CAPITOLO DODICESIMO
Il pranzo è consumato: nessuno più mangia, e gli uomini
finiscono di vuotare l’ultimo bicchiero. La moglie del signor Onofrio deve aver
promesso i dolci a tutti i fanciulli della sua contrada, perchè è diventata
un’offelleria ambulante: da un quarto d’ora almeno non fa altro che intascare e
insaccare pasticcini e zuccherini, levandoli un po’ d’un piattello, un po’ da
un altro con una disinvoltura e un’aria di distrazione come se fossero sempre i
primi che tocca e nessuno dovesse avvedersene. Queste operazioncelle così
naturali bisogna saperle fare con molto garbo, e anche con qualche moderazione:
e tocca poi ai padroni di casa, se vogliono essere compitamente gentili, a
stare attenti a chi vagheggia con più tenerezza le varie specialità del dessert,
e dire, per esempio: «Signora Brigida, i suoi bei ragazzini oggi sono privi
della di lei compagnia per nostra colpa: bisogna dunque compensarli con quattro
bagatelle adattate alla loro età»: e fare un bel cartoccio per la signora
Brigida: e non lasciarsi smovere dall’«oibò, oibò» nè dal «non ci mancherebbe
che questa dopo tanti disturbi»; nè dal «non permetterò mai», giacchè avrete
indovinato il suo vivo desiderio, e, fingendo di non permettere, permetterà con
tutto il piacere.
Giorgio e sua moglie si scambiano un’occhiata d’intelligenza e
si levano in piedi: tutti fanno lo stesso, e si ritorna nell’altra sala. Questa
volta non si fanno più le smorfie di prima per voler cedere il posto: s’ha
ciarlato e s’ha riso molto, s’è anche bevuto abbastanza bene, s’è entrati in
qualche confidenza con tutti o quasi tutti, nel muoversi si discorre ancora
calorosamente; perciò si va avanti senza tante cerimonie: manco male! Qui è il
caso di rimarcare che se l’allegria e il vino possono far dire qualche
sciocchezza di più, in compenso ne fanno fare qualch’una di meno. Non accade
però così tra i grandi signori: siccome là si agisce dietro principii
inconcussi e riconosciuti, non v’è pericolo che i vapori del pranzo salgano
dallo stomaco alla testa, e facciano dimenticare a chichessia la propria parte
in quella seria rappresentazione: quindi si va via da tavola collo stesso
ordine col quale si è venuti. Io che talora mi lascio andare alle più matte
fantasticherie del mondo, trovandomi nell’umile coda degli invitati di nessun
sangue, qualche volta ho pensato: «che cosa mo accadrebbe se io repentinamente
mi portassi al fianco della marchesa, e pigliatala sotto al braccio, andassi
avanti pel primo, pettoruto e fiero? la marchesa cadrebbe in isvenimento,
imaginandosi d’essere assalita da un frenetico? i servitori mi getterebbero da
una finestra? certo che nascerebbe uno scandalo e un parapiglia tale da servire
di esempio terribile per un’intera generazione a quei nobili che si arrischiano
di invitare i plebei. Sarebbe come se al Teatro della Scala, nel momento più
tenero di un duetto, un vile corista venisse avanti a cacciar via Rubini, e a
urlare con la prima donna.»
