Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Giovanni Rajberti
L'arte di convitare

IntraText CT - Lettura del testo

  • PARTE SECONDA
    • PREFAZIONE SECONDA
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

PARTE SECONDA

 

 

PREFAZIONE SECONDA

 

Troverete abbastanza strano e sproporzionato che si faccia un’altra prefazione più grossa della prima al secondo fascicolo d’un’operetta. Ma non posso dispensarvene in buona coscienza, avendo un tale profluvio di cose a dirvi che, per quanto importantissime, non mi sarà possibile il dirle tutte. E poi, siccome vengo assicurato da molti che la prefazione è sempre la parte più felice d’ogni mio lavoro, io non la tralascio mai: anzi una volta volendo tentare di essere felice dal principio alla fine, ho composto un libro che era tutto prefazione: a un di presso come si direbbe d’uno sciocco che è tutto.... non so se mi spiego; e non cominciamo proprio la prima pagina colle trivialità. Ma quantunque io tenti ogni mezzo per servir bene gli avventori di bottega, non mi è mai possibile di piacere a tutti: credo anzi che il publico sia alquanto malcontento dell’ultimo mio parto: e, per parlare con più sincerità che rispetto, anch’io non sono troppo contento del publico rispettabile: oh che delizia se andassimo sempre così d’accordo in ogni cosa!

Per altro, ciò dovrebbe dipendere dall’essere questa la vera epoca dei malcontenti: e mi pare che lo siano tutti e dapertutto. Malcontenti quei che dettano, e malcontenti quei che stanno curvi sotto alla dettatura: malcontento chi stampa, e malcontento chi legge: malcontento chi vuol essere pagato (intendo sempre dei libri), e malcontenti coloro che pagano, e perfino coloro che non pagano mai. È proprio un’influenza dell’aria e del tempo cattivo: voglia dunque il cielo che sia un malanno temporario. Io però, ammettendo in massima di avere tutto il torto, perchè uno non deve mai avere ragione contro molti; anzi, pregando chi mi vuol bene a non andare in collera per le parole già dette, vorrei, così in via puramente academica, ventilare i motivi del malcontento e dei lettori e dell’autore. Proviamo.

Molti mi spiattellano in faccia chiaro e tondo che l’Arte di convitare gli ha fatti ridere molto meno di quanto speravano. Oimè, dite davvero? per essere la prima osservazione e anche la più tremenda, e mi ferisce in mezzo al cuore. Io che non ho mai creduto di valere ad altro che a farvi ridere, ma che in questo mi stimava abilissimo, ora dovrò convincermi della mia inettitudine anche in una cosa tanto da poco? È il più crudele dei disinganni, e mi darei alla disperazione se non fossi in dovere di attendere il colpo finale dall’esito della seconda parte. Cari amici, perdonatemi; che se avete riso poco, non è stato per colpa mia: l’intenzione era ottima, e in tutta buona fede io mi teneva certo di farvi smascellare: altrimenti, che bisogno di escire in quella bravata di sfidarvi a non ridere? vi siete messi in puntiglio, e siccome in una sfida qualcuno ha da perdere, ho perduto io che sono solo contro tanti. E sì che, per raggiugnere il mio scopo, ho fatto di tutto: non ho risparmiato lazzi freddure: e quando me ne cascava dalla penna alcuna meno cattiva, mi ci fermava sopra, e la voltava su tutti i lati, e la sminuzzava, come se volessi dire: «Ridete, ridete molto, e ridete ancora, chè la m’è venuta fuori pur bella

Ho rappresentato il personaggio dell’uomo frivolo, dell’affamato, del goloso, del leccardo, perfino del morto resuscitato, e almeno questo è mediocremente nuovo: nella seconda parte rappresenterò un pochetto anche l’ubriaco: ma insomma, un galantuomo che cosa può fare di più per non mancare al proprio assunto? ho da chiamarvi in piazza a suon di piffero e tamburo, e, distesa la tela per terra, tentarvi sopra il salto mortale? farei un capitombolo molto più sconcio di quello d’un libro mal riescito. Ma queste sono ciarle, e il fatto è che voi non avete riso abbastanza, e io non posso darmene pace: e se vi conoscessi tutti a uno a uno, vorrei rendervi il vostro denaro, chè mi sembra di averlo rubato: e coloro che lessero gratuitamente, pagarli io del tempo gettato.

