocarmi a un angolo della tavola in modo da aver disimpegnata
almeno la destra: ma ciò non si può far sempre, e non dimenticherò mai di
essermi una volta trovato così stretto e compresso fra due signore, che dovetti
schizzar fuori dalla fila, mandando indietro due spanne la mia sedia, e
tenendomi lontano dalla tavola, per modo da non parer quasi che vi
partecipassi. Quando volevo allungare la destra sulla tavola, bisognava che mi
mettessi in profilo sul lato sinistro, e viceversa quando innoltrava la sinistra.
Se poi occorreva di allungare ambedue le braccia, mi toccava di attortigliarle,
come fanno le mosche quando si fregano le zampine una sull’altra. Per colmo di
sciagura, una delle due signore, fra le quali, cioè dietro le quali, mi
trovava, mi tenne certi propositi di estetica trascendentale, da farmi venire i
sudori freddi. Giunse a dirmi che le parve sempre cosa strana e inconcepibile
come a questo mondo si debba aprire la bocca per quella trivialità tanto
prosaica del mangiare e bere. A sì orrenda bestemmia del sentimentalismo contro
la providenza (che per lo stimolo dei supremi piaceri ci obliga al
soddisfacimento dei supremi bisogni) la risposta mi corse fin sulla punta della
lingua: ma, trattandosi di bel sesso, la contenni, e mi limitai a questa
osservazione: «Sarà benissimo come ella dice, donna Lucinda: ma il peggio si è
che almeno questa poca trivialità, giacchè bisogna pur farla, vorrei farla
bene, e non posso perchè siamo qui stivati e calcati come le sardelle in un
barile.»
Un moderno filosofo nell’opera: Les classiques de la table,
ci dice chiaro e netto: calculez sa longueur (de la table) de manière à
laisser une place de 24 pouces à chaque convive. Ora, ventiquattro pollici
corrispondono a sessantacinque centimetri, ossia oncie tredici milanesi. Non
c’è da ridere: si spende il calcolo sublime per molte curiosità astronomiche
che non servono nemmeno a fare il lunario, e non si esporrà il ragguaglio delle
misure per sedere commodi a pranzo? credo che in ciò mi darebbe ragione perfino
donna Lucinda, a cui dovetti quella volta comprimere tanto il sentimento.
Dunque tredici oncie di spazio per testa. Se poi è vero che le scienze hanno
sempre da progredire, e che ogni nuovo trattato deve allargare le conquiste
degli antecedenti, sarei quasi inclinato a dimandare un’oncia di più ma non
voglio soverchiare quel pensatore illustre: stiamo quindi alla di lui misura,
dalla quale però non s’abbia a demordere una linea, almeno quando si tratta di
uomini di molto peso e di donne grosse o vestite a vapore. E se trovate che le
famiglie sieno ancora incorreggibili sopra un punto così essenziale, vi
consiglio a recarvi ai pranzi muniti di quel braccio snodato che tengono sempre
in tasca gli assistenti di fabrica e i muratori. Giunti alla tavola, e vedendo
di doverci stare oppressi, cavatelo, misurate, e reclamate senza remissione il
pieno godimento delle vostre tredici oncie che vi toccano di stretto diritto, e
come la legitima, a termini del codice sullodato, e del mio.
Ora ritorniamo fra gli amici; ecco che arriva il dottore.
«Dimando mille perdoni a questa bella compagnia del mio ritardo involontario. —
Bravo dottore, non si aspettava che te: hai avuto qualche visita d’impegno, eh?
— Sì, da una contessina che mi volle presso al suo letto finchè fosse passata l’ora
del parossismo nervoso. — Giorgio, non credergli, veh! — Sei pur maligno: non
potrebbe essere vero? — Nemmeno per sogno: ti pare che abbia una ciera da curar
contessine? vogliono essere altre faccie; ed è un bel chè se gli lasciano
toccare il polso al guattero o allo stalliere. — Ah dottoraccio (per
distinguerti dal dottore), aveva ben ragione quella dama che ti chiamava una
gran lingua d’inferno!»