Eccoci nella sala di conversazione: oimè, che freddo! ma
questo locale è diventato una Siberia: capperi! s’è aperta una finestra, e il
fuoco è quasi estinto. Giorgio, un’altra volta fa sorvegliare alla possibilità
di tali inconvenienti: io sperava di non doverti più seccare. Presto, dunque,
un buon fuoco, vivacissimo (che avrebbe dovuto ardere allegramente durante
tutto il tempo di tavola per mantenere una buona temperatura): poichè il post
prandium frigus non significa già che dopo desinare si debba patire il
freddo, ma solamente che si ha freddo, perchè il sangue si ritira dalla
periferia ai centri per ajutare il lavoro della digestione; quindi si fa
maggiore il bisogno di un ambiente almeno tanto dolce quanto quello della sala
da pranzo. E così noi adesso, invece di ricevere ristoro dal calorico esterno,
ci tocca a disperdere il nostro e ajutare delle nostre persone il riscaldamento
della stanza. Perdona, vè, se non ho fatto altro tutt’oggi che tormentarti come
un rimorso. — Ma non dire così: era questo il mio desiderio, e te ne ho pregato
io stesso: anzi, capisco che ci vorranno ancora varie sedute per mettermi
proprio a livello delle esigenze moderne: perciò fissiamo una giornata al più
presto, da stare ancora insieme. — Quando tu vuoi: io veramente sono diventato
molto pigro e restio a rompere le mie abitudini domestiche, ma per un buon
amico, così volonteroso di approfondirsi nell’arte, sono pronto a tutto: però
vorrei che la prima volta fossimo in pochi: giacchè in un circolo più ristretto
e non tanto rumoroso raffineremo i ragionamenti, e i miei consigli saranno, per
così dire, meno gramaticali e più filosofici. Anzi, sai? io sarò capace di
anticipare la mia venuta di mezz’ora, e scendere in cucina a farti io stesso il
risotto, che è una delle mie grandi abilità. — Ah sì, mi ricordo fino da quando
eravamo a Pavia, che tu eri la disperazione dei cuochi del Giuramento,
dei Campi Elisi, della Misteriosa, quando si commandava il
risotto: e stavi là di viva forza ai fornelli a manomettere tutte le casseruole
perchè lo facessero bene. — Oh, ma che razza di cuochi erano quelli! mascalzoni
appena degni di far cuocere le patate o le castagne in piazza: già si pagava
anche in proporzione. — I begli anni della divagazione e della spensieratezza
universitaria, dove sono andati? pochi soldi, molta salute, nessun pensiero, e
padroni del mondo! E quanto ridere di tutto e di tutti! E quanto parodiare le
lezioni dei professori collo stile, colle voci e coi movimenti di ciascuno! E
quanto schiamazzare e tempestare e imbestialire in quel teatro dei quattro
illustrissimi signori cavalieri compadroni! — A proposito, sai? non lo
chiamano più così: o che quegli illustrissimi non sieno più quattro, o che
alcuno dei quattro non sia più illustrissimo, fatto sta che gli hanno cambiato
quello sterminato nomaccio aristocratico: e, presa una scorciatoja che abbrevia
la corsa di cinque sesti, lo ribattezzarono per teatro del condominio.
Che colpo di sintesi ardito e inaspettato! è proprio come se avessero
sostituito una strada ferrata al lento viaggiare in barca. E io ho sentito dei
bestemmiatori a dire che l’Atene lombarda è il Luogo Pio Trivulzio delle
scienze, e che non vi si fa mai nulla di nuovo: lo ripetano adesso, dopo la
scoperta del condominio. — Ma non ti viene mai in mente che delizia sarebbe a
passare un poco ancora di quella vita gioconda e beata? — Oh, non dirlo a me
che darei tre anni di esistenza per fare un mese solo lo studente cogli amici
di quel tempo: e ti assicuro che parlando solo della testa e del cuore,
rappresenterei ancora bene la mia parte. Eppure, quantunque fossero veramente i
più begli anni della vita, si era inquieti, malcontenti, smaniosissimi di
finirla: e si malediceva cordialmente Pavia, e, se te ne ricordi, eravamo in
collera con Napoleone perchè nel 96 le diede solamente il sacco e non il fuoco
da annichilarla: oh che baroni! quella popolazione poteva essere più buona e
tollerante? e sì che l’accumularsi di tanta gioventù matta e ardente deve
essere per la cittadinanza tranquilla e onesta un motivo perpetuo di allarme
sotto a varii e serii rapporti. Ma! cose umane: anzi è proprio questo il
destino dell’umanità, e lo disse molto bene La Bruyère, mi pare: «Si
passa la prima metà della vita a desiderar la seconda: e poi si passa la
seconda a sospirar dietro alla prima».
Ahi, ahi, cosa vedo! per pietà arrestatevi, quelle belle
ragazze. Non c’è più rimedio: hanno già versato tutto il caffè in diciotto
chicchere: dimodochè, in cambio di sorbirlo bollente, per ora che sarà
distribuito lo si beverà freddo. E, per mia regola, ci avreste anche messo lo
zucchero? — Sissignore, a tutti e in abbondanza. — Ma benone! (oh poveretto me!
un momento solo che mi dimenticai di sorvegliare e che, rivolto al fuoco, si
dicevano quattro fanfaluche con Giorgio, non potendo farmene una grossa lui, me
l’hanno fatta grossissima le sue figlie). Sentite un poco, le mie care
figliuole: mettiamo il caso che un pajo di merlotti si incapricciassero di
sposarvi, cosa che vi auguro di cuore; quali informazioni potrei dare di voi,
se non sapete nemmeno servire il caffè, parte così integrante dell’educazione
feminile?
