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Giovanni Rajberti
L'arte di convitare

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CAPITOLO QUINTO

 

 

Oh, finalmente siamo seduti a tavola. Cari amici, v’ho fatto venire la fame un po’ lunga, eh? ma si mangerà con tanto più di appetito. C’era un profluvio di temi a trattare; e poi il pranzar tardi è sempre, come vi ho già detto, una cosa di genere nobile, elevato. «Ehi, Giorgio? perchè non hai fatto portare i lumi? — Ci si vede ancora mediocremente. — Oibò, quel mediocremente! S’ha da vederci benissimo e moltissimo. Poco dopo la minestra saremo al bujo, e questa meschina e melanconica luce di crepuscolo sarebbe appena tolerabile se fossimo alle frutta; non mai quando si comincia. Mi è capitato varie volte di trovarmi via a pranzare, e non veder più cosa mangiassi: è una oppressione di cuore da diventare idrofobi dalla rabbia; e si pensa: — Come mai questi birboni sono così ottenebrati d’intelletto da non capire che la luce è la vita, e che perfino le bestie ne sono avide e ne gioiscono? — Quì non è ancora il caso; ma lo sarà prima d’un quarto d’ora. E poi, quell’entrare nella sala da pranzo e trovare addirittura una bella luce artificiale, è una delle poche gioje del tetro inverno. È un subitaneo e consolante distacco dalla neve, dalla nebbia, dalle nubi, da tutte le miserie del mondo esteriore: e rassomiglia alla felicità di quei beati che morendo volano subito in paradiso senza passare per le pene del purgatorio. Molti, per procurarsi questo piacere, ritardano espressamente l’ora della tavola; e alcuni, che non hanno tanta flemma, anticipano la sera chiudendo le imposte. E fanno benissimo; e li loda anche il Petrarca che scrisse per loro il famoso verso: Gente a cui si fa notte innanzi sera. Dunque, fiat lux! la più bella parola della bellissima creazione.»

 

«Eh, dico, Giorgio, che cosa contengono quei due gran piatti che girano uno a destra, l’altro a sinistra? — È un po’ di salato per aguzzare l’appetito. — Di fatti ora vedo: salame crudo, salame cotto, lingua affumicata, spalletta, prosciutto.... oh che fraganza, è una delizia! dopo poi verrà la frittura, e dopo il lesso, e dopo la minestra; dico bene? — Precisamente. — Ma bravo! se diventerò principe, ti prometto il posto di fattore in alcuno de’ miei possessi: perchè, non andare in collera, caro Giorgio, ma quest’ordine di pasto non è più permesso che nei villaggi, e tra quelle famiglie che mangiano in cucina. Sappi adunque che, per massima affatto elementare e vera regola d’abicì, il pranzo deve cominciare sempre e poi sempre dalla minestra: e il volerla servire dopo una o più vivande riesce per gl’intelligenti uno sconcio, come sarebbe a vedere una dama al passeggio non seguita ma preceduta dalle proprie livree. Nè occorre indagare se un precetto così assoluto s’appoggi a valide ragioni: si usa così. Perchè una tragedia deve avere cinque atti, nè più nè meno? la ragione principale, se non l’unica, sta in ciò, che tutti gli autori classici si attennero a quella cifra. E così ti dico che tutte le case classiche e che fanno testo (superba questa mortatella!) cominciano il pranzo dalla minestra, come s’incominciano le orazioni dal farsi il segno della croce: e chi fa in modo diverso è gente che mangia, ma non sa mangiare. Questo argomento, desunto dall’autorità, ti confesso che per me è di un gran peso, quando si tratta di signori a tavola: perchè è proprio là che sono grandi e superiori ad ogni critica: a segno tale che, accadendomi di vedere alle loro mense qualche usanza strana e inconcepibile, l’attribuisco umilmente alla pochezza del mio ingegno non abbastanza nudrito di forti studii su queste materie interessanti.»

