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Giovanni Rajberti
L'arte di convitare

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  • PARTE SECONDA
    • CAPITOLO SETTIMO
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CAPITOLO SETTIMO

 

 

Ora vorrei far qualche cenno sui discorsi che si tengono a tavola, e che sono, per così dire, il nutrimento dello spirito. Il campo della parola è sterminato, v’ha argomento che non si presti o alla seria discussione o alla ciarla oziosa o al piacevole motteggio. Ma, sta bene il parlare di tutto? Alcuni discorsi sono proibiti dalla buona morale, alcuni altri dalla buona educazione, molti dalla prudenza, moltissimi poi dalla ignoranza o di chi li fa o di chi li ascolta, o di tutti insieme. Cosicchè fra tanti veto che emanano da sì autorevoli tribunali, per certe mense il miglior consiglio sarebbe quello che si dava a Papataci della comedia: mangiare, bere e tacere. Ma come tacere quando si mangia bene, e specialmente quando si beve meglio? E poi, non ci raduniamo allo scopo principale di conversare e far cambio d’idee? Però, dei quattro ostacoli da me enunciati alla libertà del parlare (la morale, la creanza, la prudenza e l’ignoranza) si può dire in genere che i primi tre sono mediocremente rispettati. Non così dell’ultimo; perchè l’ignoranza, quando non si ripari all’ombra del buon senso (caso raro, essendo il buon senso una rarità), è una cosa tutta ingenua, spontanea, inconsapevole di stessa al modo di certe virtù primigenie, come la verecondia e l’innocenza. Perciò l’ignorante, fortificato dall’altra virtù naturale ed istintiva, la presunzione, procede franco e sicuro in qualunque discorso, chè a sentirlo sarebbe un bel divertimento, se non fosse un po’ troppo frequente e, per solito, anche un po’ troppo lungo. Il dotto più impara, e più sente di sapere pochissimo, e più si fa cauto e guardingo dal giudicare le cose che non entrano nel raggio de’ suoi studii o nel campo delle sue osservazioni. Ma l’ignorante sa tutto: egli scioglie al momento i più ardui problemi, e ha pronto un rimedio per ogni male, e trova un provedimento per qualunque bisogno. Giuristi, filosofi, medici, economisti, perchè non ricorrete a lui nelle più complicate controverse questioni di scienza? egli scioglie ogni difficoltà, e vi darà la ragione di tutto. Anzi, è capace di regalarvi seriamente una buona lezione, anche senza avergliela dimandata.