Sul solo caffè ci sarebbe a scrivere un trattato, e se ne
sente davvero la mancanza: quale sarà il fortunato ingegno che s’affretterà a
cogliere questa palma tutta vergine e bella? giacchè se per un verso l’argomento
è importante, per un altro il buon popolo è ancora bambino in questo ramo di
scienza. Io, poichè il tempo stringe, e mi sento abbastanza affaticato sotto al
peso soverchio dei molteplici allori, lasciando libero il campo a più giovani e
robuste penne, non farò che rapidamente toccare la materia per sommi capi;
tanto che gli uomini e massime le signore di buona volontà possano averne un
cenno almeno elementare. Comincio a far riflettere che c’è poca filosofia in
quelle tante famiglie che servono a tavola il caffè. Nella saggia economia del
diletto è ammesso come assioma di non esaurirlo d’un fiato solo, ma di gioirne
pacatamente, con commodo, e di lasciare alla fine qualche piccolo desiderio da
soddisfare ancora. Dunque, perchè s’ha proprio da far tutto a tavola? È la
maniera di farci levare da mensa mogi mogi e imminchioniti, con un certo vuoto,
se non nel corpo, almeno nell’anima, per il pensiero di aver finito. È ben
altro affare, quando il commensale alzandosi pensa deliziosamente: «Adesso si va
a prendere il caffè». Dico bene? a me pare che le mie ragioni sieno di una
chiarezza ed evidenza tale, che se argomentassero così nelle altre scienze, non
si lascerebbe più luogo a controversie. Mi ricordo bene di aver condannato
l’uso di stare troppo tempo a tavola: ma non è meno riprovevole il sistema di
alcune case, per le quali il pranzo sembra essere una contingenza affatto
secondaria, e quasi un debito antipatico da pagare colla massima fretta per non
pensarvi più: via una cosa, l’altra; via una cosa, l’altra; e mentre si sta
pelando una castagna, ci vengono addosso col caffè. Ma che furia! facciamo i
nostri affari con calma e ponderazione: il caffè lo prenderemo di là, da qui a
un quarto d’ora: lasciate un poco di riposo al gusto e all’olfatto per renderli
meglio idonei a valutare tutto il merito d’una sensazione d’indole tanto
differente. La fragranza gentile e poetica del levante s’ha da
profanarla in questa atmosfera prosaica e ormai corrotta da tutti gli odori
delle vivande? Insomma, intendiamoci chiaro: per il pranzo noi non vogliamo
essere assoldati a giornata, no: ma nemmeno a cottimo, chè si precipita e si
strappazza troppo il mestiere.
La padrona di casa, o chi per lei, sorvegli e proveda perchè
il caffè (di ottima qualità e immune da qualunque avaría) sia recentissimamente
abbrustolito e macinato: così conterrà ancora tutta la sua preziosa untuosità,
nè avrà difuso troppo di profumo a benefizio dei profani o dell’aria, e a
scapito nostro. Occhio e diligenza all’abbrustolimento che non trascenda oltre
al dovere: nel qual caso funesto si otterrà una semicarbonizzazione con perdita
di tutta la parte aromatica: e, fosse anche Moka divino, nel beverlo ci
parrebbe un detestabile infuso di peluje di marroni arrostiti.
Il caffè sia forte, intenso; tale essendo il bisogno dei
palati e dei ventricoli robusti, e chi non sa reggervi è padrone di prenderne
appena un sorso: sia bollente, che s’abbia da bere a centellini, e al tempo
stesso ben deposto e decantato, poichè il nuotarvi ancora dentro la polvere è
difetto capitale. Per giugnere a tutti questi scopi che sembrano incompatibili
tra loro, bisognerebbe fare il caffè a macchina: difatti sarei del savio parere
di proscrivere quelle cogomacce di rame stagnato che versano il caffè da quella
specie di nasaccio capovolto che lascia evaporare la parte oleosa, volatile. Le
macchine da caffè vanno annoverate fra le conquiste gloriose dell’attuale
incivilimento: e ve n’ha di vario genere, e ingegnosissime, e perfino
trasparenti che lasciano vedere tutto il processo dell’operazione, talchè
stando attenti ad esaminarle, mentre se ne attende il benefico risultato, si
riceve anche una bella lezione di fisica, di mecanica, di idraulica, di
pirotecnica, che so io? insomma, c’è della scienza in azione, e la scienza colta
sul fatto dà tutt’altro succo, ed è ben altrimenti digeribile che quella
blaterata dalle cattedre o dai libri.
