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Giovanni Rajberti L'arte di convitare IntraText CT - Lettura del testo |
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CAPITOLO SECONDO
Ma andiamo avanti che la matassa da svolgere è grossa. Ora dimando: quanta gente saremo, a tavola? — Dodici o tredici. — Ahi! spero bene che intendiate dire dodici o quattordici: perchè fra tutti i numeri dell’aritmetica il tredici è quel solo che vi consiglio di scrupolosamente evitare, almeno a pranzo. Moltissimi credono che il trovarsi a mensa in tredici (la cifra della morte!) sia di pessimo augurio, e che uno di quel funesto numero debba sicuramente morire dentro l’anno. Capperi! sarebbe un farci pagare troppo caro il pranzo mettendolo al prezzo di una condanna capitale. Nè occorre il ripetermi che queste sono superstizioni sciocche, riprovevoli, e perciò degne d’essere combattute a tutto potere. Siamo perfettamente d’accordo quanto al primo punto; ma intanto il fatto di questo pregiudizio sussiste, e l’enorme fatuità del medesimo non sarà mai argomento per inferirne che debba essere poco difuso. Quanto al secondo punto, siamo ancora d’accordo: sì; è bene dar mano attiva e costante a distruggere le superstizioni: ma nei libri, ma nelle conversazioni, ma dal pulpito, se volete: non mai a tavola, dove si ha lo scopo di far cosa grata a tutti; dove non s’hanno a distruggere che le vivande e le bottiglie e i pensieri melanconici. Stiamo dunque a vedere che oltre all’avervi fatto l’onore di accettare un pranzo, dovremo subire per forza e a tradimento una paurosa lezione di filosofia! E se poi uno dei tredici, cosa non improbabile, avesse proprio a morire nell’anno? Io vi dimando quanto persuadente ed efficace sarebbe riescita la vostra lezione. È bensì vero che la probabilità di morte cresce col crescere il numero dei commensali, e forse si raddoppierebbe se fossero, per esempio, ventisei: ma, tutto ben ponderato, ciò dovrebbe risultare dall’essere il ventisei niente altro che un tredici raddoppiato. Potrete fors’anco dirmi che i vostri invitati non hanno simili pregiudizii, perchè tutta gente dotta e di buon criterio. Eh, miei cari, più si vive, e più bisogna persuadersi che sull’albero della sapienza può benissimo innestarsi un ramoscello di pazzia, e che il più distinto buon senso lascia spesso desiderare un po’ di senso commune. Le piccole superstizioni degli spiriti forti fornirebbero materia d’un grosso e curioso volume: sono talvolta idee tradizionali di famiglia; o frutti di panzane udite fin dalla puerizia sotto alla cappa del camino; fantasie lungamente coltivate, abitudini insomma che non si avvertì mai di padroneggiare e che finiscono a padroneggiare affatto se non la ragione, almeno l’imaginazione, che è pur la bestia ombrosa, bisbetica, riottosa. Se ci troveremo a tavola in tredici, lo sapremo di certo, perchè è una specie d’istinto quello di numerare i compagni di mensa: e chi non vi pensasse, se lo sentirebbe a dire nell’orecchio dal vicino. Ora, la cosa potrebbe dispiacere più che mediocremente ad alcuni, anche a uno solo; via! nel secolo dei lumi mi limito a uno. E ciò basta perchè vi facciate un dovere di evitare quella cifra. Ma, e se, prestabilito il numero di dodici, sopragiugnesse all’ultimo momento un tredicesimo inaspettato? e se dei quattordici ne mancasse uno? — In simili frangenti fate giocare di comodino uno dei vostri figliuoletti, il quale debba pranzare o con voi o in cucina secondo le esigenze del caso. Una gentile signora che non aveva figli faceva servire di comodino un amico, l’amico del cuore. Trovando che per qualunque inaspettato accidente si riescisse al tredici, tentava il colpo di far pregare qualche vicino di casa, in via di grazia, anche solo per sedere ozioso a tavola, qualora avesse già pranzato. Se lo scopo andava fallito, ingiungeva all’amico di svignarsela con destrezza all’atto di porsi a mensa, e andare per quel giorno all’osteria. Nè si può pretendere meno dall’amico del cuore, in quest’epoca prosaica e poltrona che non lo obliga più a correre armato a battersi coi cavalieri erranti per provare che la sua dama è il più