Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Giovanni Rajberti L'arte di convitare IntraText CT - Lettura del testo |
|
|
Eccoci finalmente alle frutta e ai dolci. Ben disposti questi piattini; lodevole la varietà, la sceltezza e il buon gusto: ci si vede l’opera sagace delle tue figlie: bravo Giorgio! Oh, magnifico poi quel gran cubo di formaggio di grana nel mezzo! questo è pensiero tuo, e presenta un bel contrasto colle galanterie che gli fanno corona. Intanto che gli oziosi e i ciarloni urlano sul miglior sarto della città o sul peggior letterato di Lombardia, e che le donne tengono seria consulta di cuffie e cappellini, gli uomini di buona volontà e di buon senso suggellano e, direi quasi, cementano il pranzo con una buona scheggia di granone. Quà, versami il Gattinara vecchio, che pel formaggio, e specialmente per questo, non ci vogliono vini da burla. Io me ne intendo, vè, e ti dico che il Grana sta a tutti gli altri formaggi del mondo come Giove Olimpico alla marmaglia degli Dei minori. E quantunque non abbia il nobilissimo angolo facciale di cento cinque gradi che gli diede il divino scalpello di Fidia, ce lo faremo noi col coltello, di cento dieci, di cento cinquanta, di mille gradi! Vedi che fila di seta lascia dietro al taglio: e proprio di quello che fa la schiena, e unisce l’energia d’Ercole alla delicatezza di Aracne. Noi qui gli abbadiamo poco, come al sole, perchè è cosa nostra e commune: ma all’estero gode una riputazione immensa, e lo vendono i droghieri, e crescendo l’incivilimento finiranno a venderlo gli orefici, perchè è un vero granito d’oro e, col difundersi dei lumi, si acquisterà a peso d’oro. Mi ricorderò sempre che, da giovinetto di quattordici o quindici anni al più, mi occorse di fare una trottata a Corsico, villaggio a quattro miglia da Milano, fuori di Porta Ticinese: dove erano ricchi depositi di formaggi per la stagionatura. Un buon vecchio dal ventre enorme, e dalle gambe che pareano colonne, e con un faccione rubicondo da luna piena, s’incaricò di condurmi a vedere alcune casare: e nel farmi percorrere a colpo d’occhio quella sterminata grazia di Dio, mi diceva: «Queste sì sono le vere biblioteche, signor abatino; e libri che si leggono tutti e fanno buon pro: non come quelli dei loro studii che fanno diventar magri e morire prima del tempo»; e parlando mi squadrava da capo a piedi, in aria di compassionare la mia figura sparuta e mingherlina, e specialmente un certo pajo di gambette deplorabili che sembravano due flauti. Ti lascio imaginare se io allora rimanessi scandolezzato di quel discorso, io colla zucca tutta piena di Cornelio Nipote, di Tito Livio e di Marco Tullio; anzi ne feci per molti anni le più saporite risate, narrando a tutti l’aneddoto occorsomi con quel bestione di vaccaro. Ma quando coll’andare del tempo misi pancia anch’io, e le mie gambette divennero gambotte, e che crebbe in proporzione il discernimento delle umane cose; allora mi entrò tutta la sapienza di quelle parole, e capii che io era un ragazzo, e quello un uomo. Il male è che i dotti queste cose non le capiscono mai nemmeno quando sono grandi e grossi. Ne vuoi una prova? indovina un poco che nome danno al formaggio di grana i così detti linguisti che sono i veri carnefici della lingua? lo chiamano formaggio parmigiano, oppure il parmigiano, senz’altro, tanto la parola sembra loro chiara ed evidente. Ma non è cosa da buttar via la testa? si può render la lingua più sfacciatamente bugiarda, per non dire calunniatrice? E poi mi daranno torto quando asserisco che i filologi sono tutti asini! Parma! che cosa c’entra quella città col formaggio di grana? Parma vanti pure il suo Tommasini, il suo Toschi, il suo Giordani, ecc. e, ciò che più importa, le sue famose bondajole: perchè gli uomini illustri sono accidenti che passano, e i buoni majali restano sempre: ma il formaggio di grana! oh, non si sale tant’alto: e i Parmigiani da quella brava gente che sono dovrebbero fare un ricorso in carta bollata per ottenere la rettificazione giuridica e legale di un tanto sproposito: altrimenti crederemo che vogliano vestirsi delle penne del pavone. Io l’ho coi letterati, vedi, perchè sono cinque secoli e più, fino dal tempo di Dante, che si tormentano e ci tormentano colle questioni di lingua: e che fanno liti d’inferno, e che si beccano peggio che i polli in una capponaja: e non solo per la lingua, ma a poco a poco per l’abbici, e l’ortografia e le consonanti doppie, e gli accenti e le virgole, che è uno sfinimento, e non si sa più a chi credere o a chi dare ascolto. E poi quando si tratta di parole che dovrebbero prenderle da chi le ha inventate insieme alle cose, dal popolo, e dall’uso commune, creano di loro capo termini assurdi, per singolarizzarsi: e sono capaci di chiamare argomento il serviziale e parmigiano il formaggio di grana. Mi pare che sarebbe il caso di applicar loro per