Però, vi è un proverbio che pare composto espressamente pel mio caso, e destinato a salvare, come suol dirsi, la capra e i cavoli: oh! un buon proverbio a tempo vale una California: è come un corpo di riserva che entra fresco nella battaglia a decidere della vittoria. Eccolo: risus abundat in ore stultorum. Dunque se avete riso poco, è perchè siete saggi: dunque se vi ho fatto ridere con molta parsimonia dovrei essere saggio anch’io. Ora capirete che complimento fino e gentile vi abbia preparato il mio libro, e quanto io debba consolarmi d’essere stato sconfitto. Anzi, potrei soggiugnere che la mia Arte l’ho scritta perchè mi servisse come una pietra di paragone a peritare la gente. E quando alcuno veniva a dirmi di non aver riso troppo col mio libro, io pensava: «Bene! costui è un uomo di proposito, un furbo che non ha addentato l’amo: oh, se fossero tutti così! non si direbbe più che il mondo è una vasta gabbia di matti.» Qualche volta, al contrario, mi capitava un buon diavolo che, vedutomi per via, veniva incontro gridando: «Ah dottore, quanto ridere con quel tuo libro! sei stato il carnevale di tutta la mia casa.» E io lo ringraziava in parole, con quell’aria di finta modestia che tanto mi onora: ma in cuor mio diceva: «Infelice! hai proferito la tua condanna: e che bella raccolta di babbioni deve essere la tua famiglia! non ti rinfaccio il mio proverbio per non farti imbestialire del tutto.»

Quì parmi che alcuno crolli la testa e sorrida, pensando esser questo un trovato di fantasia per tirarmi d’impiccio. Ma nessuno saprebbe provarmelo: e io sarei padrone di tener duro nel mio assunto: chè, fortunatissimo quell’avvocato il quale sapesse cavar fuori un argomento di egual forza nelle cause le più spallate. Io però sono generoso, e vi rinuncio: anzi, fermo stante il testo latino con tutte le sue conseguenze, vi confesserò la verità vera, come dicono i poveri Francesi di oggidì: che cioè io sperava proprio di farvi scoppiar dalle risa, e che, per mia somma vergogna, non è scoppiato nessuno.

Quello che più mi accora è che ho riso poco anch’io. Sperava coi frutti dell’Arte scritta di fornirmi del fondo necessario ad aprire un bel corso di lezioni pratiche, e far tavola bandita: ma capisco che per questo non ne faremo nulla. Anzi sto quasi per ritornare al sistema antico di andar io a pranzare frequentemente in casa altrui. Ma oimè! quì sta il terribile: chi non chiuderebbe la porta sul viso a un sofisticone che osserva tutto, e critica tutto, e si fa beffe di tutto? bisognerebbe presumere molto di facendo altrimenti. Ecco i frutti amari che il mondo riserva a chi si sacrifica per illuminarlo. Almeno fosse inteso il significato delle sublimi parole vittima dell’arte, vittima della penna, vittima del pensiero. Io, per esempio, sono vittima in tutte e tre le maniere. Eppure hanno stampato in un giornale che ho scritto l’Arte di convitare per essere convitato io stesso: oh che birboni! Voglio consultarmi con un cursore di pretura giubilato, allo scopo di tentare un processo per calunnia, o almeno per diffamazione.

 

Andiamo avanti. Molti si attendevano dal mio Convito un lauto pasto di satira politica, e si meravigliarono che io non ne abbia servito loro nemmeno un piatto. Oh, in questo scusatemi, ma ho tutta la ragione io, e tutto il torto voi. Vi ho dato, e continuo adesso a darvi da mangiar bene e da bever meglio, e spero che nessuno partirà dalla tavola di Giorgio coll’intenzione di cenare. Ma di vivande troppo eccitanti, ma di liquori forti non voglio e non posso fornirvene come medico come uomo di giudizio. Non lo sapete che pei libri c’è ancora la così detta censura? E quantunque nessuno senta più di me quanto fosse umiliante e crudele per chi ha criterio e senso di onore quel sistema di sospettosa, assidua, arbitraria persecuzione d’ogni pensiero virile, e d’ogni innocuo scherzo, che la resero già tanto odiata; pure vi dico essere oggidì ottima cosa che la censura continui: perchè in tempi eccezionali e senza norme conosciute si sente il bisogno di appoggiarsi a un’autorità, e perchè quella autorità adesso è mitissima e intenta solo all’utile scopo di impedire che un incauto si faccia del male. E se anche non esistesse censura, vi pare che sarebbero questi i momenti adattati per fare il bell’umore? Vi sarebbe tutta la probabilità di provocare la confisca del libro e dell’autore insieme. Figuratevi che gusto ci avrei a subire un ratto e farmi portar via come il bellissimo Ganimede dall’Aquila per aver voluto farvi ridere più saporitamente.