eletto fiore di bellezza e di virtù. E l’amico partiva, ma in questa intelligenza, che avrebbe gironzato a vista della casa almeno una mezz’ora: perchè se mai sopragiugneva un tardivo a rimettere la tredicina, egli risaliva in coda a rifare il quattordici. Passata la mezz’ora e, per colmo di precauzione, un altro quarto, se ne andava all’osteria, beato di aver reso a madama un sì importante servigio. Un altro aneddotino, e quindi passeremo oltre. Eravamo in casa d’un amico, lì lì all’istante di passare nella sala da pranzo. Uno degli invitati aveva l’aria preoccupata, e con occhiate rapide passava in rivista la comitiva. Rivoltosi al padrone di casa, dimandò «Non si aspetta nessun altro? — No, ci siamo tutti.» Si va a tavola, e.... l’amico è scomparso. Un servitore annunzia che «Il signor N. lascia mille doveri e mille scuse, ma per un affare urgente che aveva dimenticato, deve privarsi del piacere della compagnia.» La cosa ai più parve strana, e si cominciò ad almanaccare sulla causa. Chi opinava che si sarà sentito male: chi dimandava se mai si fosse tenuto qualche discorso che indirettamente avesse potuto offenderlo: un tale, celebre per le sue distrazioni, sosteneva nulla esservi di più facile e naturale quanto un impegno indeclinabile e stato dimenticato. Finalmente uno di quelli che se ne intendono, e che talvolta da una sola parola indovinano tutto un uomo (come Cuvier da un dente fossile argomentava tutta la struttura d’un tipo perduto di bestia), disse: «Il vero motivo credo averlo scoperto io: eravamo in tredici, e quando fu certo che non arrivava più nessuno a cambiare il numero, si è salvato colla fuga.» A questa rivelazione una signora sentimentale esclamò: «Poverino! si è sagrificato per tutti.» Il giorno susseguente trovo per via il disertore. «Oh, stimatissimo! quale sgraziata combinazione ci tolse jeri la fortuna di averla con noi? si temeva forte della di lei salute. — Caro Dottore, non ha avvertito che saremmo stati a tavola in tredici? — Oh diavolo! è vero pur troppo; e, ora che ci penso, la cosa era tanto più seria e di pessimo augurio perchè non ci mancava nè il medico nè il prete. — Bravo! è precisamente quello che pensava anch’io: la si figuri se io sono uomo da lasciarmi cogliere a questi lacci.» Dunque saremo a tavola in dodici, quattordici, sedici al più. Va bene: è un numero che non genera ancora confusione, che non rallenta troppo il servizio, che lascia partecipare tutta la comitiva a un tema interessante, senza impedire i parziali discorsi tra i vicini di posto. Rispettiamo pure i pranzi d’un capo di famiglia nelle primarie solennità, quando si raccolgono e figli e nuore e nipoti e cognati e cugini: genere sacro, patriarcale. Ammiriamo pure i pranzi luculleschi, meravigliosi per scienza di oltramontani cuochi, e per ricchezza d’argenti, di cristalleria, di porcellane, di livree: genere artistico, illustre, gran genere! Andiamo anche, secondo la tendenza del secolo, ai mostruosi pranzi di società, dai cento e più coperti, intesi a onorare qualche uomo celebre o potente; genere horrendum, informe, ingens; ma sono tutte cose ben diverse dai pranzetti cordiali e alla buona, di cui voglio ragionarvi. Specialmente nel terzo dei generi accennati si va tra gente che non si è veduta mai, a cui non si è presentati, di cui non s’impara nemmeno il nome. Là s’incontra muso a muso il più aborrito nemico senza guardarlo, e nessuno se n’accorge. Là è un aggregarsi a caso e un segregarsi ad arte in molti piccoli crocchi che fanno da sè perchè provano il bisogno della confidenza fra tanta soggezione. Moralmente parlando, non si è mai così in pochi come quando si è in troppi: a segno tale che una moltitudine sconosciuta ci richiama subito l’idea del nostro isolamento, e ci rende una penosa sensazione di vuoto: per esempio, quando si siede in una fitta platea al teatro, o, meglio ancora, quando si gira per una popolosa città, lontano dalla patria: nel qual ultimo caso, se s’incontra una persona appena conosciuta di vista, e che al proprio paese non si salutava nemmeno, le si fa una festa, una festa, come se fosse intrinseco amico fin dalla infanzia.