punizione i loro stessi argomenti. Che ne dici, Giorgio? non è cosa dà diventar matti a pensarvi? — Dico anch’io che un’idea fissa può far diventar matto un uomo, e perciò finiscila, se no io non ti lascerò più bere. — Oh, in quanto a questo io bevo ancora perchè ho da ragionare, e le mie ragioni voglio dirle tutte. Alcuni altri, per esempio, lo chiamano formaggio lodigiano: via! manco male, perchè almeno comincia ad esserci della verità: ma la verità non c’è tutta. Il Grana è come Omero che fu disputato da molte patrie, anzi meglio: perchè il nostro formaggio ne ha proprio molte, mentre l’Orbo divino non poteva averne che una. Dunque la patria del nostro eroe non è solo la provincia di Lodi, ma anche quella di Pavia, ma anche quella di Milano: giacchè appena fuori di Porta Ticinese, di Porta Vigentina e di Porta Romana si fa la formaggia di prima qualità: eh, Milano nelle cose belle e nelle cose buone c’entra quasi sempre: è il vizio della mia patria. Insomma, qualunque denominazione desunta da paesi è una ingiustizia in diritto, e una stoltezza in fatto, perchè dovunque si fa questo formaggio è conosciuto sotto al solo e preciso nome di formaggio di grana: e il senso commune vuole che i veri nomi sieno rispettati e che si dica pane il pane e vino il vino: e quelli che stampano le loro parole, come fossero oracoli, dovrebbero essere i primi a possedere almeno il senso commune. E se avremo presto le nostre Camere rappresentative, come è certissimo, io non darò il mio voto per la nomina di deputato che a colui il quale si assuma di proporre alla prima seduta una mozione d’urgenza per far passare la legge seguente: che chiunque dei così detti scrittori, letterati o scienziati, agronomi o economisti, articolisti o linguisti, membri o non membri, oserà in avvenire chiamar parmigiano il formaggio di grana, sia condannato a non mangiar più altro formaggio che quello fabbricato nella città di Parma. Oh, li metteremo al dovere noi i filologi traditori! Del resto, mio caro Giorgio, con un’altra giornata che noi passiamo insieme, io ti rendo un convitante perfetto. Le mende che furono scopo alle mie critiche riguardano piuttosto la forma che il fondo: ma il sentimento della buona tavola tu l’hai, e ciò è come il dono della tavolozza per riescire pittore: perciò ti dico che nell’insieme sono contento di te ubi plura nitent in carmine.... capisci il latino tu? — Ma dottore, dove hai la testa? non abbiamo passati insieme gli anni di università? — Ah, sì, è vero: in questo momento non me ne ricordava più: quantunque, vè, sia detto fra di noi, questa non sia una gran ragione: giacchè dopo tanto tempo potresti averlo dimenticato tutto, o, ciò che è più commodo, non averlo imparato mai. Si starebbe freschi se, per andare a Pavia o a Padova, si dovesse sapere il latino, o anche solo l’italiano. Dunque, come ti dicevo, ubi plura nitent in carmine, non ego paucis offendar maculis, il che all’ingrosso significa, che quando il pranzo nel complesso è buono, non si deve sofisticare sui lievi difetti, nè arricciare il naso sulle piccole macchie, per esempio sulle macchie delle candele di sego. Adesso voglio lasciare in pace l’amico Giorgio, al quale, essendo finito il desinare, non saprei più cosa dire; e poi, povero diavolo, deve essere ristucco delle mie importunità: e mi rivolgerò nuovamente ai lettori per raccontar loro che questo mese di gennajo mi pervenne una lettera anonima. Non so se agli altri scrittori accada lo stesso: ma è ben raro che io publichi un libercolo senza che mi rechi il frutto di alquante lettere non sottoscritte, nelle quali mi danno allegramente ora dell’asino, ora dell’arrogante, ora del birbone, e qualche volta tutti insieme questi titoli, e col dovuto corredo delle prove. Almeno adesso c’è il vantaggio che col nuovo sistema di apporre il bollo alle lettere tali strapazzi non importano tassa. Per l’addietro c’era anche il danno di pagarli: e dover sempre pagare e pagare chi non fa altro che insultarci e vilipenderci, non è cosa molto piacevole: me ne appello a coloro che si trovassero in simil caso. Dunque, la lettera della quale vi parlo, essendo la più civile e ragionevole fra le anonime da me ricevute finora, credo opportuno di publicarla come sta, tanto più che se non lo fo io, l’autore mi minaccia di farlo egli stesso. «Giacchè avete trovato la California nel calamajo, cioè il secreto di farvi pagare a un soldo per pagina le chiacchiere, permettete che un vostro associato ve ne dica quattro per niente. Ho letto la prima parte della vostra operetta sull’arte di convitare, e vi confesso da uomo franco e sincero che vi trovai molte prolissità e stiracchiature, e freddure, e trivialità, e impertinenze, e frivolezze, e varii giudizii irriverenti e brutali. Però, ad onta di questi e altri gravi difetti, mi avete anche divertito un poco, perchè in fine dei conti siete un petulante abbastanza strambo