Voglio portarvi una similitudine. Vi sarà occorso talvolta di tenere in mano un passero o un canarino ineducato, il quale intanto s’ingegna a beccarvi furiosamente. Voi ridete di quella rabbia da uccellino, e pensate che se vi venisse il ticchio di stringere un poco le dita, egli vi farebbe la ciera compunta e vi morirebbe in mano di disgusto. Mi sembra che questa sia a un dipresso la condizione di uno scrittore che si avvisasse, nelle attuali circostanze, di fare il bravo, e di pungere chi ha la forza e la facoltà di usarne in qualsisia maniera. E quantunque nella compassionevole impotenza della penna davanti alla spada sia possibile e anche probabile che un tratto di avventatezza o una grossa scappata passi inavvertita o non degnata neppure di reazione: io dimando se chi ha qualche sentimento di fierezza e dignità possa ridursi a calcolare sulla trascuranza e sul disprezzo altrui. Fidatevi di me che so benissimo quale dovrebbe essere lo scopo e la missione della satira, sale della società e anima del mondo morale: ma per adesso bisogna accontentarsi di satirizzare coloro che sono deboli e inesperti nella bell’arte di dare da pranzo. E ditemi pure insulso, e ditemi frivolo, e ditemi perfino scettico: che queste sono parole le quali passano per le orecchie, ma non frollano il deretano.

 

Passiamo ad altro. Alcuni mi assicurano che tutta l’Arte di convitare non vale un’ugna del mio Gatto. Oh diamine, sarebbe mai possibile? Dovete sapere che da quindici anni circa che ho l’onore di annojare la patria con gli opuscoli miei, i quali oramai saranno forse una dozzina, sono avvezzo a sentirmi dire di volta in volta che l’ultimo venuto è una ben povera cosa in confronto al suo predecessore. Se la storia cammina d’egual passo anche al presente, questo povero secondo volumetto sta fresco. Fanno precisamente come i contadini quando parlano dei ricolti, che si lamentano sempre dell’annata in corso, e non la lodano mai che l’anno appresso. Cosicchè, data la mia progressione continua dal bene al male, o dal male al peggio, a quest’ora dovrebbe riescire molto più sapido e rallegrante il leggere l’inventario dei mobili d’una casa con negozio annesso, dettato da un rigattiere; o un lungo istromento di divisione fra coeredi, a rogito d’un notajo ottuagenario.

Del resto, se mai volevate significarmi che il Gatto è un gran bel libro, stringiamoci la mano che siamo pienamente d’accordo. Gli autori sono come le mamme innamorate dei proprii bimbi: per quanto diciate loro che Bernardino o Antonietta sono angioli di grazia e di bellezza, non direte mai tanto che salga al livello della loro persuasione. Anzi, non vorrei riscaldarmi il sangue a confutarvi se arrivaste a sostenere che il Gatto è un opuscolo divino: e sì che almeno l’argomento è di natura bestiale. Ma tra gli estremi del bestiale e del divino v’è un di mezzo, l’umano. E questa volta per varietà trattai un tema umanissimo, quello del pranzare, al quale il mondo intero molto maggiore importanza di quanto vogliano concedere coloro che stanno in sul sublime. Nel Gatto il discorso andava via più rapido, perchè avea più aria di novità: quì con eguale novità, giacchè nessuno prese a sviluppare i miei assunti, il tema decorre più lento e disteso, perchè, da burla o davvero, ha carattere essenziale di didascalico e dimostrativo. Chiamo nuovo un argomento quando è inaspettato e quasi non creduto. Una volta dicevano: «Che cosa si può scrivere sul gatto?» Un’altra volta ripetevano: «Che cosa si può scrivere sull’arte di convitareBene o male, ho sciolto ambedue i problemi. Nel Gatto la satira.... (vi annojo? vorrei che sentiste una verità: che cioè non mi guida la smania puerile di far l’apologista a me stesso. L’impressione più o meno grata di un libro è quello che è, si cambia per commenti: ma parmi che questo genere di osservazioni ci avvezzi a vedere e rimarcare le piccole ragioni delle piccole cose), nel Gatto la satira era più forte perchè colpiva le passioni grosse e i vizii generali: nel presente lavoro è più efficace ed utile perchè fruga nelle ridicolaggini specializzate. Io credo per certo che in virtù della satira non si sia commesso al mondo un delitto un peccato di meno: ma sono persuaso che la satira abbia tolto o assai diminuito moltissime usanze sciocche e moleste. Sapete, miei cari, qual’è la vera e principale differenza che passa fra i due libri? il primo lo leggeste nel 1845, il secondo nel 1850. Mutatis vicibus, cioè scambiate le epoche, vi accerto che avreste riso assai più alla mia tavola, e avreste trovato abbastanza insulso il panegirico del gatto. Dunque, dirà taluno, adesso c’è almeno l’inopportunità di tempo per un’opera burlesca. Adagio, che non va bene neppur questo, e lo proverò più avanti.