Io dunque intendo quì di parlare del pranzo senza pretensione e senza scopi, fuor di quello di stare allegri e godere una buona compagnia. Perciò debbono essere tutti elementi omogenei: amici fra loro la più parte, e chi non lo è ancora, degno di diventarlo alla prima seduta: insomma, tutti buoni diavoli e buone diavolesse. Ed ecco che bisogna non essere in molti, perchè di questa brava gente ce n’è poca, e perchè così diminuisce anche il grave pericolo che ci caschi in mezzo un muso antipatico o equivoco che dissipi ogni gioja e ci agghiacci le parole sulle labbra. Noi, vedete, siamo capaci di berne un bicchiere più del necessario, massime se ce lo darete buono; e verso la fine del pranzo uno diventerà poeta, un altro oratore sentimentale, un terzo filosofo: e Tizio scioglierà le più intricate questioni di economia publica, e Sempronio trincierà politica peggio che una gazzetta: perchè se il proverbio dice che nel vino c’è la verità, io soggiungo che nel vino ci stanno le scienze tutte, le quali altro non sono che la verità. Il più obeso indicherà i rimedii pronti e sicuri per isbandire il pauperismo e la fame dai grandi centri di popolazione: due amici abbracciandosi raccomanderanno caldamente alla Francia e all’Inghilterra di star ben unite fra loro: e un furbo ci spiegherà con aria di mistero come debba andar presto a finire la gran questione europea. Che più? nel calore della ciarla un buon impiegato scapperà fuori a dire, in via di parentesi, che il suo capo d’ufficio è un gran bestione, o fors’anche un solenne birbante. E questi e consimili parlari inconcludenti, la cui responsabilità è tutta della bottiglia, che nessuno più ricorda il giorno dopo, avrebbero ad essere raccolti da un imbecille maligno che se ne serva per metterci in ridicolo dietro le spalle? o, ciò che è peggio, anderebbero ad amplificarsi e aggravarsi in bocca d’un Giuda, procurandoci frutti di pentimento? Ma lasciamo questa ipotesi che è la più sinistra se non la più difficile ad avverarsi. Dico che ad un pranzo di onesti e cordiali amici l’intervento d’una sola persona che per qualsisia titolo non goda buon nome, è fatto bastante a intorbidare la serenità delle fronti, e a cambiare la giovialità in freddezza e riserbo: con che fallisce lo scopo massimo del convegno che si raduna per passare alcune ore fra le delizie della schietta e lieta convivenza. Perciò, prima e suprema cura dell’invitante deve essere quella della scelta. V’hanno eccellenti famiglie che contano fra gli amici qualche cattivo soggetto, e, ciò che è più singolare, conosciuto per tale communemente. O sia pochezza di criterio, o sia debolezza di carattere, o sia eccesso di buona fede, o sia il trovarsi eccentrici a quella porzione raffinata della società che sa, vede e giudica: fatto sta che questi casi non sono infrequenti: e non v’ha forse alcuno de’ miei lettori il quale non abbia più volte domandato a sè stesso: «Come mai i tali si lasciano venir per casa il tal altro?» Ma costui, appunto perchè non desiderato nelle buone famiglie, si tiene tanto più legato a quest’una, e c’entra sempre, e c’entra in tutto, e specialmente negl’inviti, e la sua presenza disturba, perchè è più indigeribile d’ogni più indigeribil vivanda. Ma anche questo riguardiamolo come fatto eccezionale. I vostri amici saranno tutti fiori di buona e brava gente; eppure quando date un pranzo, a fine che non riesca freddo e nojoso, bisogna saperli assortire; perchè, replico, il bello morale di una mensa amichevole è che tutti gli invitati armonizzino tra loro. Dilucidiamo il pensiero con alcuni esempii. Un pajo di vagheggini che hanno tutta l’anima negli amoretti, nei cavalli, nel tiro alla pistola, e un pajo di artisti che non possedono un palmo di terra, devono pur trovarsi male frammisti a sei o sette proprietarii o fittabili, che dalla minestra sino al caffè discorrano calorosamente di brughiere bonificate, di riparazioni alle cascine, del prezzo del frumento e del miglio, del fieno agostano e quartirolo, della carezza