Però, quando si volesse spingere l’indagine filosofica a rintracciar le cause intrinseche di questo uso, direi: che, accingendoci a un forte pasto dopo molte ore di digiuno, qualche cosa di leggiero e brodoso è indicatissimo per disporre lo stomaco e lubricare le prime vie: come è bene dar l’unto alle ruote d’una carrozza quando s’intraprende un viaggio. Soggiugnerei che i ragazzi mangiano volontieri le pietanze dopo la minestra, ma non vogliono più saperne di minestra quando le hanno fatto precedere alcuna pietanza: nel qual caso bisogna forzarli a furia di stolte fanfaluche: e che la pappa è quella che li fa diventar grandi, e che a non mangiarla verrà lo spazzacamino a portarli via nel sacco della fuliggine, ecc. ecc. Insomma, affamati gustano la minestra, e semisazii la detestano. Nota bene questa idea, giacchè è una rivelazione per noi, e una prova di ciò che ora voglio dire. Non crederai già che io citi i ragazzi, perchè mi prema assai di loro quando siamo a tavola; no. Ai fanciulli i ninnoli e i balocchi; l’arte di ben mangiare è per noi adulti che abbisogniamo di essere educati ai piaceri e di raffinare i gusti. L’esempio dei fanciulli è di gran valore, perchè agiscono secondo natura e istinto, e perciò riconfermano molte verità dalle quali ci lasciamo sviare per falsi raziocinii e abitudini strambe. A cagion d’esempio: l’infanzia, rifiutando qualunque vivanda durante il corso d’una malattia febrile, dà una bella lezione di medicina pratica a quei tanti che hanno paura di troppo indebolirsi col digiuno, e mangiano non per bisogno ma per progetto. Dunque la verità presente è: che la minestra, per quanto buona e appetibile a ventricolo vuoto, non solletica abbastanza uno stomaco occupato e un palato su cui già passarono più maschi sapori. È come l’esordio di una predica che, per quanto bello ed eloquente, ha una intonazione blanda, tranquilla; prenuncia le argomentazioni, ma non le sviluppa; dispone gli affetti, ma non li move per anco: perciò va bene in principio, ma riescirebbe freddo e fiacco porgendolo dopo la dialettica ardente e i periodi furiosi. Sì, la minestra è l’esordio del pranzo.

Su questo tema io sostenni a tavola le più trionfali polemiche: e non dimenticherò mai che un famoso basso-comico, forte dell’esperienza acquistata ne’ suoi viaggi, credette darmi il colpo di grazia asserendo che in varie capitali d’Europa, alle mense dei signori si servono più vivande prima della minestra. Ma io coll’ajuto della ragione pura ho fatto precipitare quella tremenda objezione, come il colosso dai piedi di creta. (Ah Giorgio, questo prosciutto è di una bontà irresistibile! ritornami quel piatto, chè voglio dirgli un’altra parolina). E gli risposi, che per noi l’argomento non valeva, perchè riferivasi a climi diversi, a diverse razze di uomini, fors’anche a diversi generi di minestra: che secondo il variare di queste circostanze variano anche i costumi dei popoli; che, per esempio, ogni nazione ha una politica propria, e una letteratura a sè, e un suo sistema di filosofia; e che per noi Italiani la nostra letteratura e la filosofia nostra, e perfino la nostra politica, stanno in ciò che.... che insomma a tavola per prima cosa si mangia la minestra.

Però ammetto la possibilità di qualche rara eccezione, motivata da cause straordinarie; e, per accennarne una sola, dirò che d’autunno in villeggiatura, quando si protrae il pranzo fino a sera, accade talvolta di ritornare un po’ tardi da una lunga trottata allora, colpiti da una fame fulminante, ci precipitiamo nella sala da pranzo senza esservi chiamati, e intanto che bolle la minestra si ordina che il cuoco mandi subito per carità qualche cosa o cruda o cotta, la prima che gli capita per le mani, altrimenti nasce pericolo di consumare tutta la provigione del pane prima di cominciare il pranzo. Ma, replico, sono strane eccezioni, casi di anarchia, poco meno che di assalto e di barricate.... (ve ne risovvenite, eh? poveri noi!) ed è appunto in tali circostanze che le ordinarie leggi non hanno più vigore.