 

Ma appunto perchè ora avete il palato avvezzo allo stimolo forte dell’acquavite amara, trovate insipido un buon bicchiero di vecchio bordò; e taluno ha applicato al mio libro l’epiteto omicida di frivolo: non vi dico altro! Sono appena due mesi che lessi stampato quell’aggettivo, e mi fece già tanto male che diminuii di peso quindici libbre e mezza, stadera di Monza. Fatemi dunque la grazia di permettere che io lo confuti un pochettino, e me lo levi dalla coscienza, perchè se continuo a consumarmi con eguale rapidità, da quì a un anno, e anche prima, mi troverò emulo di una farfalla non solo nella morale frivolezza, ma anche nella leggerezza materiale. Quando, a cagion d’esempio, un naturalista trova un insetto non ancora conosciuto dalla scienza, e forse notissimo a un gran numero d’ignoranti, lo descrive, lo classifica, gli un nome e un cognome, lo fa disegnare, e ne fa parte alle principali academie, le quali lo ricambiano di congratulazioni e pergamene. Ma a nessuno viene in capo di chiamarlo frivolo, perchè il vero è sempre importante: e beato chi può allargarne i confini già noti, anche solo d’una linea. E ciò che vale pel mondo fisico non varrà pel morale? Perchè mo s’ha da trovar futile lo sviluppo di un tema che, oltre all’aver pure la sua buona parte d’istruzione pratica, serve di pretesto a mettervi sott’occhio varii schizzi di costumi e profili di caratteri non ancor tratteggiati? venite a ripetermi che io abbia dato in caricature; altrimenti crederò che anche voi scrittori abbiate a imparar qualche cosa dal mio libro. Io ho sempre rilevato fedelmente dal vero: qualche volta da un vero non frequente (e perciò l’avrete stimato esaggerazione), ma è appunto quello che, per essere meno ovvio, si va a ricercare e a cogliere sul fatto, essendo questo lo scopo dell’arte. Un pittore distinto si fa pagare cento zecchini la fatica di ritrarre qualunque faccia commune e insignificante: ma quando incontra per le strade un pezzente provvisto d’una fisonomia molto espressiva e fuori dell’ordinario, diventa come il bracco che ferma la quaglia: e se lo conduce a casa, e lo paga lui perchè si lasci delineare: e tiene in serbo quel volto prezioso per le occorrenze d’un quadro d’impegno.

E quì cade opportuno il soggiugnere un’altra idea. Sono persuaso che l’esaggerazione sia il vizio inevitabile dei panegiristi: ma al contrario gli autori satirici, quando tratteggino sul generico, e non sieno mossi da passione, non è raro che restino indietro del vero. Oh quante volte, credendo aver detto il più che si poteva dire, mi trovai soprafatto e umiliato dalla realtà! «Oh che bestia! (io pensai spesso) mi stimava poeta, e la prosa dei fatti supera assai la mia forza d’idealità.» Ne volete un esempio desunto da cose tenui? dove descrissi i fanciullini irrequieti e molesti a tavola, mi parve proprio che non si dovesse andare più in : ebbene, qualche tempo dopo, in una casa di buoni amici, mi toccò vedere un bel bambinotto di due anni e mezzo a passeggiar carpone sulla tavola, proprio tra i bicchieri e le bottiglie. Per non farlo piangere lo lasciavano fare, e si affrettavano a sgomberargli la via levandone gli inciampi, e ridevano come matti, e ridendo anch’io, sclamai: «Questo sceleratino in erba dovrebbe riescire un gran critico di libri, perchè comincia già a farmi parer fiacco e sbiadito il mio: confesso che a un piccolo passeggio sulla tavola non ci arrivava più di mia testa: e anche dopo averlo veduto non avrei coraggio di annoverarlo tra i casi attendibili, per paura di sentirmi dare dello stravagante