del letame a un tanto al quadretto, della polmonea delle vacche, del diavolo che li porti! Volete invitare alcune signore eleganti? preparate loro un corteggio che bene o male (ciò poco importa) sappia intrattenerle di teatri, di musica, di mode, di romanzi, di fiori, di balli, di sentimentalismo. Per carità, guardatevi dal gettarle in mezzo a un branco di vecchi funzionarii, polverosi di tabacco e di scienza burocratica, cui non si possa distogliere un minuto dai decreti del governo, dalle ordinanze delegatizie, dalla legge dell’anno tale derogata con sovrana patente dell’anno tal altro, dai diritti communali, dall’amministrazione de’ luoghi pii. Non capite che quelle povere donne condannate a simile supplizio, si augurerebbero di essere piuttosto nel loro letto coll’emicrania? Quel buon prete timido e scrupoloso avrete ben tempo d’invitarlo altre volte: ma lasciatelo tranquillo a casa sua quando avete in casa vostra una mano di giovinotti motteggiatori e un po’ larghi di bocca. La vostra tavola sarà onorata dal letterato A, e certamente è felice il pensiero di fargli tenere compagnia dal letterato B; ma bisogna esser certi che siano amici tra loro: perchè le lettere (le lettere educatrici e gentili) sono pur troppo un semenzajo di invidie, di superbie, di odii, di vendette: e potrebbe darsi che A e B si trovassero malissimo insieme o perchè l’uno nega all’altro perfino il titolo di uomo ragionevole, o per essere uno galantuomo e l’altro birbante, o anche per essere birbanti tutti e due, ma di specie diversa, come lupo e volpe. Avrete in animo di fare una grata sorpresa ai vostri commensali invitando due bellissime signore. Ahi, ahi! temo forte che ci saranno invidiuzze e rabbiette tanto più cocenti, quanto meglio dissimulate sotto al miele dei sorrisi. «Eppure, la tale e la tale si amano; quando si incontrano si abbracciano, e si dicono cento cose graziose.» Ragioni di più per credere che si detestino nell’intimo del cuore. Due bellezze sono due Potenze essenzialmente rivali, e voi sapete che l’entente cordiale non impedisce alle Potenze di cordialmente odiarsi. Volete tentarne la prova? allorchè una di loro in amichevole colloquio vi farà caricatamente l’elogio dell’altra, provate un poco ad eccepire con un però: la signora troverà il vostro però sensatissimo, e ne aggiungerà subito un altro: e così di però in però, di restrizione in restrizione, di sincerità in sincerità vi sentirete assorti nei misteri di una maldicenza frugatrice, raffinata, minuta, viperina, a tratti inaspettati e nuovi quali non sa colpirli che l’ingegno di donna invidiosa. Perfino a invitare insieme due canonici dello stesso capitolo si arrischierà di far cosa egregiamente malevisa ad entrambi, non già per far torto a loro che saranno i più buoni e pacifici canonici del mondo, ma perchè insomma è anche troppo quel vedersi in coro tutti i giorni dell’anno, e tutte le ore del giorno; e almeno quando si va a un buon pranzo si desidera trovarsi tra faccie che non sieno inevitabili. Su questo tema ho a dirvi ancora due paroline, in confidenza. Se mai, per ragioni igieniche o di altra natura, siete soliti in venerdì e sabbato a mangiare pesci di terra o pesci dell’aria, riservate gli altri cinque giorni della settimana per chi volesse proprio in quei due i pesci dell’acqua. Le credenze di un certo ordine bisogna seriamente rispettarle, perchè di stretta logica va loro annessa un’altissima importanza. Violentandole, si riduce una persona al bivio penoso o di rinegare per rispetti umani la propria coscienza, o di regalarvi la dolorosa scena di non pranzare. In qualunque dei modi la cosa è brutta. Mi direte che non si può indovinare come uno la pensi, e che il vostro onomastico va a cadere in giorno di magro, e che non si può a meno d’invitare i tali. Ebbene, tutto si accommoda col dare un pranzo misto, anfibio, ove trovino il fatto loro tanto il cervello del sistema pesce, quanto lo stomaco del sistema pollastro.
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