CAPITOLO OTTAVO
È però una fortuna che a rendere meno frequenti i discorsi
cattivi ci provedono i discorsi semplicemente sciocchi; i quali, se la
compagnia raccolta ha i cervelli un po’ vacui d’idee migliori, hanno diritto di
campeggiare durante la mensa; e campeggiano, che è una maraviglia. Uno dei
principali discorsi a tavola è l’elogio delle vivande, che molte volte diventa
un coro di esclamazioni ammirative. «Delizioso! — Superbo! — Impareggiabile! —
Divino!» Uno dirà di non aver mai mangiato una cosa tanto squisita; l’altro
dirà: «Questo piatto è la mia passione»; e se state attenti vedrete che almeno
per due ore è uomo a passioni insaziabili e divoratrici, perchè dalla minestra
fino al caffè trova tutto superlativo, e mangia come un lupo.
Il più bello è quando il padrone di casa fa egli stesso il
panegirico del proprio pranzo. Un convitato dirà: «Buono assai questo vino»; e
il padrone: «Capperi, lo credo anch’io, e come costa caro! è vino vecchione di
Groppello, proprio del migliore che fa l’Arcivescovo; e non lo si dà a
chiunque, veda: è una fortuna che io conosca il fattore di Sua Eminenza che
ogni anno me ne mette in serbo un barile: insomma, per vino nostrale e
pasteggiabile, non permetto ad anima viva di berne uno più amabile, più
morbido, più salubre di questo. Osservi, che limpidezza, che colore di rubino;
senta che abboccato: è che non ci si pensa perchè va giù come il latte.» Un
altro loderà il manzo; e il padrone: «Ma le dirò io: è che io mi provedo alla
macellarla mastra del tale che serve anche la Corte fornita sempre delle bestie migliori: e poi
non basta: col beccajo non si scherza, e bisogna ai suoi tempi, a pasqua, a
ferragosto, a natale andar giù gobbi colle mancie, come fo io: se no, invece di
buona carne vi danno ossa, giunta e nervacci, che è una maledizione. E così
quando il capo-giovane ha uno spicchio di petto che ruba gli occhi, o una coppa
da trinciar col cucchiajo, la mette in disparte per me e, non fo per dire, io
ho sempre un manzo-fagiano, che migliore non si può mangiarlo nemmeno alla
tavola di un marchese.»
L’elogio delle vivande conduce facilmente a descrizioni sul
modo di cucinarle; e non è raro che la padrona di casa si spoetizzi enumerando
gl’ingredienti d’un intingolo o d’una pasta, e le loro dosi, e il come si
faccia a combinarle: per esempio: «Ecco come si fa: si pigliano tre uova
fresche, tanto il tuorlo quanto l’albume, e si sbattono ben bene in una
scodella con una zaina e mezza di latte che non sia stato spannato, due
cucchiajate di zucchero, un poco di drogheria fina, due terzi d’un mostacciuolo
trito, e sale in proporzione: poi si mette una mezza libbra di fiore di farina
sulla tavola ben netta, le si fa un buco piuttosto grande nel mezzo, e si versa
dentro il liquido, e poi si incorpora a poco a poco, e poi....» con quel che
segue. Per gli uditori che non bramassero simili istruzioni, figuratevi che
cosa interessante a sentirsi recitare una pagina del Cuoco Piemontese o
della Serva istruita. Dico che la padrona di casa con queste lezioni si
spoetizza, qualunque fisonomia o età essa abbia: perchè non vi è solo nella
donna la poesia della bellezza, dei vezzi, dello spirito, ma v’è anche quella
di padrona di casa che noi convitati vogliamo imaginarci seduta in sala e
occupata in opere gentili, e non ai fornelli a lavorare. Stia pure in cucina
tutto il giorno, se abbisogna: faccia anche tutto il desinare con le proprie
mani: ma non ce lo racconti, perchè queste sono cose che noi non dobbiamo
saperle. Se poi intanto che la signora vi spiega quel processo da credenziera,
guardandole a caso le dita, vedete l’anello matrimoniale infarinato, e un po’
di quella pasta seccata sugli orli delle ugne, allora il caso da prosaico che
era diventa poetico al massimo grado.