Ma sono ben ridicolo io a consumarmi per la frivolezza: anzi voglio subito rimettermi in florido, talchè nessuno, vedendomi da quì a dieci giorni, possa accorgersi del mio deperimento. Difatti il dirmi frivolo non implica forse un elogio tanto magnifico quanto involontario? Ciò prova che io fui talmente invaso dal mio tema, e rappresentai così bene la mia parte da parervi proprio che dicessi davvero. Dunque mi avete creduto sul serio un affamato che delira davanti al minestrone, e che della preminenza data al salame si sdegna come d’un grave oltraggio alla morale. Ho capito: vorreste persuadermi che io sia il genio dell’arte comica e dell’ipotiposi. Ah no, la mia modestia vi si rifiuta e arrossisce da capo a piedi. A questo conto quale sarà la meraviglia vostra, e quali epiteti impiegherete per me quando rappresenterò l’ubriaco e lo sciocco? Anzi, a proposito di quella farsa, sento quì il bisogno e il dovere di protestarvi che quella sì è un complesso di scherzi e d’invenzioni fatte a stomaco vuoto e solamente con la penna; e che davvero io non abuso mai del vino, il quale è l’ultimo de’ miei pensieri. Dico ciò perchè è troppo facile che molti lettori prendano in parola uno scrittore, il quale non si fa già attore per la bella ambizione di dare spettacolo risibile di , ma perchè in linea d’arte l’io è di tutt’altra forza e vivezza del lui. E tale mia dichiarazione la fo quì, per non dover mettere a pie di pagina una nota che ammazzi l’illusione: come mi avete saggiamente rimproverato a proposito di quella sul Lamartine. E me n’era accorto anch’io: ma che volete? per un verso quella freddura che, a mente più riposata non piace più nemmeno a me perchè grossolana e insistente, allora mi pareva una bella cosa, e voleva dirla: per un altro, mi pesava l’idea che molti pigliassero le mie parole per più che uno scherzo innocente. Che se voi stessi, scrittori d’acuto ingegno, e versatissimi a cogliere il gioco dell’ombreggiare, avete qua e malinteso alcun mio pensiero detto bislaccamente, ma di significazione seria e dolorosa (come il consistere la filosofia e la letteratura nostra nel mangiare per primo la minestra): non avrò diritto di temere il subitaneo giudizio di molti che non si trovano nelle vostre condizioni intellettuali?

Quì a proposito di libri frivoli, si presenta spontanea la famosa questione dell’arte per l’arte. Nell’impossibilità di addentrarmi in questo tema che merita esso solo un volume, m’ingegnerò di stringere in poche parole il mio debole avviso. Che dall’arte contemporanea si esiga in massima qualche nobile scopo fuor di stessa, va bene: e l’epoca nostra ha tutta la ragione di bramare associato l’utile al bello. Do prova di esserne persuaso anch’io che, quantunque autore di scritti leggieri, colgo per via, quando la mi capita, e talora la fo capitare a studio, qualche buona e opportuna verità: e questo poco può valere per molto, in quanto che fa più colpo un pensiero onesto e serio in bocca di un matto, che non un subbisso di sapienza in un libro formidabile. Ciò posto, soggiungo che bisogna ammettere delle eccezioni; che il bello anche puro e semplice si farà sempre lume da ; e che non si deve spingere quella teorica alla durezza, all’inesorabilità, al puritanismo. Ogni ingenuo ha l’indole propria, e stiamo freschi se pretendiamo da tutti o pretta scienza, o balsamo pel cuore, o calde aspirazioni di miglioramenti sociali. Che davvero tutti e sempre non avessimo a far altro che trascinare faticosamente il gran carro del progresso? è un pensiero che leva il respiro. La rigidità di questi principii sapete a qual punto ridurrà la Critica? ve lo dirò io: ora a indispettirsi contro le opere di merito che sono pur così rare; ora a struggersi di tenerezza davanti a qualunque meschinità che abbia un poco di fragranza umanitaria. E poi lasceremo crescer la polvere sui classici migliori che, salvo poche eccezioni, pensavano piuttosto a scriver bene che per il bene: e poi condanneremo al silenzio tutta la musica che non abbia carattere sacro o marziale: e poi rifiuteremo come inconcludenti nove decimi delle opere di pittura: e poi, per finirla, ci rincrescerà che si stacchino dalle cave quei marmi che non debbano informarsi alla Religione di Canova, allo Spartaco di Vela, all’Italia di Puttinati. Io sembrerò esaggerato: ma a poco a poco ci saremo trascinati a queste conclusioni, perchè sono legitima e necessaria conseguenza di una teoria troppo esclusiva che su qualche foglio periodico, altronde lodevolissimo, diventa mano mano più inflessibile, assoluta, opprimente.

