CAPITOLO SESTO
È qualche tempo che Giorgio risponde a stento, e s’è fatto
serio: diamine! che gli fosse salita la mosca al naso per l’affare delle
candele di sego? Io ve l’ho pur detto che la verità per solito è una prosaccia
che disgusta. Ebbene, lasciamolo tranquillo e torniamo a discorrere con gli
amici di prima. A costo di una marcatissima sproporzione fra le parti del mio
discorso, sarò molto breve, e mi terrò sulle generali circa al resto del
pranzo, poichè infine cosa s’abbia da mangiare e come, tutti lo sanno: e questa
è piuttosto opera del cuoco che mia. Ho voluto difundermi un poco sul primo dar
mano al cucchiajo e alla forchetta per dimostrare quanta estetica contenga la
sola minestra, e in qual torrente di filosofia logica possa nuotare un salame.
Sopratutto apprenderanno i mal pratici che sulle minime cose si può, anzi si
deve sottilmente ragionare; e per paura di grossolani errori avranno ricorso
agli intelligenti dell’arte per lasciarsi dirigere nei loro conviti. Ma se io
dovessi dilungarmi egualmente su tutta la partita materiale del pranzo, e
discutere su ogni briciola e ogni stecco, finirei a darvi un volume grosso come
il calepino delle sette lingue, e allora addio popolarità: avrei scritto
solamente per i dotti che d’ordinario sono proprio tra quelli che non possono
mai convitare.
Principal pecca dei conviti popolari è che non si rispetta la
gran massima ne quid nimis, tanto raccomandabile anche nelle ottime
cose. Domina una certa paura di non poter mai farsi abbastanza onore, e quindi
si mettono in una specie d’orgasmo che li fa passare in tutto quella calcolata
e sapiente misura che è primo elemento del bello in ogni arte. Perciò piatti a
profluvio, e troppo conditi e sapidi, e un predominio di vivande d’indole
soverchiamente calida e stimolante. È ben raro il caso di trovare un pasto
confidenziale e leggiero che ci faccia risovvenire del famoso motto di
Ottaviano Augusto, il quale invitato da un patrizio romano a una cena non
abbastanza degna di lui, gli disse nell’accommiatarsi: «Io non sapeva di
esservi tanto amico» (che epigramma immortale! ci sta dentro tutto un
Voltaire). Ma avviene assai più di frequente che i desinari d’invito sieno di
così opprimente lunghezza, e ci sia tanta roba che sembrano fatti per saziare
gli elefanti e le balene. Perchè mai dodici, quattordici pietanze e peggio
ancora? Si porta intorno un ventricolo solo, miei cari, e non si può insaccare
le vivande nelle coscie o nelle gambe. Perciò quella gran sequela di cibi è una
superfluità assurda come i popolatissimi harem dei principi maomettani; e noi
dobbiamo lasciarla a gloria esclusiva della gentaglia denarosa, quando celebra
nozze, e vuol farsi ammirare dal rozzo parentado. Là tutto è in armonia; e la
sposa grassa e rubizza, con indosso tutti i colori dell’iride e mezza bottega
d’orefice, incoraggiata assiduamente con la voce e coi gomiti a mangiare,
risponde sghignazzando: «Sono piena che non ne posso più», e fra gli evviva
assordanti scaglia manate di confetti in volto agli avvinazzati commensali.
Un pranzo di buon gusto, lontano egualmente dalla parsimonia
come dalla matta ostentazione, dovrebbe constare, a mio debole avviso, di
cinque piatti o, al più, sei: i tre d’obligo, frittura, lesso, arrosto, con
qualche altro intermedio. Non terrò computo nè d’una verdura, nè d’un po’ di
salato, come ho detto indietro. Volete proprio sfoggiare? aggiugnete un dolce,
un gelato e altre bazzecole di credenza: chiuderò perfino un occhio se vi sarà
un pesce squisito che per noi gente mediterranea è oggetto di lusso; e allora
avremo un vero pranzo in apolline. Ma poi basta, basta davvero: il di più è
sprecamento, è lungaggine, è noja, è indigestione, è lavorare a benefizio della
medicina.