Chi serve il caffè non distribuisca mai zucchero nelle tazze,
nè tanto nè poco, come sventuratamente hanno fatto le buone figlie di Giorgio:
perchè i gusti sono varii, dal bere dolce come il miele fino al voler
assaporare in tutta la sua purezza ed energia l’amaro sublime della nobile
fava. A ciascuno, di
mano in mano che è chiamato, si presenta la zuccheriera piena,
e la chicchera vuota; affinchè si serva meglio a suo genio: e poi gli si versa
o gli si spilla il caffè. Per ultimo, il caffè sia abbondante. Una volta,
barbaro costume! s’usava a riempiere la tazza e la sottocoppa. Ora che, allo
scopo di bere caldissimo, e di non impacciare troppo ambe le mani, e di non
complicare l’operazione con doppio riparto di zucchero, quel metodo fu abolito;
ora c’è poi l’inconveniente che le chicchere restano sempre della capacità di
una volta: il che equivale all’essere trattati a mezzo soldo come gli impiegati
in disponibilità. Per i pranzi che, quantunque squisiti e copiosi, decorrono
tranquilli e savii e senza eccessi, quella dose è sufficientissima, nè oserei
suggerire riforme: ma per i grossi e lunghi desinari del buon popolo, dove si
fa troppo mangiare e bere, dove insomma c’è un pochettino di crapula, la cosa
non va bene. In questi casi bisognerebbe dare il caffè.... Oh la magnifica idea
che mi balena nel cervello! vedete un poco: i dotti si lambiccano l’ingegno da
secoli per trovare il moto perpetuo, e non lo trovano mai, i poveri diavoli! e
un ignorante trova di colpo, per inspirazione, il caffè perpetuo, e sente
subito di dovervelo raccommandare. Sì, certo: come in un’attivissima stazione
di strada ferrata arde sempre una macchina per i bisogni fortuiti, così nella
vostra sala sia sempre in effervescenza la macchina da caffè ad uso di chiunque
voglia di quando in quando andarne a spillare una tazzetta. A tavola ci avete
tanto tormentati perchè mangiassimo il triplo del bisogno: e ci avete obbligati
a bere tanto vino per far passare il vino, e che stenta terribilmente a passare
tutto insieme; più: siete capaci, anche qui in sala di conversazione, di
seccarci con altre bottiglie che inspirano nausea solamente a vederle: e poi
quando si tratta del caffè che ha veramente la missione di far passare, e che è
il migliore antidoto per i disordini dietetici, ce ne versate un meschinissimo
chiccherino che sembra fatto per abbeverare un uccelletto! non c’è il
sentimento delle proporzioni. A gran desinare, grande caffè; a vini senza
termine, caffè senza fine.
Oh, chi saprebbe mai dirmi le grandi obbligazioni che
l’umanità tiene verso il caffè! quante scoperte preziose, quante opere sublimi
dell’ingegno sono dovute alle veglie prodotte dall’araba semente! forse io
stesso riescii a compiere questo mio lavoro per virtù di quella bevanda: forse
molti de’ miei lettori aprendo il mio libro, appena andati a letto, se, in
cambio di addormentarsi alla prima pagina, impararono l’arte, lo devono al
caffè. Ma, a proposito di notti insonni, ci sarebbe a riflettere ben altro. Se
io possedessi la millesima parte del genio statistico di alcuni nostri grandi
filosofi, per esempio di un Adriano Balbi, vorrei studiare e sciogliere un
sommo problema. Verificare di quanti milioni d’anime (e di corpi) siasi
aumentata la popolazione del globo dall’epoca della difusione del caffè: e poi
calcolare, almeno in via approssimativa, quanta parte di tale aumento sia da
accreditarsi al caffè. Dopo le quali osservazioni non vi meraviglierete più se
le più potenti e incivilite nazioni che ammettono il principio della libertà,
almeno astrattamente, in casa propria, dopo molte ciarle chiamate protocolli
chiudano ancora un occhio tolerante su quel nefando mercato, ossia macello di
carne umana conosciuto sotto al nome di tratta dei negri. Capperi! sono
coloro che, per compensazione, ci mantengono il caffè, e per giunta anche lo
zucchero da raddolcirlo.