E coloro i quali dicono: «Peccato che sprechi l’ingegno in queste inezie», li ringrazio della parte di complimento che sta nel rimprovero: ma li avverto che il rimprovero non è giusto. Se anche fossero affatto inezie, sapete perchè me ne occupo? perchè sono il genere nel quale riesco meno male: perchè posso spiegarvi tutta la mia poca forza: perchè almeno io ci sono dentro tutto: in argomenti severi ci sarei dentro appena mezzo, o per un quarto: oh che miseria! Nessuno può indicare a un autore quale sia la sua vocazione: è lui che deve sentirla, e bisogna lasciarlo fare: e s’egli andrà forviando per mali consigli, si guasterà e non varrà più nulla. Scrivendo ciò che piace a me, finirò, dal poco al meno, a piacere un tantino anche a voi: se scrivessi ciò che a voi piacerebbe, vi accerto che non piacerei niente affatto a voi, a me.

Dunque io lascio ai veri studiosi e ai dotti sul serio il trattare le questioni importanti, e gli ardenti problemi che agitano il cuore umano: e continuo a occuparmi di cosuccie tenui e leggiere: tanto più che, se volessi fare altrimenti, nol dovrei e nol potrei perchè io in fine dei conti, anzi in principio dei conti, sono medico e chirurgo, e ho un impieguccio, e una famigliuola, e brighe, e affari e fastidii miei e altrui: e la letteratura la piglio come sollievo e distrazione alla prosaccia della vita reale: e ciò che scrivo non costa molto tempo, molta fatica, erudizione alcuna: in caso diverso, tralascerei: tanto più che bisogna pensare anche alle ore necessarie per far niente, ossia per l’ozio filosofico e contemplativo. E la mia storia come uomo di lettere o da libercoli sta tutta quì. Figuratevi che, subito dopo aver publicato la versione della Poetica, un letterato sgobbone venne a dirmi: «Adesso poi bisogna accingersi a qualche lavoro di molto maggior lenaMisericordia! quì lena è sinonimo di schiena: e stiamo a vedere che questo animale vuol farmi fare il facchino come lui: e mi parve che mi legasse un’incudine sulle spalle, e ripensai tremando alla lena affannata di Dante, e non dimenticai più quelle parole da svenimento. Lena! ma andate al diavolo, chè io detesto e schivo quanto so e posso ogni lena, e in qualunque significato, ad eccezione del solo caso che fosse un abbreviativo di Maddalena. In somma, io scrivo per ridere; e dopo divento smanioso di far ridere gli altri: e finisco a essere in collera coll’Italia, perchè non pensa tutta quanta a farsi mantenere allegra da me...

 

Ma quì viene il buono, o piuttosto il cattivo: perchè alcuni non vogliono che adesso si rida, o al più vi permettono di ridere secretamente, di contrabando, in camera chiusa: ma guai se lo fate sapere, e peggio se tentate di render contagioso il vostro riso. E cominciano a dire che ogni lavoro scherzevole è inopportuno. Distinguo: inopportuno per l’autore o per il publico? Per l’autore, concedo: e l’ho preveduto io pure nel manifesto e nella prefazione, e non mi è mai capitato da molti anni una simile disdetta di metterci quattro mesi a smaltire poco più d’un migliajo di esemplari, e di trovarmi ancora in possesso di più della metà dell’edizione. Ma questo è un affar mio, e ci penso io: e il libro o presto o tardi anderà perchè almeno i convitanti inesperti, che sono molti, dovranno ricorrere al mio trattato che finora è il più ampio e il meno cattivo. Quanto al publico, dove ci trovate l’inopportunità? se desso è sotto all’influenza di rimembranze dolorose e di tristi preoccupazioni, è una ragione di più per tentare di spianargli le rughe della fronte: e chi si sente chiamato a provarvisi, fa un esperimento non solo onesto, ma degno di lode. Quand’uno è melanconico e ha bisogno di sollevarsi l’animo, lo si consiglia di andare a sentir Pulcinella, anzichè una tragedia o un dramma straziante. Sento benissimo il valore e la dignità di quanto potreste oppormi: ma nulla raggiugnerà il preciso e l’evidente di ciò che dico io. Per il migliore andamento degl’interessi mondiali il ridere o il piangere nostro a nulla giova: se potessi persuadermi che il piangere giovasse, mi metterei subito a lagrimare come un ruscelletto. Mi dite che il diritto di non ridere lo avete acquistato a caro prezzo. In linea giuridica, va benissimo e Dio vi conservi il dono delle lagrime se è di vostro gusto: io in cambio lo prego a mantenermi la voglia di ridere per lungo tempo, perchè ho un temperamento fatto per questo, e credo che riderei anche in prigione, o cronico in un letto. E ciò mi pare una fortuna e un buon rimedio nel dolore dei mali proprii e altrui: giacchè poi ho mente e cuore anch’io, ne la coscienza mi rimprovera egoismo o apatia. Vedo che per sciagura dell’umanità il mondo si divide in molteplici partiti non solo sulle cose grandi, ma perfino sulle più inconcludenti: fra questi vi sono anche coloro che vogliono ridere, e coloro che tengono fermo per la tristezza: io sto coi primi, voi coi secondi: e ciascuno attende alla propria clientela che, senza gelosia, può essere numerosissima per entrambi. È la storia di Democrito e di Eraclito; e consoliamoci che anche quei filosofi furono due grandi esaggerazioni, come lo sono d’ordinario le opinioni estreme. Felici ancora noi per ciò che, trovandoci in opposizione su di un punto di sì lieve entità, non siamo nella necessità crudele di abominarci, e maledirci, come pur troppo accade nei partiti di maggior conseguenza.