Alcuni convitanti vanno all’eccesso opposto, non facendo
altro, durante la tavola, che sciogliersi in iscuse e condoglianze per chi ebbe
la mala fortuna di aggradire un trattamento così indegno del merito del signor
tale o della signora tal’ altra: e sarà un pranzetto eccellente. «Perdoneranno,
ma è stata una gran petulanza la nostra di voler abusare della loro bontà: loro
che saranno avvezzi a pranzi di cuochi, ma di quei delle feste, adattarsi a
venire da noi a mangiare i fegatelli! fossero almeno riesciti bene: ma sono
stracotti e diventati duri come le suole dei miei stivali: basta, in questo
mondo bisogna passarne di ogni sorta. Oibò, questa salsa come è agra: scortica la
lingua! non vorrei che proseguissero a mangiare per non mortificarci: Caterina,
cambia subito il piatto a questi signori; è impossibile che vadano avanti. Ma!
quella demonia là in cucina pare che colga tutte le occasioni in cui si
vorrebbe far meno male, per far peggio del consueto; voglio darle gli otto
giorni.» Costoro levano il respiro a un galantuomo, e lo riducono a non saper
più cosa rispondere, nè come contenersi. Con siffatti originali l’invitato è
costretto a star sempre in guardia di sè stesso, onde non concedere mai nulla
per distrazione, e bisogna prevenire le critiche lodando ogni cosa, e dicendo
male dei pranzi di lusso, dove tutto è etichetta e manca ogni cordialità.
Un altro gran tema di ciarle, perchè alle mense del buon
popolo si ripete regolarmente e inevitabilmente ogni otto o dieci minuti, è
quello delle insistenze perchè gli altri si servano prima, e delle proteste per
voler servirsi dopo. «Favorisca lei. — No, assolutamente. — Prima il bel sesso.
— Almeno per questa volta. — La preminenza alla santa chiesa (se c’è un prete).
— Faccia grazia a servirsi. — Ho sempre da essere io la prima? non la ci sta.»
Intanto due o tre voci all’unisono esclamano: «Avanti dunque l’uno dopo l’altro
di seguito senza tante cerimonie:» e il padrone: «Chi passa perde, l’ho
già detto molte volte:» e dio sa quante altre dovrà dirlo: e il piatto, spinto,
respinto, ondulante, sobbalzato da levante a ponente sembra un battello in gran
burrasca. Questa scena ripetuta ogni momento per tanto tempo, e che è anche causa
di tanto perditempo, non vi pare abbastanza fatua e nojosa e degna di essere
affatto sbandita da ogni mensa ove ci sia un po’ di senso commune?
Per ottenere questo intento.... «Oimè, cos’è stato? — Niente,
niente di male: dell’acqua fresca! — Oh, mai: l’acqua non fa che dilatar
l’unto: ci vuole il sale. — Per carità, si guardi bene: non c’è come il sale
per levare il colore: un poco di acetosella: me l’ha insegnato il mio speziale.
— Povera donna Eufrasia! nel combattere di compitezze col signor Onofrio, e
respingere il piatto, s’è versata addosso mezza la broda del lepre. — È seta o
lana? — Mi rincresce perchè è nuovo, è la seconda volta che lo metto, e
solamente il taglio costa cento trentasette lire. — Sono desolato, tanto più
che ce n’ho un poco di colpa anch’io: ma circa al vestito, stia tranquilla,
perchè ho io un secreto, col quale vorrei conoscerla quella macchia che possa
resistere: e dentro di dimani o nessuno sarà tanto bravo da indovinare dove
fosse la macchia, o che io non mi chiamerò più Onofrio.» Vedi, mio caro
Giorgio? le cause di questa disgrazia sono due: una speciale, e ne sei
responsabile tu e l’altra generale. La prima è che il piatto contenente il
lepre è troppo piccolo, e perciò la broda saliva fino all’orlo, e perciò era da
aspettarsi quello che è accaduto. Dunque tieni a mente per l’avvenire, che le
vivande con salsa, o con liquido qualunque, insomma i piatti in umido, si
devono servire in un recipiente abbastanza concavo, e capace di assai più di
quanto vi sta dentro. L’altra causa poi è quella di cui appunto io stavo
discorrendo, il maledetto vizio delle cerimonie stolte: l’uno calca il piatto
in là, l’altro lo calca in qua; e che cosa poi ne nasca, dimandalo a donna
Eufrasia che è lì col viso lungo lungo, e col naso rosso dalla stizza.