Signori, la tavola è pronta. — Tutti si alzano, ma nessuno
s’incammina, e formano un gran semicerchio intorno all’uscita: «Donna Eufrasia,
favorisca. — Signor canonico, a lei. — Oh, io sono di casa. — Avanti lei. — No,
davvero. — Prego. — Non facciamo cerimonie. — So il mio dovere. — Animo, animo,
prima il bel sesso. — Oh, si figuri, avanti lei. — Io resto sempre l’ultimo. —
A lei. — Non mi muovo. — A lei. — Faccia grazia. — Non s’incommodi. — Oh anzi.
— ecc. ecc.». Questa stolta gara a chi passa dopo gli altri... (Vedete un poco
l’ipocrisia umana: per passare da un uscio a un minuto secondo di differenza, ognuno
si fa modesto e si dichiara da meno di tutto il mondo; ma se si trattasse
appena di una piccola carica, di una promozione da guadagnar quattro soldi di
più, o da ottenere un soldo di più di considerazione sociale, ditelo voi che
furia di concorrenza a chi arriva prima, che raccomandazioni, che suppliche,
che mostre pompose dei proprj meriti; e talvolta che raggiri, che denigrazioni
contro i rivali, che infame giuoco di denunzie anonime e di calunnie: oh allora
si calpesta sotto ai piedi e coscienza e amici e parenti per passargli
avanti!). Dunque questa stolta gara a chi passa dopo degli altri, e questo
profluvio di stolte parole fu sempre, è, e sarà in uso chi sa fino a quando: nè
io ecciterò nessuno a singolarizzarsi prescindendone, dacchè è ammesso dalla
generalità che siffatti modi nojosi rappresentino la buona educazione e la
gentilezza. Solo vorrei pregarvi di un favore, che cessiate una volta di farvi
beffe dei pastorelli arcadi, perchè non finiscano mai di scrivere le stesse
sciocchezze; il mondo non è forse altretanto incorreggibile nel ripetere sempre
e poi sempre le medesime goffaggini e scimiotterie? A me pare che, salvo poche
eccezioni, tutto il mondo sia una vasta Arcadia, e il genere umano un immenso
gregge di pecorelle e di pecoroni.
Nelle case dei grandi signori, quando si passa dalla sala di
conversazione a quella del pranzo, si procede così: all’annunzio che la tavola
è pronta, tutti si alzano: il padrone di casa offre il braccio alla digniore
delle dame invitate: il digniore dei cavalieri invitati offre il braccio alla
padrona di casa: e così da digniori in semplicemente degni fin che ci sono
cavalieri e dame; il tutto con certo ordine e con certe regole destramente
osservate, sulle quali è superfluo illuminare il popolo. Dopo segue alla
rinfusa e senza smorfie la gente anonima, l’avvocato, il ragioniere, il medico,
il prete di casa, e se c’è di peggio: persone tutte che corrisponderebbero
presso a poco alle ombre delle antiche cene romane. Ed è proprio una
consolazione a vedere come queste creature in sì distinte occasioni
sappiano diportarsi bene. Capiscono che sono là per favore, che bisogna
osservare e imparare, lasciar fare e obedire. Perciò non alzano mai la voce; si
lasciano servire quando viene la loro volta; non istorpiano di cortesie i
vicini di posto; insomma, la loro officiosità è passiva, riserbata, umile, come
quella dell’Azzeccagarbugli alla mensa di don Rodrigo. Ma quando si trovano nel
loro elemento naturale, fra il popolo, dimentichi affatto di quelle sublimi
lezioni, ritornano agli istinti della propria specie, e riescono d’una
clamorosità così assordante, d’una così opprimente gentilezza, d’una cordialità
tanto vessatoria, che sono capaci di sgridare da un capo all’altro della tavola
o la signora tale perchè non mangia come un omaccio, o il signor tal altro
perchè non beve un bicchiere di vino ogni minuto.
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