Mio caro Giorgio, ora che non resta più nulla a fare pei
piaceri della gola, vi sono però ancora diverse convenienze reciproche da
osservare. Noi convitati dobbiamo restar qui almeno almeno una buona mezz’ora,
tanto che non s’abbia a credere che siamo venuti solo per mangiare. Dopo, chi
avesse occupazioni d’urgenza, o fosse sovranamente annojato della compagnia (si
parla in genere, non che qui sia il caso), dice una parola gentile alla signora
di casa, e dà una stretta di mano a te, e cheto cheto scompare senza seccarsi
in complimenti con una comitiva verbosa e chiassosa. Ma siamo anche in diritto
di restar qui tutta sera: e a voi di casa incombono ancora tutti i doveri della
più vigile e cordiale ospitalità. Brevemente, noi non siamo più in vostra
balìa, ma voi continuate ad essere ai nostri commandi. Perciò non dubito che,
qualora gli amici non intendano di far sole ciarle in circolo al cammino, tu
sarai provisto dello scacchiere, del tarocco, e anche delle carte da tresette:
perchè, a cagion d’esempio, il signor Onofrio colla sua chimica da cavamacchie
e la scienza delle rivoluzioni atmosferiche, ha l’aria di saper giocare appena
la bazzica o il trentuno a un soldo la partita. Raccomanda poi alle tue donne
che, se necessitano loro alcune assenze, queste siano brevi e rare: che infine
non si mostrino seriamente occupate che di noi, per non renderci accorti che
faremmo loro una grazia particolare ad andar via. Capisco bene che in un dopo
pranzo di questa entità devono avere pensieri e cuore in cucina; dove ha da
essere una babele e uno sciupío da non dirsi, con tante stoviglie accatastate,
con quella portinaja e quel servitore del primo piano venuti ad ajutare e far
bottino: oltre a regalarli, faranno man bassa sui bocconi migliori: e che
svotamento di bottiglie! e quanta roba romperanno! Ma, dal più al meno, sono
accidenti inevitabili: e non calcolate la gloria d’una giornata campale? È una
bella cosa a non riportarne rotto anche il capo.
Quando poi ci risolveremo a levarvi l’incomodo, avverti,
Giorgio, di non aspettarti tanti ringraziamenti, se pure gli amici tuoi sono
gente di garbo; giacchè sono usi gretti e da sbandirsi. Difatti, perchè
ringraziare, e di che? Il mondo, sotto al nostro punto di vista, non può
dividersi che in due classi, quasi a simiglianza dei sessi: invitanti e
invitati: senza i secondi non ci potrebbero essere i primi: gli uni dunque sono
egualmente necessarii agli altri, come boja e condannato per una buona e
regolare impiccatura. Se avete scelto noi, è perchè ci credeste i più degni, o
perchè i più degni di noi non si degnano di voi. Insomma, non c’è obbligazione
residua da nessuna parte, e il conto è pareggiato. Tutt’al più, una parola
disinvolta, a mezza bocca, reciproca, e basta, basta! Le mille scuse per tanti
disturbi, e i mille ringraziamenti per tanti favori sono modi di una
abominevole rancidezza e volgarità. Così almeno la pensano quelli della più
numerosa fra le due classi: e io che le appartenni, trovo che pensano
benissimo: e le opinioni della maggioranza a giuoco lungo trionfano sempre. Un
giorno entro in casa d’un amico nel momento che si accomiatava da lui un tale
che, tutto rosso di vergogna, fingea schermirsi da un invito a pranzo: ma poi,
a istanze replicate, rispose «Dunque verrò a godere i di lei favori.» Appena fu
andato, io dimandai: «Chi è quell’asino lì? Come hai fatto a conoscerlo? alla
ciera? — Oibò per queste scoperte vale assai più l’udito che la vista; perchè
le fisonomie molte volte ingannano, ma è ben difficile che ingannino le parole,
quando si tratti di essere sciocco. L’ho giudicato a quella frasaccia umile e
ributtante di venire a godere i favori. Se fossi orbo, ti avrei
dimandato se era uno zoccolante.»