Nè vanno più in là le case cospicue per ricchezza e buon
governo, nemmeno in giorni d’invito, salvo eccezioni affatto straordinarie: perchè
insomma il superfluo e il troppo non vanno bene per nessuna classe, altrimenti
i re dovrebbero mangiare per ventiquattro ore ogni giorno: perchè il pranzo da
me accennato tien fronte alla potenza di qualunque strenuo mangiatore: perchè a
dir bene le sue orazioni dal principio sino alla fine, c’è da diventare obeso e
stupido come il boa quando comincia il suo chilo di varii mesi: perchè se c’è
un mostro, un imbuto senza fondo, cui regga la coscienza di levarsi da siffatta
tavola con un peccato di desiderio ancora, amici, vi prego a farmelo conoscere
quest’uomo-fenomeno: che io sono capace.... di dedicargli il mio libro in pegno
di ammirazione.
Molti osserveranno che in alcune grandi case si danno pranzi
più magnifici di quanto io dissi. Lo so, e ne’ miei tempi felici sedetti
anch’io a quelle imbandigioni eroiche, e tenni fermo a quelle erculee prove. Ma
bisogna che io metta a riscontro quei casi e il caso vostro, per dimostrare
come gli esempii eccezionali sieno piuttosto da ammirarsi che da imitarsi (espressione
rubata agli ascetici): in quel modo che non si consiglierebbe mai alla gioventù
l’imitazione di Shakespeare o di Byron, perchè quanto in loro rappresenta
l’estrema potenza del genio, sarebbe negli altri tronfiezza puerile e sforzi da
nani. Sapete che avvenne d’Icaro quando s’attentò di volare con ali fittizie! e
che luttuosa fine abbia incorso quella rana che a forza di gonfiarsi pretendeva
emulare il bue!
Primieramente siffatti pranzi vanno riguardati anche sotto al
nobile aspetto d’una esposizione artistica, ove fra tante cose si va ad
ammirare l’opera d’un cuoco oltramontano da dieci franchi al giorno, ed un
credenziere da non so quanti altri: quando che nelle case del buon popolo non è
raro che si abbia da compatire un mediocrissimo brucia-pentole, o
fors’anche un’umile servetta da dieci franchi al mese: e da ciò nasce che per
voler dare un gran numero di piatti bisogna ricorrere terque quaterque
al sullodato majale. In secondo luogo, alle grandi mense o tutti i piatti
(salvo la frittura e l’arrosto che si portano al momento debito) campeggiano
già sulla tavola disposti in giro e sopportati da vasi d’argento caloriferi:
oppure ogni coperto va munito della lista delle vivande, scritta per due terzi
in francese e per un terzo in inglese (giacchè in lingua italiana non è
permesso nemmeno di mangiare). E mi ricordo che la prima volta quella carta
l’ho creduta un madrigale, e dissi ingenuamente fra me stesso: «Vedi, vedi! i
conti e i marchesi pranzano in poesia.» Ora, con qualunque dei due sistemi il convitato
vede o prevede di primo colpo tutto il pranzo e le tentazioni tutte della gola;
e se non si sente abbastanza forte per tutte soddisfarle, si riserva con saggia
economia per quanto vi ha di più simpatico e solleticante al proprio gusto: ben
inteso, che non si usa mai a importunare, nè tampoco a rimarcare se Tizio si
serva delle vivande in piccolissima dose, o se Cajo ne lasci passare diverse
senza prenderne affatto.
La cosa è ben differente alle tavole del popolo. Ci si va di
solito credendo di sedere a un pasto d’amicizia, e questa opinione è confermata
e ribadita dai padroni di casa che protestano di non aver fatto nulla più del
quotidiano, anzi raccommandano di pensar bene a provedersi in principio per non
trovarsi corbellati dopo: e vi obligano ad andare in seconda di tutto, del qual
disordine parleremo più avanti. Perciò si mangia e si mangia: arrivano poi i
piatti fini per gli ultimi, quando la maggior parte dei convivi non si trova
più in lena da far loro le meritate accoglienze: e allora, oh che rimorso
d’essersi lasciati menar via con tanta spensieratezza e imprevidenza dal
salame, dalla frittura di cervello, dal manzo, che sono i cibi di tutti i
giorni! Rimorso molto paragonabile a quello di coloro che avendo abusato della
vita in gioventù, sono condannati a passare una virilità inetta e inerte.