«A proposito, che cosa ci dai oggi per minestra? — Se te lo dico, tremo d’una tua fierissima confutazione. — Via, parla; già dobbiamo saperlo a momenti: vedrò di usare indulgenza. — Ti do una minestra di risi, cavoli e fagiuoli, con un pochettino di sedano e carote, brodo superbo di manzo e cappone, una buona pestata di lardo, e quattro fettine di cotica di majale. — Ah Giorgio, mi hai toccato il cuore! senti: tu puoi fallare perchè manchi di una esperienza di genere distinto, ma in fondo hai ottime disposizioni, e io spero di farne un uomo. Ciò che tu mi descrivesti timidamente e in aspettazione di un rimprovero, è nientemeno che la galba per eccellenza del nostro buon popolo milanese, la minestra delle minestre, che noi perciò onoriamo col nome energico di minestrone, del quale beato chi può cibarne alla sera, così in piedi, una scodella fredda, se anche fosse reduce dalla mensa di Epulone: giacchè per certe vivande un posticino si trova sempre. E la si mangia dopo averla direi quasi vangata col cucchiajo che vi resta dentro confitto come la zappa in fertile terreno inumidito appena da un po’ di pioggia. Delizie ineffabili, riservate ai ventricoli omerici della gente alla buona, e sconosciute perfino ai monarchi: i quali d’altronde, colla corona in capo o lo scettro in mano, devono pur fare dei grandi sacrificii di gola, non potendo mai discendere a dare un’occhiatina in dispensa: oh, non vorrei essere un re! E ci vuol proprio il condimento speciale del lardo: e fo questo rimarco perchè molti aristocratici, e anche taluni plebei rifatti, per affettazione di gusto schizzinoso, inorridiscono al solo sentirne parlare: povera gente! Dillo tu, Giorgio, che hai tanto buon senso nella minestra, come si possa mangiar fagiuoli e cavoli senza lardo: e la nostra famosa verzata lombarda, consolazione e ristoro delle lunghe serate invernali, è possibile imaginarsela senza lardo? Sarebbe come figurarsi un marchese senza stemma, un usurajo senza crudeltà, un vescovo senza prebenda, che finirebbe ad essere un vescovo in partibus, cioè privo delle parti più essenziali, il vescovado e la mensa. Così la verzata senza lardo e senza cotica di majale. Le buone minestre io le divido in due grandi categorie: minestra nobile o del cuoco, minestra plebea o della serva. La prima più dottamente artificiale, confezionata con sughi delicati e leggieri, mi renderebbe l’idea di una bellezza sfumata, aerea, di una silfide d’Albione, dai capelli dorati, dalle pupille cerulee, dalla pelle alabastrina. La seconda, più naturale, composta di elementi primitivi e sinceri, è una bellezza meridionale, robusta, dalle tinte vermiglie, dalle forme tondeggianti, dagli occhioni neri che ti incendiano con uno sguardo. La minestra nobile (vedi sapienza pratica!) siccome suol precedere a un forte pasto, è una cosa leggiera leggiera, e si serve in poca quantità: perciò la dissi esordio d’una lunga predica. Ma la plebea è assai più sostanziosa e sapida, e se ne mette in tavola una grande marmitta, perchè suol essere per sè stessa base integrante del pranzo, e già ne contiene molte parti quasi in embrione, coi suoi molteplici elementi: talchè la chiamerò una brillante sinfonia d’opera buffa, che vi accenna e abbozza i principali motivi che avranno più ampio sviluppo nello spartito. Io ti confesso che in questo argomento sono democratico radicale: amo di quando in quando, a titolo di varietà, la minestra nobile, anche per giudicare l’abilità di un cuoco: ma il mio cuore piega alla plebea: è il sangue che parla. Dico però che una minestra plebea messa in capo a un pranzo aristocratico sarebbe un felicissimo innesto, la migliore fusione di opposti principii che il moderno incivilimento potesse mai ottenere.