Insomma, non si dovrebbe mai lasciare il piatto in balìa dei
commensali, che è come dare le armi in mano ai fanciulli o ai matti. Chi dunque
non ha bastanti domestici da destinarne uno all’operazione principale di girare
intorno a servire, si faccia imprestare il servitore di qualche vicino di casa,
o faccia salire il portinajo, oppure il parrucchiere della contrada (una classe
di gente così alla mano, così servizievole, che per il prossimo fa di tutto): e
inculcategli bene di servir sempre da sinistra a destra i commensali, affinchè
questi agiscano comodamente da destra a sinistra come chi si leva la spada: e
insegnategli bene che se alcuno è distratto in ciarle o rivolto al vicino, si
deve avvisarlo sommessamente e non dargli del gomito nelle spalle.
E quì piglierò occasione di dare un piccolo avviso anche
agl’invitati. Quando vi cambiano il piatto lasciate fare e non opponete goffe e
grette osservazioni. È questa una pecca non infrequente, massime nelle signore
molto casalinghe e alla buona, di voler far servire un piatto per due vivande.
L’una dirà: «Oh, non è sporco»; l’altra; «Il mio è netto; l’ho nettato io con
la molica di pane:» una terza «È buono ancora; c’è stato sopra la galantina che
è asciutta.» Per carità, non dite mai più siffatte cose! Se una famiglia vi dà
un pranzo, credete forse di farle un favore o una economia risparmiando alle
persone di servizio la lavatura di un piatto? Pare quasi che sappiate per
pratica che è una operazione fastidiosa. Se per caso si dimenticano di
cambiarvelo, vada: altrimenti, ognuno faccia il suo mestiere, e il vostro è di
lasciarvi servire, e di saper rappresentare per qualche ora la parte di persone
gentilmente avvezzate: non è poi una eternità da non poterci durare: basta il
non voler agire di propria testa, ma fare quietamente come fanno tutti gli
altri.
Ma, per essere imparziale con ambo i sessi, come credo esserlo
con tutti i ceti, darò un altro piccolo avviso che riguarda quasi
esclusivamente gli uomini. Alcuni, abituati alle tavole dei ricchi, dove a ogni
vivanda si cambia la posata, si dimenticano che nella classe media questo lusso
non si pratica: e, vuotato il piatto, gli mettono sopra in croce coltello e
forchetta. Male! questo atto di distrazione implica un’esigenza che imbarazza e
mortifica chi non può soddisfarla. A certe tavole numerose, per dirla quì in
confidenza, non v’accorgete dalla varietà della forma e della cifra che le
posate strettamente necessarie sono per metà imprestate? E dove le persone di
servizio sono già troppo poche, dovrà uno correre un tratto in cucina per
lavare la vostra posata, e intanto lasciarvene privo per cinque minuti? Ci
vuole occhio e riflessione anche in queste faccenduole. Il così detto tatto
sociale, ossia il saper vivere, consiste piuttosto nel capire i rapporti e le
convenienze del gran numero delle cose piccole, che del piccol numero delle
cose grandi e straordinarie; dove, se le passioni fanno velo all’intelletto,
siamo quasi tutti d’un criterio eguale, e soggetti a pigliar gamberi
spaventosi. Il saper vivere consiste nel sentire quasi istintivamente, cioè per
rapido e inavvertito esercizio del buon senso, l’atmosfera in cui ci troviamo
collocati, e saper subito acclimatarvici: e in un sito essere affatto alla
buona, in un altro tenerci a livello delle più squisite maniere: entrando in un
circolo di persone nuove, indovinarne dalle prime parole, e quasi dal primo
giro d’occhio sulle fisonomie, l’indole dominante, e non fare il dotto con
gl’ignoranti, nè il frizzante coi semplici, nè il democratico con quei del blasone,
nè lo stordito o lo sciocco, se è possibile, con gente seria e di carattere; nè
pretendere molte forchette e molti coltelli dove ce n’è appena per il bisogno.