Ma v’è ben altro ancora. A quelle massime mense le cose
camminano con una speditezza meravigliosa. Maggiore il numero delle persone che
servono, di quelle che si fanno servire: è un esercito che lavora con
evoluzioni simultanee, precise, serrate. Chi apporta, chi ritira, chi taglia,
chi stura: a ogni piatto vi armano d’una posata nuova, vi offrono una salsa
omogenea, vi versano un apposito vino. L’anima e i sensi sono continuamente e
seriamente occupati, e sembra di essere sotto all’incantesimo di una
fantasmagoria. Ai prodigi della cucina succedono quelli della credenza, ossia
la seconda tavola, più ricca e mirabile, se può dirsi, della prima. Ma quella
battaglia grande è altretanto breve; è un veni, vidi, vici che si compie
nel giro di un’ora e mezza. Siffatta prestezza sembra eccessiva al volgo
inesperto; chi però fece parte di quelle campagne illustri può valutare quanto
vi sia di ardito, di sublime, d’inebriante in quei súbiti assalti, in quella
rapida distruzione, in quel servizio vorticoso, in quel pranzare fulmineo. È
l’arte spinta all’ultimo grado d’idealità. Disse Parny, non so più dove, che les
dieux font bien et font vite; e io, trattandosi dei Luculli a tavola, dico
che les dieux font vite et font bien. Nè s’ha poi a credere che quella
prestezza sia opprimente: oibò! allora non la userebbero coloro che hanno la
missione di raffinare tutte le voluttà della vita. Il tempo, a considerarlo in
astratto, pare brevissimo, e più ancora quand’è passato; ma intanto che passa
ci mette proprio tutto il tempo che occorre: e nello spazio di un’ora e mezza,
ci sta commodamente del gran bene e del gran male.
Ma i pranzi del popolo oh come sono lunghi quando assumono una
certa importanza! Un po’ che scarseggiano le persone di servizio, e nelle
occasioni solenni s’imbalordiscono e non sanno più quello che si facciano: un
po’ l’operazione del trinciare eseguita sulla tavola con grande stento e
prosopopea da qualche commensale mal pratico, che ad ogni incontro di articolazione
sbuffa e si lagna del coltello male affilato: un po’, e assai più che un poco,
le ostinate cerimonie che alla loro volta fanno tutti perchè gli altri si
servano prima di loro; quindi un andare e tornare, e balzare del piatto come
battuta e rimessa al giuoco del pallone: un po’ che alcuni, dopo essersi fatti
pregare ben bene a servirsi, istituiscono un serio esame sul piatto, e voltano
tutti i pezzi, e non trovano mai la porzione che fa per loro, e finalmente
vogliono appena un bocconcino, e dimandano una suddivisione perchè si è
trinciato troppo grosso: e poi quel terribile secondo giro del piatto in umile
e supplichevole ricerca di chi si lascia trascinare a far bis: e poi, e
poi.... pensateci, e di questi poi ne troverete tanti altri: io sono stanco
di noverarli. Fatto sta che se le portate sono molte, è un vero sgomento a
pensare quanto duri un pranzo: perchè, mentre dai grandi signori dodici piatti
sembrano sei, dal popolo sei piatti sembrano più che dodici. A me è occorso le
tante volte di stare a tavola più di tre ore. Vi pare poco? ebbene, mi accadde
in occasioni di nozze di starci più di quattro ore. Non vi fa ancora
meraviglia? ebbene i tesori della mia esperienza sono inesauribili: in campagna
da grossi fittabili che celebravano contratti di formaggi (se male non mi
ricordo) io ho assistito a uno di quei pranzi dove le ore non si contano più
perchè trattasi di porsi a tavola a sole meridiano, e trovarsi ancora là a
notte fitta. E per numerosi che fossimo, c’era da mangiare per dieci volte tanti.