 

Finalmente compajono i lumi: lode al cielo, perchè si cominciava proprio ad essere colpiti dal flagello delle tenebre. Spero d’ingannarmi.... no, no: è sego; numero sei candele di sego! e ciò nel secolo dell’olio purificato e delle magnifiche lucerne, del gaz, dell’idrogene liquido, della stearina, senza parlare della classica e sempre rispettabile cera! Giorgio, si fa da senno o si minchiona? Il sego fa stoppino e fa untume: bisogna che un servo ogni momento disturbi e sposti i commensali per ispingersi avanti a smoccolare. Spesso la smoccolatura casca sulla tovaglia; se estinta, l’insudicia; se accesa, l’abbrucia e manda fumo fetente. L’uso del lurido sego è appena permesso a chi ha bisogno di pranzar frequentemente in casa altrui: ma tu chiamato dalla fortuna ad aprir conviti in casa tua, oibò! è una ingratitudine alla providenza, ai progressi della fisica, della chimica, della mecanica: è un rinegare le scienze e le arti tutte con un solo atto di grettezza. Per carità, non commettere mai più sì grossi anacronismi, appena perdonabili a quei vecchi malcontenti che sono nemici sistematici d’ogni utile scoperta, e che a dispetto della strada ferrata viaggerebbero ancora da Milano a Como in una vetturaccia, arrestandosi un pajo d’ore, pel riposo dei ronzini, fra le delizie di Barlassina.

 

Tornando dunque al discorso di prima, dico (e attento bene, perchè io porto la fiaccola della sana critica sopra argomenti non ancora esplorati dalla filosofia), dico che quando mai fosse lecito dare la minestra dopo altre vivande, per primo piatto non sarebbe mai a dare il salame, come hai fatto tu. Non già, vedi, che io rifiuti il debito omaggio a siffatte carni, mainò! Stimo altamente il majale sopra la maggior parte delle bestie; perchè antepongo sempre la bontà alla bellezza e all’ingegno; e so benissimo che, sia qualità di pastura, sia influenza di clima, sia merito dei nostri bottegai, il majale trova in Italia, e specialmente nella parte settentrionale, la sua più degna e gloriosa morte, poichè n’esce fuori in commercio a deliziare i ghiotti palati sotto i famosi nomi di zampetti, di mortadelle, di codeghini, di salsiccie, di salsiccioni, ecc. Anzi, io tengo per fermo che quando Lamartine ebbe a scrivere che l’Italia è la terra dei morti, intendesse parlare di questo genere di cadaveri, e dettasse sotto l’influenza di un chilo di salame di fegato, onde gli cadde il più vero e sublime concetto delle sue poetiche meditazioni. Nè so capire come per questo egli sia stato perseguitato barbaramente con la penna, e perfino con la spada. Al contrario, sarebbe il caso di offerirgli un dono nazionale per impulso spontaneo delle città che più si pregiano di quei morti prelibati. Modena dovrebbe spedirgli un pajo de’ suoi zamponi; Bologna alcune mortadelle; qualche campione del suo salame crudo Verona; Milano due grossi salami cotti, di quei che si chiamano di testa, e che perciò sembrano più adattati ai Genii; e Monza qualche auna della sua salsiccia fina, per incoronare a più giri la fronte gloriosa del poeta delle armonie4).