e vivace; e io non sono tra i più malcontenti di avervi gettato un fiorino. Anzi m’avete lasciato molto curioso di vedere come mai farete a dire ancora altretante parole sopra un tema così piccolo e arido: che pare proprio vi siate fitto in mente di vestire una scimietta con un’armatura da guerriero del medio evo. Basta, se per tirare il libro alla giusta misura vi mancasse la materia, io vi suggerirò un argomento che certo vi sarà balenato nel pensiero, ma che dubito assai non abbiate il coraggio di affrontare, perchè in fondo voi siete un aristocratico bello e buono. Avete bel mascherarvi dietro allo scherzo e all’ironia per non lasciar mai capire quando parliate da senno o da burla: ma il lettore un pò furbo conclude che i pranzi dei nobili sono la vostra passione, e che quando potete mettere i piedi sotto a una tavola illustrissima, non vi è stravaganza che non ammiriate, e allora tutto il mondo vi pare fango. Dove mi sono affatto convinto di ciò è quando nel descrivere i grandi che vanno a mensa, accennate col più amaro disprezzo al codazzo composto dal ragioniere, dall’avvocato, dal prete di casa, e se v’è di peggio; quasi che voi foste qualche cosa di meglio di questa gente. Non potete imaginarvi a quanti le vostre superbe parole abbiano fatto salire la mosca al naso. «Ma io vi perdono tutto, chè nulla m’importa delle vostre tendenze, e altronde io non appartengo a nessuna di quelle professioni; però a un patto: che facciate cenno d’un abuso che accade proprio alle mense più distinte: ed è, che in fine di tavola si mette davanti a tutti una tazza azzurra con acqua tiepida per lavarsi le mani e la bocca. Vi pare anche questa una meraviglia degna delle vostre umilissime lodi? Fino a lavar le mani, pazienza: se ne sente il bisogno, perchè durante il pranzo è troppo facile l’aver preso colle dita qualche pezzo di volatile, o qualche fetta di salato, o qualche frutto. Ma quel scialacquare14 la bocca e fare il ganascione di quà e il ganascione di là, cicch ciacch, cicch ciacch, e poi sputare nella sottocoppa, è una cosa che non sembrerebbe credibile se non la si vedesse; e che dopo veduta non sembra ancor vera. E notate che questa usanza, oltre all’intrinseca sua bruttezza, riesce anche insidiosa ai commensali timidi e novizii, i quali sono capaci di scambiare quell’acqua tiepida per il colpo di riserva, ossia per la delizia finale della mensa, e beverla tutta saporitamente, come qualche volta mi e accaduto di vedere. Ma avvertite bene di non iscapolarvela del toccare questa corda sotto al pretesto che voi trattate dei pranzi popolari: giacchè voi siete uomo da scivolare dalle mani di chicchessia come un’anguilla male afferrata: oh, no! avete tante volte divagato col discorso sulle mense eccelse, e coll’entusiasmo della più matta poesia: perciò siate giusto, e parlate di questo costume esclusivo dei ricchi; e occupatevene di proposito, e ragionatamente: chè vogliamo proprio sentire il vostro parere. E se non lo farete, vi avverto che publicherò questa lettera su qualche giornale, per persuadere tutti i vostri lettori che siete il più ghiotto e insieme il più pauroso parassito che bazzichi alle tavole dei conti e dei marchesi. «Dunque a rivederci alla seconda parte del libro: intanto addio, e state sano per molti anni a fine di continuare a scrivere le vostre corbellerie: chè, in sostanza, è un mestiere anche quello del pagliaccio, e massime in questi tempi melanconici e rabbiosi ce ne abbisogna alcuno che non sia dei peggiori; e, d’altra parte, se la fortuna non vi diede nè bezzi nè mezzi, e se per le vostre satire siete sempre un medico da pitocchi perfino a Monza, è troppo giusto che v’ingegniate in qualche maniera, povero disperato anche voi! E sappiate che io vi voglio bene, e che compero sempre i vostri libretti; perchè almeno voi il buffone lo fate giovialmente, e, pare anche, colla piena coscienza di essere tale: a differenza di tanti animalacci che ammorbano la stampa e le academie, non sapendo mai dire una sciocchezza nuova, ma rifriggendo quelle vecchie con un’aria e una prosopopea come se fossero l’oracolo di Delfo. Viva ancora la vostra faccia! Addio. |
p. - 14 Questa parola scialacquare l’ho riportata come sta scritta nell’originale per iscrupolo di esattezza. Mi fa però ricordare di averla più volte udita, nel senso dell’amico anonimo, da qualche bravo chirurgo, e perfino da qualche medico distinto. Cari dottori, fate attenzione a non ripetere mai più questo lapsus linguæ, che potrebbe danneggiarvi nell’opinione delle persone côlte: giacchè scialacquare significa dilapidare, consumare malamente la fortuna; si scialacqua un patrimonio, ma non mai la bocca; nel quale ultimo senso bisogna dire risciacquare, e, in buon milanese, cioè in milanese non volgarissimo sciaquà. Mi raccomando, per l’onore solidario del nostro ceto. |
Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License |