Di siffatti originali abbondano le mense popolari, e non ne difettano nemmeno le illustri. Se non che, alle prime si può dar loro un pochettino sulla voce, e ridurli al silenzio, o assecondarli e pigliarsene spasso, o non occuparsene come se parlasse un matto. Ma a quelle altre mense l’affare è ben differente. Per un verso, i riguardi esigono che si ascolti chi ha la parola, e per un altro ci vuole un bel coraggio a giuocare per sempre il proprio coperto e fors’anche un’utile clientela osando contradire al marchese Y, o al conte Z, e far loro intendere che hanno il bel vezzo di capovolgere tutte le idee: giacchè, se un illustrissimo fa tanto di esser bestia, lo è in grado così sublime da superare perfino la sublimità de’ suoi pranzi. È puro debito di giustizia il dire che oggidì il ceto nobile ha proprio perduto la rassomiglianza con quegli antenati sul cui dorso sanguinò senza pietà la scutica pariniana. Molti studiano di proposito, e questi ordinariamente riescono meglio che noi del popolo, perchè hanno più facili e abondanti mezzi d’istruzione, perchè fanno per elezione e simpatia ciò che moltissimi fanno per bisogno di un grado academico, perchè non li svia dalla meditazione la necessità di tradurre la scienza in quattrini. La sola città di Milano vanta nel patriziato un bel numero di nomi individualmente illustri. La maggior parte poi, viaggiando e leggendo, anche solo per passatempo, trattando con dotti e uomini di spirito, acquistano quanto basta di tatto sociale e d’infarinatura enciclopedica per essere interessanti nella conversazione, e non cadere in pregiudizii grossolani. Ma tutto ciò non impedisce ancora che si perpetui qua e colà la bella tradizione del bue d’oro: e sarebbe quasi un peccato che si perdesse affatto questo classico tipo, che nel suo genere è qualche cosa di eminentemente comico e originale. Pel bue d’oro tutto concorse a renderlo magnifico: l’adulazione servile che lo cullò fino dalla infanzia: la connivenza del pedagogo che, se non fu del tutto bestia egli pure, prevedeva nel discepolo il futuro padrone che gli avrebbe assicurato un commodo riposo in vecchiaja, e perciò ne lusingava l’ignavia e la caparbietà; quell’isolamento che gl’impedì l’attrito prezioso del confronto, dell’emulazione, della vergogna: quel non essere mai stato all’università a sentirsi a dare almeno dai condiscepoli del tu, dell’asino e dell’imbecille, o anche a esibire quattro calci nel di dietro (cose tanto ricordevoli e salutari per la superbia di tutta la vita): aggiungasi una specie d’istinto a schivare anche nella propria sfera i migliori di lui, e a farsi amici quelli dell’istessa tempra: aggiungasi che la coscienza dei milioni inspira allo sciocco una sicurezza di , una petulanza, un profondo convincimento della propria sterminata superiorità su chiunque viva della fatica o dell’ingegno: aggiungasi che coloro i quali avrebbero la capacità di raddrizzargli le idee storte, si guardano bene dal tentarlo per non perderne la protezione, e poi perchè a nulla gioverebbe, mentre sarebbe necessario rifundere tutto l’uomo. Datemi un soggetto simile che imbandisca un convito e gli presieda, dove egli detti e gli altri mangino: e poi se non copiate dal vero, sfido il più felice poeta a imaginare e rendere il viluppo degli spropositi e degli assurdi che saprà schiccherarvi su qualunque argomento. E ne ha tutto il diritto: perchè chi fornisce i lauti pranzi, che sono fatti sustanziosi, può ben permettersi le buaggini grosse che sono parole senza sugo; e non ne farà risparmio, e le dirà gravemente come se mettesse fuori assiomi o epifonemi: non è mai stato avvezzo ad essere contradetto! Talchè per un uomo di buon senso a frenare gl’impeti di una scandalosa risata ci vuole tutta la virtù del bordò, dello sciampagna, del fagiano, dell’ananasso.... Ma dove diamine mi lascio io menare dalla foga delle descrizioni? E poi: può esistere ancora intero siffatto tipo? oppure non è che il miscuglio di confuse sparse reminiscenze, in quel modo che la Venere di Zeusi compendiava i vezzi delle primarie bellezze di Grecia? Talvolta è difficile il rispondere a così facili dimande.

Dunque, se io vi dicessi: Alla vostra tavola troncate per quanto si può i discorsi melanconici, nauseosi, o atti ad offendere l’amor proprio o la delicatezza morale anche d’uno solo tra i convitati; impedite che alcuno si ostini in discussioni aride, monotone, prive d’interesse; procurate che i temi si attaglino all’intelligenza e ai gusti della maggioranza, ecc.; se vi facessi queste e altre consimili raccomandazioni, sarebbe come dirvi: Abbiate animo gentile, educazione fina, distinto buon senso. E coloro che per avventura non fossero troppo forniti di queste doti? I precetti complessivi e le teorie generiche urtano appunto in questo scoglio di supporre talenti e attitudini assai più desiderabili che frequenti: onde avviene che dimandando moltissimo, per solito non ottengono nulla. Perciò io, volendo venire a qualche cosa di concreto e preciso in sì vasta materia, mi limiterò d’indicare un pajo almeno tra i discorsi da evitarsi e da impedirsi più gelosamente a mensa. Veramente, sarebbero da evitarsi sempre e dappertutto; ma altrove si ha il vantaggio di potersene scansare coll’andar via, o con lo scindere la conversazione in varii gruppi: a tavola no, perchè si è proprio in circolo per istarci fino alla fine, e condannati a sentire tutto quanto si dice.