Oh quanto bue, quanto vitello, quanto majale, quanto vino grosso, quanti
capponi, quante anitre, quanti tacchini, e che catasta di mascarponi, e che
lago di fior di latte densissimo (pànera doppia)! Infine poi, per
coronare l’opera, un boccale per testa d’un così detto caffè levante bollito in
una gran caldaja. Desinari d’indole ciclopica, titanica, che risentono di
epoche anteriori a qualunque tradizione storica, che opprimono come l’incubo
solamente a rammentarli: tanto più noi, omiciattoli degeneri e flosci delle
città, sentenziati dal Gozzi per Saporiti bocchini e stomacuzzi — Di molli
cenci e di non nata carta.
Lasciò scritto un sapientissimo autore che la mensa è quel
luogo dove non si patisce la noja durante la prima ora. Da ciò è facile
inferire che probabilmente ci annojeremo nel corso della seconda. Dunque
imploro che evitiate almeno la terza a riguardo delle persone di buon senso e
di buon gusto che onoreranno la vostra casa. Sit modus in rebus: due ore
di tavola è proprio un bell’assegnamento. Capiterà benissimo di starci anche di
più, e spontaneamente, e piacevolmente: per esempio, d’inverno, trovandoci in
un ambiente delizioso e in compagnia simpatica, ci fermeremo un’altr’ora a
chiacchierare e berne qualche sorsetto ancora tra una ragione e l’altra; ma,
ben inteso, sul tapeto: cioè a pranzo assolutamente finito, in modo che chi
n’ha volontà possa moversi, e cambiare aria senza la menoma taccia d’inciviltà:
perchè tante ore d’obligo a continuamente masticare adagio adagio e seduti
sempre a quel posto, sono una enormità; e all’uomo ragionevole deve sembrare
d’essersi trasformato in una bestia ruminante, e trovarsi legato alla
mangiatoja. Aggiugnete poi che è cosa malsana quell’insistere per tanto tempo a
dare cibi da elaborare al ventricolo, obligandolo a ricominciare ogni istante
le proprie operazioni, e quell’ostinato sovraporre materie nuove a materie già
concotte, sciolte, e pronte per le seconde vie. Tutto ciò disturba la
tranquilla e normale facenda della digestione: lo stomaco e gl’intestini
s’imbrogliano nella complicata gestione di sostanze tanto varie e di varia
data. È come quando si lasciano indietro molti figli di tre o quattro letti;
sono sempre affari ingarbugliatissimi che danno tanto da manovrare agli
avvocati. Così partirete da quei desinaracci per mettervi in mano dello
speziale.
Dunque, agli Illustrissimi la gloria dei pranzi illustri: al
popolo il modesto vanto dei pranzetti alla buona. Quando non si faccia troppo è
anche facile far bene, e si può escire dall’ordinario con alcuni piattini
squisiti, da scegliersi a piacere secondo il genio della cuciniera e anche
della padrona di casa che in bella gara faranno campeggiare i loro rispettivi
colpi di riserva. Su di che voglio limitarmi a una sola avvertenza. Per evitare
le vivande soverchiamente communi, molti omettono il manzo. Male! perchè quello
è il cibo per eccellenza, il principe dei cibi, il piatto della virilità, del
buon senso, del gusto severo. Il dimenticarlo in un buon pranzo, sia mo’ a
lesso, sia in ristretto, sia all’inglese, mi renderebbe similitudine di
chi, scrivendo la storia della letteratura italiana, dimenticasse l’Allighieri.
Sì, il manzo è il Dante delle mense, come un ghiotto pasticcio di tartufi e selvaggina
ne sarebbe l’Ariosto, come.... Peccato che dovrei dilungarmi troppo dal mio
punto di vista: altrimenti, vi farei sentire che, in forza di quella mirabile
armonia che lega tutte le opere di natura, non che tutti i lavori dell’arte per
rapporti incomprensibili alle menti volgari, ogni grande scrittore può
ragguagliarsi a qualche vivanda, dalle più semplici alle più complicate: con
che, senza tante sottigliezze cachettiche, e pedantesche dissertazioni,
s’impronterebbe nella memoria del popolo l’indole, la fisonomia, il carattere
individuale dei sommi nostri poeti. Che bel progresso sarebbe questo di non
designare più le pietanze col loro nome prosaico!