Detto ciò per dimostrare in che sublime concetto debba tenersi ogni genere di salami, soggiungo che a motivo appunto della sua squisitezza il salato non deve essere servito pel primo, perchè c’è l’inconveniente di mangiarne troppo. Se si trattasse di darlo in poca dose, come si fa alle tavole signorili, dove non ci si fa sopra fondamento, la cosa logicamente potrebbe camminare, quantunque non si usi: ma in tanta quantità e varietà riesce una vera insidia. Si va a tavola muniti, come è naturale, di molta fame per far onore all’ospitalità, ond’è che ci avventiamo con un certo ardore sulla prima preda che ci si presenta: ma questa è singolarmente appetitosa, e quelle amabili gradazioni di rosso vivo, pallido, venato, screziato, e quelle molteplici fragranze reclamano tutte i loro diritti: bisogna assaggiare una fetta di questo, una di quello, una d’un terzo genere, una di un quarto; trovato quello che meglio solletica il proprio gusto, lo si sceglie, e si va già in seconda; molti vanno in terza, e anche peggio ad una tavola di confidenza, massime se si tarda alquanto a servire altre vivande: e così chi non porta intorno uno stomaco di commendevole capacità, s’accorge con dispiacere d’aver già consumato molto della facoltà mangiativa, di avere semi-desinato a pranzo appena iniziato; anzi, a rigore di termini, prima di cominciare il pranzo: perchè questo consta di piatti, e dai più si nega che il salato sia un piatto. E hanno ragione; mentrechè piatto o pietanza non può essere che una cosa preparata, comunque, in cucina. Diremo piatto un salato servito caldo, con verdura: ma non si potrà in buona coscienza chiamar tale una cosa fredda e sfettata che si compera come sta dal bottegajo nel ritornare dall’ufficio, e che si porta a casa in saccoccia. E ciò ti serva di regola, caro Giorgio: che se mai tu dicessi che a un dato pranzo ci furono sei piatti, e comprendessi il salato, la sarebbe una bugia, e non di quelle del genere giocoso, perchè detta sul serio, perchè non farebbe ridere nessuno, perchè in queste cose non vedo che si debba scherzare.

Occorrendo che alcuni amici ti caschino inaspettatamente sulle braccia da satollare, e che l’ora del pranzo sia imminente, e la cucina mal provvista, ed il modo di provederla impossibile, per esempio in campagna isolata; oh, allora ti consiglio d’ingozzarli ben bene in principio con una formidabile marmitta di riso in cagnone e una enorme portata di salato; affinchè questa grossa avanguardia supplisca alla sottigliezza dell’esercito: e così se non avranno pranzato bene (che non sarà tua colpa), almeno partiranno sfamati. Ma oggi che hai le casserole in orgasmo e che noi vogliamo riserbarci pei piatti della festa, questo metterci quì per un buon quarto d’ora a logorare le nostre facoltà con pane e salame, non ha senso commune: come si farà poi a rendere il debito onore al cuoco? Vedi un po’ quì: io ciarlando ho già fatto sparire due soldi di pane o tre, salvo il vero, e si comincia appena: è un tradimento! non dico per me, che non mi lascio atterrire per così poco, e quando mi accingo a questi viaggi non conto le miglia; ma bisogna farsi coscienza per coloro che sono deboli di garretti e dopo una corsetta allegra non sanno più proseguire.