Vi consiglio caldamente a impedire i discorsi irreligiosi; e per ottener questo, vorrei che a tavola e in grossa compagnia studiosamente evitaste ogni tema spettante a religione; perchè, salvo il caso di buone famiglie dal credo vecchio che innocentemente discutano se il tale confessore sia di manica larga o stretta, o se il digiuno quaresimale sia abbastanza rigoroso con una fetta di pane nel cioccolatte, occorre troppo spesso di sentire spropositi grossi che turbano e scandalizzano le coscienze; giacchè sotto allo specioso pretesto di opinioni filosofiche si arriva a metter fuori le più ributtanti professioni di ateismo: e queste sono incomportabili enormità. La santa religione dei padri nostri bisogna rispettarla e farla rispettare: perchè se anche non fosse quella vitalissima e suprema verità che è: se, per assurda ipotesi, fosse una invenzione umana, sarebbe la più grande, la più preziosa, la più necessaria delle invenzioni: che, passata l’età dei piaceri e delle illusioni, unica riempie il vuoto doloroso della vecchiezza e rende le infermità tolerabili con la speranza d’una felicità imperitura: che salva dalla disperazione le classi povere, e, tenutele in freno salutare, rende loro meritorie le più crudeli privazioni e le più bestiali fatiche: che perfezionò la morale collocandola prima nell’intenzione e nell’affetto che negli atti materiali: che condannò la schiavitù e proclamò l’eguaglianza di tutti gli uomini: che anatemizza gli abusi del potere, e dice guai! ai violenti, e vuole il regno della giustizia, della fratellanza, dell’amore. E se per deplorabili contingenze i depositarii della tradizione divina deviarono su qualche punto dallo spirito del Vangelo, queste sono miserie umane, ed è stoltezza addebitarle a una religione essenzialmente liberale e civilizzatrice, senza la quale il mondo non farà mai nulla di stabile di buono. Dico ciò, perchè non fu mai tanto di moda come oggidì il confundere cose sacre e profane, e tirare in ballo la religione con la politica, e voler l’una responsabile degli spropositi dell’altra, e ora affettare fede e entusiasmi, ora maledire e minacciare scismi: quasichè sia la religione che abbia bisogno di noi: e quasichè Dominedio debba obedirci per paura delle nostre bestemmie.

Discorsi deliberatamente empii non è troppo facile udirne in società di gente alla buona: ma è communissimo il sentirne di quelli che, senza volerlo, rivelano la negazione di ogni credenza. Per esempio, chi di voi non ha inteso le tante volte a dire? «Che bella cosa a crepare d’un colpo di apoplessia fulminante quando meno ci si pensa! al termine di un buon desinare, fra lieti amici, coll’ultimo bicchiere in mano, cascar morto d’un tratto, e tutto è finito.» Ah, tutto è finito? Non capite che fra persone dotate appena di qualche sentimento questo è un parlare da bestie? Anzi, vi degradate al di sotto delle bestie, perchè almeno i bruti non hanno rimorsi del passato, terrori dell’avvenire, la prescienza della morte che per voi è sinonimo della spaventosa distruzione dell’ente.

Ma io mi sento chiamato a parlarvi di pranzi e non a farvi la predica: vorrei che in fine di tavola alcuno mi presentasse un biscottino in premio del mio sermone. Perciò finisco replicando che siffatti discorsi sono di pessimo genere e di pessimi effetti, e da severamente impedirsi: e se nessun commensale ha il coraggio di farlo, tocca al padrone di casa prima con garbo e destrezza, poi anche con modi autorevoli e risoluti a far deviare la ciarla da quel corso pericoloso. Io mi figuro di essere un buon capo di famiglia, e di non aver omesso diligenze a fine di allevare religiosamente i miei figli. Do un pranzo per sollievo delle cure quotidiane e per passare alcune ore in allegra società: ed ecco che uno sciocco chiacchierone mi vien fuori con quattro frizzi volterriani a sparger semi di scetticismo per quanto vi ha di più sacro nel cuore dei figli miei. Dunque è gettata ogni premura di tenerli lontani dai libri cattivi e dai cattivi compagni, se perfino in casa mia e sotto a’ miei occhi si osa guastarmeli, fosse anche per mera leggerezza e ostentazione di spirito forte, ma con la più mirabile indifferenza. Sono cose da sentirsi a rimescolare il sangue: e parmi sarebbe da compatire quel carattere un po’ vivace che, non ottenendo di far cambiare discorso immediatamente, mettesse mano al vasetto della salsa verde, e minacciasse irrorarne il viso al filosofante. Miei cari, non vi consiglio di agire precisamente in questo modo, ritenetelo come precetto integrante dell’arte di convitare: dico solo ciò che io sarei tentato di fare all’occorrenza: e forse appunto perchè sarebbe troppo, i destini non mi concessero di giovare con la pratica la causa dei buoni pranzi. Vi prego anzi a non propalare questa mia scappatella: e sopratutto a non cambiarmi le parole in bocca, dicendo intorno che io propongo di tirare i piatti nel viso a chiunque intavoli discorsi di poca soddisfazione: giacchè mi voltereste contro quei pochissimi amici che, una volta ogni morte di vescovo, vengono a mangiare un boccone alla buona in casa mia.