Ma in compenso dei ringraziamenti fuori d’uso sai cosa faranno
i tuoi commensali, almeno quelli che non sono abituali frequentatori della
casa? verranno a farti una visita nel corso della settimana: e questa è di prammatica,
e si chiama con termine tecnico la visita del chilo. Serve a dimostrare che si
ricordano dei buoni amici, e incidentemente può anche servire come anello di
concatenazione tra un invito e l’altro, dove l’invitare è frequente. E così di
pranzo in chilo e di chilo in pranzo, moltissimi raggiungono quelle periodicità
ebdomadarie o poco meno, che, distribuite sopra quattro o cinque case, salvano
un galantuomo dall’osteria o dall’ordinario di famiglia per una grassa metà
dell’anno. Il mondo in queste cosuccie non manca di una certa filosofia.
M’imagino che adesso i miei buoni lettori s’aspettino la
morale dell’opera: ma v’è bisogno di darla? non è sparsa abbastanza per ogni
pagina? se non ve ne siete avveduti, è segno che io sono un autore dei più
sublimi e difficili a capirsi: e quasi me ne persuado per le interpretazioni
incredibili alle quali vo soggetto. Comunque sia la cosa, mi proverò a
concentrare tanta dottrina in una succosissima quintessenza. I conviti stanno
fra le migliori costumanze del consorzio civile: sono un piacere innocente e
fatto per tutte le età: avviano e rassodano le amicizie; moltiplicano le
conoscenze simpatiche o vantaggiose: giovano a perfezionare l’educazione pel
contatto promiscuo e spontaneo della gentilezza, dell’ingegno, dei modi
squisiti; tendono a diminuire le disuguaglianze fittizie dei varii ceti,
avvicinandoli nell’allegro e cordiale soddisfacimento d’un commune bisogno: ciò
che difficilmente si ottiene col freddo e misurato conversare a bocca asciutta.
Se mi dimandaste dove si potrebbero scrivere senza impostura le parole libertà,
eguaglianza, fraternità, risponderei: sulle pareti d’una sala da pranzo. Il
mondo dà praticamente ai conviti il valore che non sanno attribuir loro i libri
sentimentali: giacchè gli avvenimenti ricordevoli di famiglia, i contratti
importanti, le lauree, le promozioni di carica, gli sponsali, tutto quanto v’ha
di felice o di creduto tale, si festeggia con un buon desinare.
Lessi, son già molti anni, la Corinna della
Stäel, che mi lasciò una gradevole reminiscenza perchè è un’opera riboccante di
fina estetica e di affetto soave e delicato, ciò che era da attendersi da una
donna tutto ingegno e cuore. Ma giunto alla fine, la mia critica principale fu
questa: Com’è possibile compiere un romanzo in quattro tomi senza mai mettere a
tavola i suoi personaggi, e senza una sola parola di cibo o di bevanda? È
un’omissione così ostinata e contro natura, che bisogna averla fatta a studio,
e forse superando gravi difficoltà. E per me che sono debolissimo nei criterii
di giudicare il bello, basta tale idea a mettermi in grande sospetto che questo
libro con tutto il suo merito mi offra fisonomie e pose e tinte piuttosto
artifiziose e convenzionali che vere. Se ci fosse natura, come farebbe a
dimenticare sempre l’ora del pranzo? Non v’è nè poema nè romanzo dall’Iliade
ai Promessi Sposi dove non si mangi e non si beva: e questa
sentimentalissima Corinna non ci diede mai nemmeno un sorbetto o un bicchiere
di limonata. Che il cuore di madama Stäel sia stato così grande da invadere
tutto il posto del ventricolo e ridurlo a zero? A ogni modo, doveva ammettere
quest’organo negli altri, e rispettarlo.... Ma, oimè! è questa la succosissima
quintessenza morale dell’opera? torniamo subito a casa.
Nel popolo i pranzi sono spesso guastati dal troppo.
Troppi cibi, troppi vini, troppa gente, troppe insistenze di cordialità. E
quando al troppo si contrappone un qualche poco, poco locale, poche
suppellettili, poche persone di servizio, poca previdenza, ecc., il convito
decorre impacciato, fecondo di molestie, con pericoli d’inconvenienti, e si è
sempre sull’orlo del ridicolo perchè tutto sente la straordinarietà e lo
sforzo. Gli eccessi impediscono poi l’onesto desiderio della reciprocanza: e
finiscono talora a render difficile l’accettare. Tizio e Sempronio sarebbero
pur beati di radunar qualche volta in casa propria mezza dozzina d’amici; ma
nol fanno per non poter mettersi al livello di chi li ha soffocati di
superfluità. Facciamo dunque i nostri pranzetti moderati, tranquilli, in
piccola e scelta brigata: chè il vero e supremo piacere di siffatte radunanze
sta nella buona e simpatica società: e in questo modo si potrebbe anche goderne
più frequentemente, giacchè i conviti grossi portano la natural conseguenza di
rendere più raro il convitare.