In queste e tant’altre simili cose stà il viver del mondo. Che i signori
tengano gran quantità d’argenteria da tavola, va benissimo: come fanno
ottimamente a tenere molti servitori, molti cavalli, molti quadri, ecc., perchè
il lusso alimenta il commercio, le arti, l’industria, ed è una benedizione
sociale. Ma se c’è una superfluità, della quale nessuno dovrebbe sentire la
mancanza, è proprio quella del cambiar le posate. Ragioniamo un poco
filosoficamente. Diogene fu pure un uomo straordinario: forse il più matto
degli uomini savii ma anche il più savio degli uomini matti; insomma, qualche
cosa di grande, se dopo tanti secoli il suo nome è ancora celebre e popolare in
tutto il mondo. Ebbene, egli per cibarsi, e fino per abbeverarsi, non adoperava
che lo strumento naturale delle proprie mani; e questa fu una delle sue glorie
maggiori. E noi che nel fiore della vita e della superbia siamo conosciuti
appena da poca gente del nostro paese; noi che presto presto saremo
nell’infinito numero di coloro dei quali non si parla più affatto; noi per
desinare avremo bisogno di un mucchio di posate per ciascuno? In quanto a me,
se il trionfo della filosofia volesse un sagrificio, starei al patto di pranzar
sempre da principe con una posata sola: e voi?
Ma il principalissimo dei discorsi alle tavole del popolo, il discorso
per antonomasia, quello che domina su tutti gli altri, o almeno gli accompagna
e gl’interseca, come l’aria che si addossa a tutti i corpi e penetra per ogni
buco, è l’eccitare e il costringere i commensali a mangiar molto, e di ogni
cosa. «Un altro bocconcino! — Ne ho proprio abbastanza. — Almeno questo
pezzetto, è tanto una inezia! — Ma tiri giù, per bacco, lei mangia come un
uccellino. — Oh, anzi, ho già disordinato. — A quest’aletta poi non si dice di
no; ha ciera di essere così ben cotta. — Andiamo dunque, quante smorfie! o che
lei si sente male, o che ha già desinato in casa sua»; e altre mille consimili
maniere, essendo infinite le formole con le quali si obliga un povero diavolo a
pigliarsi una buona indigestione. Viene in tavola un piatto di polpette:
attenti, attenti a Giorgio. «Oh, ecco le famose polpettine della serva: è un
cibo un po’ di confidenza, ma è una specialità della mia Gregoria che io
preferisco a tutti gli artifizii dei cuochi, e spero che a momenti me ne
daranno informazioni. La mia servetta (giacchè è voltata via un minuto) ha
mille difetti; lingua lunga, grattar sempre qualche soldo sulla spesa, far
all’amore come una gatta, e poi mi beve lei sola mezza la cantina; l’avrei
cacciata di casa cento volte, ma non è possibile perchè mi fa queste polpettine
che sono un delirio. Signor avvocato, ne tira giù una sola? so ben ch’ella
burla: subito un altro pajo; oh, in queste cause le proibisco di appellarsi:
che diamine, perchè non mangia nulla oggi? pretenderebbe forse di distruggere
il proverbio sull’appetito e sui denti degli avvocati? Ma la vera morte di
queste polpettine è a mangiarle fredde a colazione, che si tagliano così bene a
fettine, con un po’ di sale, con quell’unto che si rapprende in gelatina;
insomma è una cosa da augurarsi per quel quarto d’ora sordi e muti e privi di
tutti i sensi fuor del palato, affinchè l’anima si concentri tutta nella bocca.