 

Un altro discorso peggiore, se è possibile, del primo (perchè al primo almeno i ragazzi stanno per solito disattenti, quando che sono tutt’orecchi, e direi anche tutt’occhi per capire il secondo) è quello che.... non so quasi come esprimermi: quel genere insomma di discorsi che fa tremare una buona madre per l’innocenza della propria figlia. Povere madri! non basta che debbano talvolta tremare perfino in chiesa, allorchè un rozzo frate sviluppa dal pulpito certo tema delicatissimo con una intrepidezza che spaventa? bisogna proprio che tremino e molto anche a tavola; giacchè tale discorso a tavola è d’una compassionevole frequenza. V’ha gente che non sa dipartirsene mai, e che troverebbe modo di farlo entrare in una dissertazione di araldica, tanto sono abili a cavare da tutto un’allusionaccia, una similitudine, una filza di motti anfibologici, una sconcia allegoria. Considerando la cosa dal lato esclusivo della buona creanza e della convenienza sociale, è pur disdicevole e da riprovarsi: poichè anche in piccolo circolo, e tutto d’uomini, è probabile che taluno non abbia il coraggio di mostrarsene apertamente disgustato, ma che nell’interno dell’animo ne sia nauseato al sommo grado. Se poi vi sono donne, la cosa piglia effettivo carattere d’insulto, perchè implica l’idea del nessun rispetto, o anche d’una sinistra opinione che si abbia di loro.

In Italia si ride quando, parlandosi de’ costumi d’Inghilterra, sentiamo che colà un uomo educato non oserebbe mai nominare alcune parti del proprio abito davanti a una signora. Per me trovo ottimo quel costume: poichè questo genere di riguardi verso il sesso delicato non mi sembra mai eccessivo, troppa la poesia onde si vuol circondarlo. Fra noi non vi è pericolo di siffatte esagerazioni, giacchè si piega all’eccesso contrario: e la colpa maggiore di chi è? Chiedo perdono alle signore se dico loro una grossa verità: che cioè, anche non partecipando, come non partecipano mai, ai brutti discorsi, ne portano esse la massima responsabilità; perchè, in cambio di chiudersi in quel contegno glaciale che fa morir le parole in bocca al più audace, molte di loro si permettono di ridere, non fosse altro, per non aver l’aria di selvatiche o di bacchettone. Male assai: perchè da ciò nasce a loro danno un altro grave inconveniente che mi obbliga a dir loro un’altra grossa verità, se mai non la sapessero: ed è che taluni avviano appunto certi discorsi per esplorare terreno sul conto loro: e che d’ordinario poi, anche quando il discorso è fatto senza secondi fini, i più degli astanti tengono l’occhio fisso sulla tale o sulla tal’altra (che non è certo la più brutta, la più vecchia) per indovinarne, così in via di curiosità naturale, il grado di avvicinabilità. È un indizio molte volte fallace, lo ammetto; ma in conclusione è un indizio che non manca di qualche valore, perchè, a buon conto, chi ride, incoraggia, quand’anche non ne abbia l’intenzione. In breve: starebbe alle signore, se il volessero, a far dismettere l’uso di tali discorsi alla loro presenza: perciò dovrebbero efficacemente volerlo. Vi sono poi degli originali che in tutta buona fede si credono modelli di castigatezza e riserbo perchè narrando, come fanno ogni momento, i più sconci aneddotucci, non adoperano la lurida tecnologia della canaglia, ma impiegano il velo trasparentissimo delle metafore e delle circolocuzioni, e si arrestano a qualche insuperabile reticenza. A costoro auguriamo che difettino onninamente di quest’arte misera: poichè, almeno in onesta compagnia, rinuncieranno a quei temi, non potendo azzardarsi a trattarli con più scurrile linguaggio. Anzi oserò dire che, necessitato a scegliere fra i due linguaggi, preferirei da loro il peggiore, e ciò nei rapporti non della civiltà, ma della morale, che sono i più gravi. Perchè infine con un parlare abjettissimo probabilmente otterrebbero un effetto contrario al desiderato, eccitando nausea (in quel modo che un gran sorso di aquavite rabbiosa rivolta un palato squisito): quando che i lenocinii d’una leziosa retorica larvano il veleno e producono incalcolabile guasto.