Ma se io posso rassegnarmi all’incapacità di mettervi in buon umore, mi è poi insopportabile il pensiero che qualche mia pagina vi abbia fatto male. Questa è forte, perchè se voi da una parte siete fior d’onestà e d’ingegno, io dall’altra non so credermi così destituto di senso morale da riescire a risultati così opposti alla mia intenzione. Dunque o io ho male inteso voi, o voi avete male inteso me. Intanto ciò che ho capito benissimo è che sommamente vi dispiaciono le parole marmaglia, popolaccio, plebaglia. Io, che aspiro alle idee chiare e precise, con quei nomi intendo significare la parte di popolo più povera e specialmente più ineducata: definizione che ci richiama a gravissimi pensieri. Sto con voi, e chi non ci starebbe? che le classi più sofferenti e diseredate dei migliori conforti materiali e morali della vita, constano di fratelli nostri, più meno, figli tutti dell’istesso Padre commune, e aventi egual diritto alla massima possibile porzione di felicità: che veramente sublime e santo è l’ardore caratteristico del secol nostro, il quale tende con ogni sforzo a migliorarne la condizione: che in ciò devono concorrere a gara la legislazione e la scienza, la borsa dei ricchi e la penna degli scrittori affettuosi, ecc. In sostanza, sono umanitario anch’io, cioè galantuomo bramosissimo del bene: e se per vezzo antico, e anche monotono, scherzo quà e su quella parola, è sempre riferibilmente a quanto nel mio modo di vedere reputo utopia. Del resto, quali sieno le miserie del popolo povero, e quanto senso di pietà e quanto desiderio di efficaci rimedii debbano inspirare, non lo dite a me, che da quasi un quarto di secolo mi aggiro giornalmente per tugurii e per ospitali.

Premesso ciò, soggiungo che in un trattato di morale evangelica quei nomi in peggiorativo starebbero malissimo, e male anche in un libro severo di scienza, o in una discussione dignitosa: motivo per cui diventò proverbiale la vile multitude del signor Thiers. Ma in opuscoli umoristici, dove ad arte si tiene un linguaggio franco, incisivo, arditissimo, e dove si affetta di non far proprio grazia a nessun ceto, quei modi non dovrebbero urtare perchè armonizzanti con tutto il resto: massime poi quando non vengono mai accompagnati dal menomo fiele. Quindi bisogna o proscrivere affatto questo genere di letteratura, o finirla di scandalizzarsi per ogni parola. In somma, il popolaccio, come io l’ho definito poc’anzi, esiste o non esiste? Sì, e numerosissimo pur troppo. Dunque io, volendolo nominare, come farò? se rifiutiamo i termini precisi dell’uso e del vocabolario, dovremo aver ricorso alle perifrasi: troviamone una insieme, che sia di commune soddisfazione. Forse il povero popolo? questa, oltre al non esprimere tutta l’idea, può andar bene in uno scritto melanconico, di sentimento o d’istruzione; ma non fa pel mio stile, sempre nelle ragioni dell’arte. Gli dirò il basso popolo? è già troppo pel vostro bel cuore, e pel mio fare rozzo è troppo poco; e poi lascia ancora incompleto il concetto. Ho da chiamarlo (col cappello in mano) il signor popolo cencioso e bestiale? Oimè, vedete? mi tirate fuori gli spropositi, cioè le verità che quasi quasi fanno male anche a me. No, no, non mi scappate via turandovi gli orecchi: abbiate pazienza per due minuti ancora, chè dobbiamo separarci se non più d’accordo, almeno più amici che prima. Ditemi di grazia: quelle mie parole a chi fanno male? alla plebaglia, no, certo perchè la povera gente sa appena che al mondo vi sono i libri, ed è lontanissima dal pensare che vi si possa tener discorso di lei. Dunque non si fa male che a voi teoristi: i quali, appunto per la notata tendenza a spingere troppo in le massime più nobili e belle, finite a contrarre quella irritabilità soverchiamente squisita e anormale, che noi medici siamo soliti a chiamare sensibilità morbosa.