Ma, donna Eufrasia, coraggio! per quell’affare ci pensa il signor Onofrio;
aggradisca una polpettina, almeno una: non dimando un regno, non le chiedo il
cuore, ma solo di assaggiare una polpettina: mi farebbe questo torto di
ricusarla?» (Mie care Eufrasie, quando vi capita qualche inconveniente agli
abiti, applicategli la politica moderna dei fatti compiti: già nemmeno
il diavolo vi rimedia, per il momento: dunque disinvoltura e forza d’animo, e
non mostrarvi sciocche, e non rattristare gli altri col diventar taciturne e
ingrugnate).
A proposito di polpette: alcuni vorranno sapere se a un pranzo
un po’ distinto sia lecito servirne un piatto. Il quesito è bello, e credo
anche nuovo, giacchè non conosco alcun filosofo che lo abbia trattato mai. Dico
dunque che, stando all’uso, non si dovrebbe farlo, perchè l’uso, cioè la pazza
moda, ridusse la nostra cucina ad essere imitatrice servile della cucina
francese. Ora, i Francesi sono talmente orbi e digiuni d’ogni nozione sulle
polpette, che non hanno nemmeno nella loro lingua la parola per significarle:
gl’infelici, che si credono il primo popolo del mondo! E a ragionar loro di
polpette sarebbe come chi facesse ai cannibali il panegirico del papa. Le
polpette sono una vivanda affatto italiana, anzi direi esclusivamente lombarda,
dietro informazioni attinte da autorità gravissime in questa materia. Difatti,
nel mio viaggio scientifico del 1845, in occasione del settimo congresso dei
dotti, non mangiai e non vidi mangiar polpette nè a Napoli, nè a Roma, nè a
Genova; e sì che io, da osservatore attento e coscenzioso, passava dai più
rispettabili alberghi alle più modeste osterie del popolo. La vera metropoli
delle polpette è Milano, dove se ne fa grande consumo; dove mi ricordo aver
sentito molti anni addietro un vecchio conte a sclamare: «Se si potesse
raccogliere tutte le polpette che io ho mangiate in vita mia, vi sarebbe da
selciarne la città dalla Piazza del Duomo fino al dazio di Porta Orientale.»
Pensiero poetico, iperbole sublime degna d’un gran patrizio principe delle
polpette! Ora, io dimando: se costituiscono una vivanda tutta italiana e
nostrale, non è appunto il caso di farne orgogliosa mostra sulle mense
migliori? non difenderemo fino all’ultimo respiro la nazionalità e
l’indipendenza.... almeno nelle polpette? Ricordiamoci qualche volta i versi
meravigliosi del nostro non mai abbastanza lagrimato Giusti:
Chi del natìo
terreno i doni sprezza,
E il mento in forestieri unti
s’imbroda,
La cara patria a non curar per moda
Talor s’avvezza.
Filtra col sugo
di straniere salse
In noi di voci pellegrina lue:
Brama ci fan d’oltramontano bue
L’anime false.
Taluno potrebbe objettare che hanno perduto il loro credito
perchè nelle volgari taverne vengono confezionate e infarcite con materie
scadenti, o peggio ancora con ogni avanzo e rifiuto dei giorni passati. Ma chi
v’insegna di andarle a mangiare nelle osterie del popolacc.... volevo dire di
quella porzione di popolo che non si deve più chiamar popolaccio? State un po’
a vedere che non si beverà più il vino sincero per la paura dei vini traditori,
e che negheremo la dovuta venerazione all’oro, perchè i falsarii mandano in
circolazione monete di lega ladra. Dopo questo sfogo di amor filiale verso la
cara patria, lascerò che ognuno la pensi a suo modo in tale argomento, e
chiuderò con un aneddoto interessante.
Durante il cessato Regno d’Italia (intendo quello che cessò
nel 1814) il prefetto di un certo dipartimento era ghiottissimo per le
polpettine e ne faceva la sua quotidiana delizia. Occorse, come occorreva
spesso, di dover celebrare una vittoria di Napoleone col solito Tedeum e
coll’inevitabile pranzo diplomatico. La sera antecedente, fattosi recare dal
cuoco la lista dei piatti, nello scorrerla disse: «E le polpette? — Oh, si
figuri: almeno per dimani bisogna farne senza: è pranzo di etichetta. — Vi dico
che voglio le polpette, e non ascolto repliche. — Mi perdoni, ma piuttosto
lascio quì grembiale e berretta e vado via: ho anch’io le mie convenienze.»