E a vedere, dico, come costoro non la finiscano mai! Si spera che, consumata quella raccolta di equivoci, si passerà ad altro argomento: ma si è sempre da capo. Non sembra vero che sieno tanto inesauribili in un ordine d’idee così monotono e meschino. Se è presente l’età tenera, s’ha bel gridare majolica! oibò, non capiscono nulla, o taciono un minuto per subito ripigliare sott’altra forma.

E, replico, tutto serve loro di occasione o di pretesto, perfino le pietanze.

Si serve in tavola un piatto di tartufi.... ecco quei due o tre che sogghignano e bisbigliano coi vicini di posto: e poi vogliono dire chi abbia bisogno di mangiarne poco, e chi di mangiarne molto, e chi debba andare in seconda: e c’è sempre alcuno al quale consigliano di recarsi davanti il piatto intero, e mangiarselo tutto. Ah pastorelli peggio che arcadi, se pur vi ricordate il cenno sulla loro incorreggibilità nel sempre ripetere le stesse sciocchezze! Ma esciamo da questo argomento che, a somiglianza del carbone, o tinge o scotta.

Qui sento taluno a dimandarmi: «Dottore, almeno un poco di maldicenza a tavola non ce la proibirai, tu! altrimenti con persone di poche risorse, che cosa s’ha da direCapisco: volete tentarmi come i Farisei colla moneta: e poco manca che non vi dia io pure quella risposta, la quale significa: siate giusti, e date il fatto suo a ciascuno. Ma non lo fo perchè quì, oltre all’essere una profanazione, sarebbe uno sproposito: giacchè, a dir male del prossimo, assolutamente non va bene. Però, siccome su questo tema la maggioranza non mi ascolterebbe, trattandosi di un uso al quale i più si abbandonano senza nemmeno accorgersi, volendo poi proseguire anche accorgendosi; così, supponendo un istante che la maldicenza sia proprio una cosa pressochè inevitabile, sarei quasi per prendere il partito di darvi una breve lezioncina sul modo di farla bene, cioè di farla meno male: è già qualche cosa anche questo. In così strana ipotesi comincerei, per esempio, a raccomandarvi di schivare la maldicenza frivola e pettegolesca, perchè è indizio di anima meschina e sciocca, e annoja gli uditori di buon senso. Molti anni sono, una signora sapendo che io frequentava (in Milano) un circolo di persone di spirito, mi disse: «Vengo assicurata che in casa X v’è molta maldicenza.» E io le risposi: «Sì, ma sublime!» E quel motto diventò quasi proverbiale per la sua ardita e precisa significazione. Era di quella maldicenza che non si abbassa mai alla vigliacca pittura dei difetti fisici, o delle compatibili debolezze che non escludono un complesso di virtù e di buon cuore: non era lo stolido investigare la fortuna o le abitudini domestiche di Tizio o di Sempronio: non era la rivelazione di secreti atta a turbare la pace di una famiglia, o a compromettere l’onore di una donna, che ha sempre il più sacro diritto alla stima sociale finchè non l’abbia evidentemente calpestata. Ma si verificava la statura d’un pigmeo che vuol fare il gigante; ma si misuravano le orecchie d’un asino glorioso; ma si strappava la maschera a un Tartufo; ma si scopriva la scala a chiocciola per la quale un uomo inetto era salito alle cariche, ecc. ecc. Perchè insomma nel mondo gavazza una moltitudine di ciurmadori e di birbi, e la sanzione della publica opinione ci deve essere come freno salutare alle azioni e alle ambizioni, e come impedimento all’ultima corruttela sociale: e questa opinione deve basare sul vero, e tocca a chi ha intelligenza e rettitudine a illuminarla, a dirigerla, a diventarne, per così dire, la Borsa. E non doveva quella chiamarsi maldicenza sublime? Con quattro parole si definiva tutto un uomo, testa e cuore, come un abile artista con quattro segni di matita vi l’evidenza fisica e morale d’una fisonomia marcata: e in fine dei conti, beate sotto a quelle lingue le persone di carattere e dabbene! Cari amici, se non volete riescire enormemente stucchevoli e sazievoli, col rischio anche di ripetere per la centesima volta le stesse cose senza avvedervene, guardatevi per carità da quelle maldicenze di parentela che si risolvono in superbiette di preminenze, o in piccole invidie di agiatezza, o in piccole gelosie di predilezioni, o più spesso ancora in rabbiose passioni d’interesse pecuniario. Ora è la lunga storia dell’infame fratello, che dopo essere costato un tesoro in vizii e aver rovinata la casa, riescì, a forza di ipocrisie e di raggiri, a carpire tutta l’eredità di quel mostro di zio5), che aveva tante obbligazioni con voi, e vi aveva sempre lusingati: vecchio scelerato e traditore che, se v’è la casa del diavolo, è , è calzato e vestito a pagare il fio di quell’orribile iniquità. Ora si