Ma io vi amo e vi stimo assai, anzi ho l’obligo di ringraziarvi per avermi lodato anche troppo in quello che più mi premeva, cioè nei rapporti dell’arte. Perciò vorrei che ultimassimo in tutta amicizia questa discussione, e vi propongo un accomodamento che spero troverete equo e da accettarsi. Eccolo: ogni volta che voi (intendo voi tutti rappresentanti d’una opinione, e almeno quì vorrei che foste un esercito infinito), ogni volta che voi leggerete su d’un mio libro le parole marmaglia, popolaccio, plebaglia e simili, farete l’elemosina di un soldo a un poveretto: e io nelle occorrenze userò ancora quelle parole senza scrupolo, sapendo che faranno un po’ di bene a molti, e nessun male a chichessia.

 

Chiuderò questo lungo proemio apologetico col dire che la somma delle objezioni al mio lavoro potrebbe stringersi nell’accusa di anacronismo: e lo sia pure: ma questa parola che significa quì? null’altro che aver saputo ripetere debolmente il miracolo di far nascere le ciliege in gennajo (capirete che sto a Monza fra le pie tradizioni di S. Gerardo). E mi darete colpa se le fo pagare un poco più del loro prezzo estivo? Tocca ai santi a far gratuitamente i prodigi che riescono loro così facili e spontanei: ma i peccatori quando arrivano a metter fuori un miracoluccio stentato e scandaloso, hanno anche ragione di tirarne il profitto migliore: me ne appello al magnetizzatore taumaturgo M. Lassaigne. Per altro, io tenni i patti del manifesto, salvo il ritardo di un mese per lasciarvi rimettere da quel tanto ridere che non avete fatto. Col volumetto presente rendo il conguaglio dei due fiorini in ragione di 35 centesimi al foglio: anzi credo di regalarvi almeno le coperte e le legature; e ciò per riguardo speciale alle lire austriache, le quali aspettarono proprio il momento che escì il mio libro per salire a venticinque soldi l’una, e contribuire così a farmi parere più indiscreto. Dovrei essere in collera con quelle lire che almeno in una certa epoca si chiamavano correnti, ma adesso a correre stentano terribilmente, eccetto che per iscappar via.

Del resto, sulla questione del caro e del buon mercato in materia di libri, ho troppe cose a dirvi per non doverle rimettere in massa ad altra occasione, e sarà la più comica delle mie prefazioni. Intanto sappiate in fretta in fretta che gli autori sono sempre inchiodati al dilemma: o vender caro e vender poco, o vendere a poco e restare a mani vuote: che col primo sistema so almeno di che male si muore, e non ho coraggio di tentare la morte per inedia col secondo: che gli sconti librari sono fra noi di una opprimente enormità: che per le opere di non molta e lunga lena, e che non siano spinte da qualche attivissimo intraprenditore, sono incredibili le difficoltà di superare i confini di provincia; talchè poco monta la differenza dello scrivere piuttosto in lingua che in dialetto, quando non ho ancora la consolazione di sapere se mai qualche esemplare d’alcun mio opuscolo sia arrivato a perdersi fino a Napoli o fino a Roma o fino a Firenze: che in Italia lo scrivere non ha mai lasciato mettere a nessuno carrozza cuoco; e che anzi il mestiere dello scrittore, salvo qualche rarissimo fenomeno di operosità prodigiosa, è il più arrabbiato e povero dei mestieri; e guai a me se dovessi contare seriamente sui profitti della letteratura! Ma di tutto ciò, un’altra volta: per adesso di ciarle ne ho fatte abbastanza, e forse troppo monotone e interessate. Però, trattavasi d’un affare importantissimo, ed è che quando il publico comincerà davvero ad annojarsi della mia penna, io la lascerò riposare per sempre. Ma ho bisogno di persuadermi e persuadere che tale epoca sia ancora lontana: perciò (a imitazione di quel monsignore nel Gil Blas, che avvertito del deperimento della sua sacra eloquenza, trovò di non aver mai composto una predica migliore della sua peggiore) ho dovuto anch’io mortalmente annojarvi per dimostrare l’impossibilità che un mio libro vi riescisse nojoso.

 

10 aprile 1851.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License