Sopragiunse la moglie che, udita la questione, si mise risolutamente dalla
parte del cuoco. Il decoro della carica non permetteva in quel momento
ulteriori diverbii, e s’andò a dormire. Ma come poteva dormire Sua Eccellenza
avendo in corpo la rabbia di quella disdetta col cuoco, con un vil servitore
non pagato nemmeno dall’erario, ma dal suo privato peculio? Difatti non chiuse
occhio se non dopo aver meditato e fissato un suo progetto di rivincita pel
giorno seguente. Alla mattina, tutto serio e taciturno, si preparò in
grand’abito di gala, e quando, alle undici, gli annunziarono che la carrozza
era pronta, precipitò come fulmine in cucina, e piantandosi duro nel mezzo, con
la destra sull’elsa della spada, gridò: «Cuoco! jeri sera avete disobedito al
padrone di casa: oggi, intendetemi bene, vi parlo come magistrato e
rappresentante del sovrano: comando le polpette!» e calcatosi con fierezza
sulla testa il cappello piumato, si slanciò sdegnosamente nella carrozza e
corse alla cattedrale a celebrare la vittoria di Napoleone e la propria.
Ma riprendiamo il filo del nostro discorso: dove siamo
rimasti? ah, sì; all’abuso di costringere gli invitati a mangiar troppo.
Sapete, miei cari, che questo è un disordine quanto commune, altretanto grave?
A un pranzo d’invito i più passano già la solita misura, e danno in qualche
intemperanza; ben inteso, anche coloro che hanno un ottimo desinare in casa
propria, perchè insomma la varietà e la compagnia e l’allegria sono stimolo a
ciò. Perchè dunque volere che un onesto divertimento si cambii in un attentato
alla salute? È troppo fuori d’ogni ragionevolezza il supporre che i commensali
per discrezione male intesa o per timidezza o per qualsiasi altro futile riguardo
si astengano dal soddisfare pienamente l’appetito. Perciò lasciate che ognuno
si serva a norma del proprio ventricolo e del proprio gusto. Ma no: si
sorveglia, si prega, s’impone, si sforza, e si arriva perfino alla gherminella
di far rivolgere altrove lo sguardo del perseguitato con qualche pretesto per
fargli magicamente ricomparir davanti il piatto pieno. E se taluno rifiuta
affatto una vivanda, è un farsene le meraviglie, e volerne sapere il perchè, e
quasi instituirne un processo. Da ciò le perpetue spiegazioni, ora del signor
Nicodemo che vi narra come egli da una certa epoca in poi, dopo una strana
malattia, prese in aborrimento qualunque verdura, e in qualunque modo cucinata,
ad eccezione della tale: ora è la signora Zenobia che vi racconta del suo
insuperabile ribrezzo sino dalla infanzia per ogni sorta di stracchini e di
formaggi grassi, dei quali il solo odore le sconvolge lo stomaco: e che
quand’era piccina, suo padre e sua madre, credendolo un capriccio, tentarono
cento volte di romperglielo con le buone e con le cattive, fino col farle
mangiare lo stracchino nascosto e larvato da altre materie alimentari; ma ella
ne stava malissimo e sempre lo rimetteva. Oh caro a tavola, oh adorabile
quell’elegantissimo rimettere della signora Zenobia!
Il male sarebbe assai minore se il padrone e la padrona di
casa s’incaricassero soli di questo genere di persecuzione: due contro molti si
stancherebbero, e di quando in quando lascerebbero respirare le loro vittime.