Tu ora vorrai sapere quale sia il tempo più opportuno per servire il salato. Ti dico dunque che il salame rassomiglia un poco ai Greci che per Ausoniæ fines sine lege vagantur. Non c’è regola fissa: intanto non è del buon genere il darlo in principio, quantunque io sia pronto a chiudere un occhio su di ciò, semprechè lo si serva in poca quantità, e che subentri subito un’altra portata, insomma che non si lasci lì una rispettabile comitiva per tanto tempo a tapezzarsi le viscere di fette e fettine e fettaccie di majale freddo. Alcuni lo danno a metà circa del pranzo; altri l’abbandonano al caso, cioè al capriccio del primo che propone di servirsene, e perciò lo collocano tra i piattini di guarnizione (burro, acciughe, mostarda, peperoni, ecc.), il cui complesso chiamasi dai Francesi hors-d’œuvre, e che la barbara lingua degli osti giunse a tradurre in ordovo. Ma la sua più natural destinazione sarebbe quella di fare direi quasi l’ufficio che spetta nelle battaglie all’artiglieria volante: la quale corre a norma del bisogno sui punti più mal difesi. Dove il servizio langue per ritardo e si resti lì a guardarsi in viso in attenzione di qualche vivanda, allora per fuggire l’ozio detestabile si serva il salato. Ma per aprirti proprio su questo tema tutti i secreti del mio pensiero, voglio dirtene ancora un’altra e poi finisco. Senza punto derogare agli elogi da me fatti a questo cibo, mi sembra che in giorno d’invito si potrebbe dispensarsene affatto, perchè insomma è commune, triviale, e qualunque mascalzone può procacciarselo da un momento all’altro, e forse metà de’ tuoi commensali l’hanno già mangiato questa mattina a colazione. E questo mio parere che ti do con la massima riserva diventa poi un precetto indeclinabile, quando durante il pranzo ci sia qualche altro piatto di carni porcine. Giorgio, ritieni bene questa massima: a una tavola è permesso di servire ripetutamente il pollame, il vitello, la selvaggina, purchè sieno variamente manipolati: ma di majale, comunque siasi, basta una volta, per carità! perchè è un cibo pieno di pepe e di sale, unto, acre, indigesto, e tanto più sano quanto meno se ne mangia. E ti dico questo perchè nel buon popolo abbondano le famiglie così perdute di gusto culinario, che con una buona fede incredibile sono capaci di affidare i principali onori d’una mensa al truculento majale. Senti questa, e inorridisci, perchè è cosa da far venire l’indigestione e le afte in bocca solamente a narrarla. Saranno già quindici anni che io fui convitato con una mano d’amici in casa di un amico commune: e ciò fu la nostra salute perchè, avvezzi a dirci roma e toma sul viso, la rabbia dell’occorso non ci restò compressa sullo stomaco dalla dissimulazione. Si principiò il desinare col solito salame di tutti i colori e di tutte le spezie: pazienza. Dopo qualche piatto, capita in tavola un gran zampone con lenti: a quella vista fu un dimenarci sulle seggiole e un gridare per istinto simultaneo: «Ohe! ci dai ancora del porco?» E uno diceva che era una satira omeopatica appoggiata alle parole similia similibus curantur: un altro richiamò l’esempio della marchesana di Monferrato che servì al re di Francia un pranzo tutto composto di galline, come racconta quel lepidone superlativo di messer Giovanni Boccaccio: insomma ognuno disse la sua. L’amico padrone si scusava ridendo, ma faceva una certa cera da sornione che mi fece balenare alla mente un orrendo sospetto. Mi rivolgo al vicino, e gli dico sotto voce: «Sono pronto a scommettere che non è ancora finita, e v’è un’altra portata di majale. — Va via, matto, è impossibile. — Ti replico che ci sarà del majale ancora: me lo dice quell’aria da traditore tra il buffo e il serio, e più di tutto il cuore che, trattandosi di malanni, non falla mai. — Quando è così, denunziamolo alla brigata. — No, bestia, riserbiamoci almeno il divertimento della sorpresa, e del sentire un nuovo scoppio d’ira dopo calmata la prima.» Difatti da lì a poco viene l’arrosto; indovineresti? nientemeno che un gran piatto di tomaselle, le quali, come saprai, sono certe piccole otri di carne grassa di majale pesta con pignoli, ma di una natura così perfidamente salata e unta e oleosa, che a spremerne una sola si potrebbe accendere un lumicino per una settimana a S. Antonio del porcello, e resterebbe ancora tanto viscidume in mano da ugnere le ruote di una carrozza. A quella vista, e peggio a quel sapore acre e salso, fu un gridare, anzi un urlare da casa del diavolo: poco mancò che si venisse alle mani, e sarebbe stata indicatissima l’operazione di una battitura che servisse di esempio: ma eravamo dieci contro uno, e, a ogni modo, si stava mangiando in casa sua. Questo però non impedì che tavola stante, anzi in flagrante delitto, non si instituisse un processo con giudizio e sentenza, per la quale, dietro molti considerando, e specialmente ritenuto «che il misfatto del pranzo majalesco sia da attribuirsi piuttosto ad estrema imperizia nell’arte di convitare che a deliberata perversità d’intenzione, il consesso nella sua clemenza limita la condanna del reo alla multa dei sorbetti da mandarsi a prendere all’istante per guarire le gole dei convitati da quella scorticatura; con espressa clausola che, pena un tremendo articolo sulla gazzetta privilegiata, si guardasse bene in quella funesta monomania suina dal far portare per pezzi duri della sugna di porco in ghiaccio.»

 

 






p. -

4 Questo è un mero scherzo col quale non s’intende menomare la stima dovuta a un uomo di nobilissimo ingegno e di ottimo cuore.





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