M’imagino di udire un dialogo fra due amici che partano da un
desinare cattivo. «S’è pur mangiato da cani, veh! — Si capiva fin da principio
che la doveva andar male: che broda lunga era quel Passeroni! — E il Dante
poteva essere più duro e indigesto? l’ho ancora sullo stomaco che non mi vuol
passare. — Sai perchè? ritengo di certo che non fosse Dante, ma Beatrice. — Mi
sentii tutto a consolare quando capitò in tavola il Metastasio: ma anche lui è
riescito troppo molle e dolciastro», ecc. Di questa nuova e istruttiva
nomenclatura ne parleremo forse altra volta. Ora ritorniamo al nostro discorso.
Non crediate però che s’abbiano ad ammirare soltanto i
desinari illustri, dietro il confronto che ho istituito fra le mense dei grandi
e quelle del popolo. L’antitesi sarà riescita utile coll’additarvi molte pecche
da schivare, e sopratutto col dimostrarvi che bisogna desistere da gare per le
quali voglionsi e consumata pratica, e gusto raffinatissimo, e grandi mezzi, e
artefici famosi. Del resto, l’uomo deve essere enciclopedico e sapere
apprezzare il bello e il buono dovunque si trovi: e ai pranzi popolari, quando
sieno ben regolati, se ne trova assai. Dai grandi si mangia meglio; ma tra di
noi si mangia più allegramente. Là si renderebbe ridicolo chi lodasse una
vivanda; quì è permesso lo sfogo di tutte le esclamazioni per un piatto che ci
vada a sangue. Là si parla sommessamente, rimessamente, come se avessimo la
sordina alla voce; quì si grida, si schiamazza e si sghignazza per ogni mosca
che voli. Là si va sempre a dar ragione; quì si può anche dar torto, e le idee
si appurano nel crogiuolo della più calda e vivace polemica. Là è un continuo
stare in guardia di sè medesimi e fingere di essere educatissimi: quì il
galateo è abbastanza largo e indulgente. Là incutono soggezione perfino le
livree, e specialmente i camerieri di primo ordine che vestono con una eleganza
umiliante, e che sopratutto taciono e stanno attentissimi; quì colle persone di
servizio si ride e si scherza, e si dà loro del tu, e anche si stringe la
guancia tra l’indice e il medio a una bella servetta. Là si compare in giubba e
guanti gialli e stivali inverniciati: e se trattasi di dine prié, cioè
di pranzo d’etichetta con invito a stampa, si va in iscarpe e calzette di seta:
e guai se fa cattivo tempo, perchè bisogna proprio discendere da un lurido fiacre
davanti a quel terribile guarda-portone, minosse e cerbero al tempo stesso, che
giudica le persone dall’equipaggio, e ha un sogghigno ineffabile per le
carrozze da nolo. Ma tra noi si va in abito di mattina, e se c’è un po’ di
fango alle estremità inferiori, purchè sia recente, è ammesso, per l’ottima
ragione che le gambe non devono andare sulla tavola, ma sotto. Là, fra gli
aristocratici, suda pure e ansa dal caldo fino che vuoi, che bisogna star
sempre duro e impiccato nella cravatta inamidata che ti fa muovere tutto d’un
pezzo come chi avesse un vescicante alla nuca: quì, se le signore lo
permettono, si sta scollati, e anche in maniche di camicia, e perfino con le
braccia napoleonicamente al sen conserte, e appoggiate sulla tovaglia.
Oh, viva noi! In due parole, là domina l’arte, quì trionfa la natura. Per ciò è
bene variare: di quando in quando un pranzo eroico ci solleva l’animo
all’ammirazione del sublime, e ci porge utili insegnamenti per difundere e
trapiantare nel popolo quella porzione di usi nobili che è trapiantabile. Ma
per il consueto della vita il nostro cuore inclina ai pranzetti liberi,
cordiali, allegri; perchè insomma noi siamo il buon popolo, il caro popolo, e chi
di gallina nasce gli conviene razzolare.
FINE DELLA PRIMA PARTE
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