Ma quella cura se la dividono gli amici di confidenza, gli abituati della casa,
che spesso sono i più insistenti e accaniti. Che più? perfino il commensale
novizio e timido, entrato in relazione coi vicini di posto per qualche sommessa
ciarla, ne approfitta subito per animarli almeno sotto voce: «Come mangia poco
la signora! — Ma lei si tira giù le dosi omeopatiche. — Perchè lascia passare
questo intingoletto? Ha un odore che rapisce.» E non è rarissimo il caso che il
domestico nel presentarvi il piatto si faccia coraggio egli pure a seccarvi un
pochettino. Insomma, le più allegre mense del buon popolo molte volte sembrano
sotto all’influenza d’una congiura di tutti contro ciascuno e di ciascuno
contro tutti per ottenere lo scopo finale dell’intemperanza e della
scorpacciata.
Ma v’è ancora di peggio. Quanto al mangiare, una persona, per
compiacente e domabile che sia, arriva a quel punto che non può più progredire
per la semplice ragione che non è più capace di cibo: e le conseguenze del
disordine saranno una digestione laboriosa, qualche peso alla testa e allo
stomaco, non dormire una notte; insomma poco male, quando il male sia una rara
eccezione alla regola della vita. La cosa cammina ben diversamente col bere. Il
vino si lascia ingollare con una terribile facilità, e chi con eccitamenti
abusa di una persona distratta nel calor della ciarla, può renderla prima
ubriaca che conscia d’aver bevuto più che poco. Ubriacarsi! sentite tutto lo
sconcio di questa idea che deve incutere ribrezzo ad ogni animo delicato? Che
dolore e che rimorso per gente onesta vedersi davanti un galantuomo che per
condiscendenza alle importunità vostre ha perduto anche momentaneamente il
sentimento della propria dignità, e s’è ridotto a dare brutto spettacolo di sè
con un’allegria incomposta, con una parlantina sfrenata o d’indole pericolosa:
o, peggio ancora, preso da umore tetro, sospettoso, bestiale, interpretare
sinistramente ogni parola altrui e pigliarne fornite di litigi e di
provocazioni! Casi rari, eccezionali, dirà taluno. Bagattelle! non ci
mancherebbe altro che di essere frequenti: intanto se non lo sono, certo non è
per omissione vostra. E non occorre arrivare fino a quel punto per darci la
prova che gli eccitamenti a bere sono di peggior natura di quelli intesi a far
mangiare: e io per la troppa evidenza della loro intolerabilità mi limito ad
annunziare il fatto che sono nientemeno communi e insistenti degli altri. Basta
bene che la copia e la varietà dei vini sieno una tentazione per sè, senza
avvalorarla con le vostre preghiere. Figuratevi che quando uno si rifiuta a
bere per l’ottima ragione che ha già bevuto anche troppo, si arriva a
rispondergli: «Ebbene, beva senza paura di questo vino che fa passare.» Ma di
grazia, che cosa fa passare? tutto l’altro vino? È proprio così che
l’intendono. Oh scienza nuova e sconosciuta ai fisici profani! hanno inventato
il vino che lava via tutti i vini già bevuti, e i loro dannosi effetti. Ma è
scienza di popolo, e il buon popolo non si lascerà mai rubare nè confutare le
proprie scoperte.
Il pessimo poi del genere in discorso è quando tali
importunità si usano col bel sesso. Le donne, in generale, mangiano assai meno
di noi, e bevono pochissimo, e più acqua che vino, e alcune a tavola hanno
l’aria di assaggiare a spilluzzico le vivande anzichè di pranzare: perchè così
porta il loro temperamento. Pensate dunque che fastidio e che tortura per una
fanciulla gentile e per una delicata signora a sentirsi ogni momento
motteggiate e fatte oggetti di meraviglia e disapprovazione perchè non mangiano
come i doganieri e non bevono come i vetturali. Vedete là quella bella ragazza
seduta per antitesi fra due pancioni di famosa voracità. Costoro che si servono
di tutto in porzioni formidabili, mirano trasognati, anche coll’occhialino per
ischerno, alla mezz’oncia di pietanza che tocca appena il piatto della
signorina, e ne menano rumore come di cosa incredibile. Tutti guardano e
partecipano alla meraviglia, e la persecuzione incomincia da ogni parte.