tratta dei perfidi cognati che fecero sempre a ruffa raffa a chi più pelava l’imbecille vostro suocero; e che tenevano le sorelle in conto di bestie; e che ottennero di farle privare di tutta la parte disponibile di eredità; e che anche la legittima l’hanno fatta risultare a metà del vero mediante perizie ingiuste degli stabili: figurarsi! il tal fondo, un pezzo di terra impagabile, che rendeva tante moggia di frumento e aveva gelsi per tante oncie di semente, senza contare un diluvio di appendici in verdura, ova, pollame; un fondo del quale si sa di certo che due anni prima avevano rifiutato ottantacinque mila lire, sono riesciti a farlo stimare cinquantanove mila, quegli assassini! E la casa in contrada tale? con tre piani e diciotto stanze per piano, e quattro botteghe, in quella magnifica posizione? hanno indotto il vecchio a venderla sei mesi prima che crepasse: e i denari chi li ha veduti? E poi è indubitabile, e lo ha confessato l’infermiere che è ancora vivo, e potrebbe ripeterlo, che alla morte del vecchio portarono via tutte le carte, e lasciarono la cassa vuota di quattrini, e fecero sparire perfino l’argenteria da tavola: cosicchè, tutto compreso (e quì calcoli, riassunti e repliche del già detto), hanno rubato a vostra moglie la piccola bagatella di tante mila lire, ma rubate tale e quale come se l’avessero aggredita sulla strada con le pistole alla gola, ecc. Da questo saggio di nenie famigliari non capite come debba riescir nojoso il voler farne oggetto di trattenimento tra persone che pranzano insieme per darsi buon tempo e allegria? e peggio, se sono raccontate con dieci volte più d’incidenti e di tornando indietro un passo, e di mi dimenticava il meglio.... Dimenticate un po’ tutto una volta per sempre, ovvero tenetelo in voi, chè di siffatti rancori è pieno il mondo, e ci vuole la massima buona fede dell’egoismo e della povertà di spirito a imaginarsi che la gente pigli interesse alle vostre lamentazioni. Credo superfluo il farvi rimarcare quale abisso separi la semplice maldicenza dalla malvagia e infame calunnia: ma non sarà inutile il dire che pur troppo quell’abisso si colma con funesta facilità, e che senza volerlo si può rendersi complici di tale turpitudine accettando e ripetendo come fatti le vaghe e maligne dicerie, o esagerando il vero, o dandogli sinistra interpretazione, accecati dalla passione: cosicchè (lasciatemi passare quest’idea ardita, e pigliatela per un modo di dire) vorrei che la maldicenza, nel senso di regolo all’opinione publica, fosse privilegio dell’alto buon senso e della probità fredda e inconcussa. Ma che farci, se è proprio l’immensa maggioranza che vuole occuparsene tutta la vita? E poi chiamano lingua d’inferno un galantuomo che di quando in quando metta sulla carta una dozzina di periodi a raddrizzare qualche volgare erroraccio. Perchè poi sia diminuita la probabilità d’ingiusti giudizii, questi non dovrebbero mai essere pronunciati sotto la possibile influenza di rivalità d’interessi. Quindi, per dirne una sola, vorrei che nessuno dicesse male degli esercenti l’arte propria; tanto più che per essere troppo ovvio in questi casi il sospetto di malafede e del Cicero pro domo sua, non si arriva quasi mai a persuadere; anzi, per legge di reazione, si crea o si rinforza il partito dell’avversario. Per alcune professioni il publico manca di attitudine a discernere il buono dal cattivo, e sentenzia e applaude e condanna a capriccio e dietro dati fallaci; e in cima a queste sta la medicina, nella quale si vede talvolta il fiore dei biricchini senza testa e senza cuore a sorprendere la simpatia e la fiducia di molti a scapito dei valentuomini. Ma questa piaga della società e della facoltà è cronica e affatto incurabile. Lo sparlare degli individui non vi apporta alcun giovamento; anzi peggiora il male, giacchè i moti della più santa indignazione passano per invidia: capite? si arrischia nientemeno che di essere creduti invidiosi di persone che sono al di sotto della maldicenza, perchè la maldicenza finisce sempre a dare qualche importanza a chi ne è soggetto. Per costoro la migliore delle riprovazioni sta nello schivare con ogni studio di parlarne: quando alcuno li loda, tacere: pressati a dirne il vostro avviso, rispondere freddo freddo: «non lo conosco abbastanza», e dare una voltata al discorso. Il silenzio ostinato e anche affettato di chi sa e può parlare, oh! è di una eloquenza terribile: è l’ideale della maldicenza.... e nel tempo stesso nessuno potrà mai dire che sia maldicenza. Perciò ha ragione il proverbio che un bel tacer non fu mai scritto, e avrebbe dovuto aggiungere che non fu mai nemmeno parlato.