Tra i grandi signori, in quanto v’intervenga l’elemento
popolare, i pranzi possono esser guastati dall’etichetta. Non dico di tutti:
che anzi la maggior parte in questo ha odorato il secolo, e vi si è
identificata di buon grado ed è completamente gentile e alla mano. Ma v’è
ancora una casta di semidei (se pure non s’è cambiata nel decennio da che io
sono morto al mondo brillante), i quali aprono bensì le loro sale ad alcuni del
popolo, ma anche avendoli vicini sanno tenerli a rispettosa distanza, stabilita
a forza di piccole distinzioni gerarchiche, di modi aulici e diplomatici, e
perfino di gentilezze fatte in maniera da lasciar sottintendere il «ricordatevi
quanto noi siamo dappiù di voi». No, no: con persone di buon senso e di
carattere siffatte cose non vanno alla lunga: o dentro o fuori; o eguaglianza e
cordialità sincera e assoluta, dacchè vi piace onorarci, o affatto alla larga;
chè ci basta davvero quella diplomazia che non possiamo evitare. Che in
ricambio d’un pranzo elegante noi v’ajutiamo a gabbare la noja per alcune ore,
è un negozio equo: ma obligarci a fare esercizio d’umiltà cristiana, è troppa
usura.
Chi visse al cibo casalingo avvezzo,
Stimol non sente di sì bassa fame
Che paghi un illustrissimo tegame
Sì caro prezzo.
(Giusti)
Solamente il fastidio di doverci andare in abito o giubba e
guanti bianchi, come per festa da ballo, è un affar serio. Quella foggia di
vestire dovrebbe essere affatto abolita a luce di sole, e riservarsi per quella
delle candele. Noi gente alla buona, specialmente se siamo molto grassi,
facciamo pur la ridicola figura da scimiotti con quella marsinetta in
dosso: e anche quei guanti per chi non c’è avvezzo sono antipatici in grado
supremo: fanno andare intorno con le dita distese e allargate, e pare che minaccino
alle mani un colpo di apoplessia. Io vi confesso che nelle straordinarie e
fortunatamente rarissime circostanze che impongono i guanti mi sento un uomo
tutto occupato e imbarazzato delle mie mani: non ardisco neppure di metterle
nelle saccocce, secondo il mio solito, giacchè mi pare che i bei guanti sieno
fatti appunto per essere mostrati a tutti, almeno quelle poche volte che si può
farsi onore. La gente poi che ci vede per le strade in quella foggia inusitata
e di pieno giorno, indovina subito di che spedizione si tratta, e sogghigna.
Difatti, una delle due: o si va a portare il baldacchino in chiesa, o si va a
un pranzo eroico. Per la prima ipotesi, oltre all’essere caso raro, non vi
crederanno alla ciera, tanto più adesso che abbiamo quasi tutti i baffi;
giacchè ci vogliono fisonomie speciali, e perfino speciali barbe per
portabaldacchini. Dunque si fa capire a tutto il mondo che si va a rendere
omaggio a un cuoco famoso.
E qui finisco: per quante altre cose belle e buone rimanessero
a dirsi sull’argomento dei conviti (che, se non temessi di farmi lapidare,
sarei capace di proporvi un terzo volumetto di aggiunte importantissime), non
voglio più oltre abusare della sofferenza de’ miei cari lettori, e neppure
della mia. Giacchè, almeno al momento di separarci, Dio sa per fino a quando,
mi sarà permesso un atto di confidenza e sincerità, confessando che, se mai
siete annojati e stracchi di questa tiritera, lo sono moltissimo anch’io, e non
me la posso più vedere davanti agli occhi. Però, se tra uno sbadiglio e l’altro
foste anche riesciti qua e colà a ridere, appena un poco, col mio libro in
mano: e se, per colmo di mia fortuna, qualche consiglio vi fosse sembrato
adottabile per le vostre mense; vi prego a ricordarvi di me in occasione del
primo convito, e a indirizzarmi anche da lontano un brindisi breve, cordiale,
alla buona; non in poesia, per carità!
FINE
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