«Signora Cecilietta, l’aria non tien pasto. — Ma si ricordi che quì non è in
collegio sotto alla sorveglianza della direttrice. — E dove alle educande si
contano i bocconi in bocca. — Almeno a tavola non bisogna essere così
sentimentale. — Scommetterei che è innamorata. — Sì, sì, l’hai detta giusta:
vedi come diventa rossa. — Poverina! ci sarebbe da stupirsene? è la sua età. —
Ebbene, l’amore essendo una felicità dovrebbe aguzzare l’appetito. — Un
brindisi alla salute del suo amante. — All’adempimento de’ suoi desiderii» ecc.
Ah brutali che siete! una zitella graziosa allieta e infiora la vostra mensa coi
vezzi della bellezza, della modestia, delle maniere soavi e squisite; e voi le
fate scontare queste consolazioni degli occhi e del cuore con le apostrofi più
grossolane e allarmanti? E, dico, che razza di raziocinii! mangia poco, dunque
è innamorata: e la controprova di ciò è che diventa rossa a cantargliela sul
viso in piena assemblea. Non vi pare che diventerebbe di bragia anche una
funambula dismessa? Eppure, se, grazie al cielo, non sono frequenti i modi da
me ora descritti, è per nostra disgrazia frequentissimo questo metodo di
ragionare.
Concludiamo: trattasi di un vino scelto, o di un piatto di
bontà particolare? sarà non solo lecito, ma conveniente l’invitare senza sforzo
i commensali a servirsene ripetutamente: chè ogni regola ha le sue eccezioni; e
non amo che interpretiate i miei consigli per precetti pedanteschi,
indeclinabili, arcigni. Ma in via di massima generica, e più generica che sia
possibile, guardatevi dall’importunare chicchessia perchè mangi o beva a misura
della vostra mal’intesa cordialità; ma lasciate che ognuno faccia a modo suo: e
credetemi che ho insistito assai su questo disordine perchè è il peggiore e il
più molesto e il più commune dei pranzi popolari. Oh che bel vanto sarebbe il
mio di veder riformati i viziosi costumi delle mense, e quanto ne andrei
glorioso! Aspiro alla gloria anch’io, vedete: ma non già alla gloriola dei
dotti e degli scrittori dozzinali, come sarebbe: o essere celebrato da molti
giornali che lodano egualmente libri ottimi e libri pessimi, e talora meglio questi
di quelli: o diventar cavaliere di alcuno dei molti ordini equestri che vi
lasciano sempre andare a piedi: o essere inscritto a sei o sette di quelle
academie croniche, i di cui socii con esemplare ingenuità si chiamano da sè
stessi membri effettivi. Oh, no! non è a questi rami di gloria che io
dedico la severità degli studii, la pertinacia delle veglie, il sagrificio
della salute. Sono ben altri gli scopi della mia ambizione: io tendo a
distruggere davvero gli abusi che vo mano mano descrivendo: io spero dal mio
libro frutti di popolare incivilimento. Quanta consolazione se da quì a un anno
mi arrivassero buone nuove da tutte le parti! per esempio: che alla mensa del
tale, dove si sedeva così stretti e disagiati, ora ci si sta comodamente e si
può muovere le braccia: che il signor tal altro ha fatto mettere nella sala da
pranzo una stuoja e una stufa: che in casa A non si è più obbligati a lodare
tutte le vivande dacchè il padrone non ne parla più: che un buon padre di
famiglia sentendo a intavolarsi ciarle di cattivo genere, ebbe il coraggio di
dire: «Signori, il recente trattato sull’arte di convitare anatemizza
severamente questi discorsi, massime dove vi sono ragazzi»: che perfino l’amico
Gervaso da qualche tempo non si fa più uno stretto dovere di mandar via brilli
i suoi invitati a forza di farli colmare e vuotare i bicchieri ecc. ecc.
Insomma, io spero nientemeno che di raggiugnere in parte lo scopo che si
prefigge il mio libro: cosa che ai libri non accade quasi mai di ottenere.
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