Ma, oimè! noi siamo a tavola, e io calpesto i primi elementi dell’arte mia opprimendovi di morale: e Dio sa che morale! A lei, signor canonico, che ne dice di questo schizzo teorico sulla maldicenza? — Dal pulpito sarebbe una dottrina un po’ troppo nuova e zoppicante; ma esposta fra i bicchieri e per ridere... — Oh, s’intende bene che è per ridere; anzi se ho detto degli spropositi grossi è perchè nella maldicenza sono malpratico e fiacco, e m’è impossibile tener fronte ai teologi. Giorgio! mi avevi promesso non so che piatto di polpettine particolari.—-A momenti verranno. — Bravo; sono la mia passione.

 

 






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5 A proposito di zio mostro è bene che tutti conoscano la classificazione scientifica della specie zio: e quì s’intende lo zio per eccellenza, cioè celibe o senza figli, e sopratutto denaroso; in somma quello zio dal quale i nipoti sperano ed attendono. Dunque vi sono le seguenti varietà di zii: lo zio cavallo, lo zio majale, lo zio bue, lo zio rospo. Lo zio cavallo è colui che fa molto bene in vita, e nessuno in morte: lo zio majale all’opposto non fa nulla di buono in vita, ma vi riserva tutti i suoi benefizi dopo morte: lo zio bue è quello che ottimo conto di e vivo e morto: finalmente lo zio rospo è colui che, a somiglianza di questo schifoso animale, non giova a nulla in vita in morte.





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