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Giovanni Rajberti
L'arte di convitare

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  • PARTE SECONDA
    • CAPITOLO NONO
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CAPITOLO NONO

 

 

Giacchè s’è nominato per incidenza il vino, mi fermerò un istante a parlarne di proposito. V’ha della gente così dabbene e ingenua che non se ne occupa punto: e quando per un pranzo hanno pensato alle casseruole, credono di aver provveduto a tutto. Ma dico, di grazia, per chi ci avete voi scambiati? siamo noi persone materiali, capaci solamente di mangiare? noi vogliamo anche bere, e seriamente. Dunque, senza cerimonie, come si sta a vino in casa vostra? Notate che dico a vino e non a vini, e consolatevi: perchè vi tolgo addirittura lo sgomento di pretensioni indiscrete: mentre io pongo per massima che i vini sono un lusso dal quale si può anche dispensarvi affatto, quando che il vino è indeclinabile necessità. E per vino intendo quello nostrale, di botte, il così detto vino da tavola o pasteggiabile, che è fondamento e base del bere savio e ponderato e durevole, per quanti vini possano interporlarlo momentaneamente e in via di parentesi: come un fiume è quello che è, e prosegue imperturbato, dignitoso, col proprio nome il suo lungo corso per quanti rigagnoli o torrentelli vi mettano foce. Anzi soggiungo, che i vini sono di solito i peggiori nemici del vino: perchè col pretesto che vi sono tre bottiglie del celebre vino tale, e quattro del famoso tal’altro, alcuni si permettono nientemeno che di dar cattivo il vino vero, il vino-base, che appunto si chiama pasteggiabile perchè amico e compagno indivisibile del pasto; sul quale siamo inesorabili, perche è il più salubre e passante, perchè si può berne anche spensieratamente più dell’ordinario senza pericolo che dia alla testa, perchè estingue la sete senza uccider la fame, perchè s’addice all’abitudine, al gusto, al bisogno dell’immensa maggioranza della gente educata e dabbene. Mi ricordo che molte volte da mense altronde laute e copiosamente servite di vini esotici (Alicante, Madera, ecc., che non sono mai vini di fondamento), io partii con la rabbia di non aver bevuto nel vero e degno senso della parola, e quasi col terrore di una sete trascurata. Mi occorse perfino il caso che, trovandomi a una tavola numerosissima fra quattro o cinque amici soliti a capitarvi, ebbi ad esclamare: «Se costui seguita a darci questo infame d’un vino brusco, bisognerà risolverci a farlo chiamare alla Polizia.» Dal che nacque un sì sfrenato e scandaloso ridere, che il padrone, seduto al capo opposto della tavola, volle saperne la causa: e io fui costretto a improvvisare una stolida filastrocca che elevò quel ridere fino ai dolori di ventre, e al pericolo di soffocazione. Ancora oggidì, incontrando alcuno di quegli amici, mi dimandano quand’è che faremo chiamare alla Polizia quel tale. Ora però che con tanto sacrificio di oro e di sangue s’ha ottenuto il cambiamento di molte parole, si dovrebbe dire all’Ufficio dell’ordine publico, o di publica sicurezza.

Dunque, intendiamoci bene: per quanti vini scelti o sceltissimi teniate a servizio della tavola, abbiate sopra di tutti e prima di tutti il vino da tavola, che sia saporito, leggiero, trasparente, non nero carico, non azzurrognolo, per carità! (che sono vini grossi, dolciastri, indigesti), non aspro, non acido, che non abbia fiore, che non senta di muffa o di doga guasta: insomma, il legitimo e onesto e ben conservato vino nostrale, di cui la Lombardia, dal bene al meglio, abbonda quasi dappertutto. E non temete pei vostri invitati se detto vino costa poco: perchè su questo articolo il caro costo non è indizio di merito maggiore, ma della maggiore ricerca della plebaglia da bettole, che paga il duplo o il triplo i vinacci duri e pesanti; perchè infine, mettetevi bene nella testa che chi non sa gustare il vino da venti franchi la brenta è indegno di accostare le labbra a quello da venti franchi la bottiglia. E difatti, la gente dal palato ottuso che pratica i vini color d’inchiostro e si fa beffe dei leggieri e graziosi, non darebbe dieci soldi d’una bottiglia di Bordò, prima qualità. Notate poi bene che il vino da tavola deve essere in tavola tosto che comincia il pranzo, o anche prima, essendo assai più giusto che egli aspetti noi, anzichè noi attendiamo lui. V’hanno taluni così inesperti del mestiere, che sono capaci di lasciarvi a tavola un eterno quarto d’ora senza vino: e poi finalmente si vede alcuno della famiglia a porsi un qualche cosa tra le ginocchia, e con fuori tanto d’occhi e di lingua, tira, tira, tira, v’è riescito! e ci versa come fosse manna del cielo un vino da metter subito all’Indice. Oimè, farci attendere tanto tempo, e poi cominciare coi vini furbi e manipolati! Un commensale nuovo capisce addirittura lo stile della casa, e dice in cuor suo: «Per oggi sto fresco: ma non me la farete una seconda volta.» E poi, che volete? alle mense del buon popolo i vini suggellati inspirano d’ordinario una troppo giusta diffidenza, perchè i più non se ne intendono e sono troppo facili ad accontentarsi dei nomi: e in materia di vini, sotto a nomi celebri e venerabili, girano in commercio bevande così perverse e immorali che, a dirvi il mio debole sentimento, mi fanno assai più paura che il Socialismo. E non è solo a tavola che i galantuomini mal si prestano a sì fatti liquidi: ma quando occorre talvolta di fare una gitarella in campagna e d’arrivare in casa d’amici che recano da bere, «Sì, rispondiamo, ma via subito quei piccoli calici e quelle bottiglie con catrame, e dateci in cambio il vino fresco di botte, di quello che se ne vuota d’un fiato solo un bicchierotto, e cava la sete e consola lo stomaco.» E difatti, che razza di vini sono cotesti da sorbire nei ditali, e sui quali bisogna sbattere la bocca e fare una meditazione per definirli? Il più delle volte sono porcherie senza patria e senza nome. Trovandomi in una casa ove si servivano paste e vini, il padrone mi si accosta con un cierino di gran compiacenza, e dice: «Adesso, dottore, voglio farti provare un vino particolarissimo, che ho fatto proprio io colle mie mani.» Dopo averlo assaggiato, non ho potuto a meno di rispondergli: «Sarà che io non me ne intendo, ma bevo più volontieri quei vini che fanno gli altri coi piedi.» E tenete a mente che i vini troppo abbondanti di parte zuccherina o spiritosa sono nemici del pasto; e tenete a mente che la maggior parte dei vini che passano fra il popolo sotto il titolo generico di forestieri, oltre al non essere vini da tavola, quando anche fossero legittimi, sono il più delle volte perfide manipolazioni fatte quì tra le nostre mura lombarde; per esempio, certi decotti di liquirizia alcoolizzati che si battezzano per Malaga e per Cipro. Ma si! vedete là sulla credenza quella bottiglia che affetta la capacità di un boccale e arriva appena alla metà in virtù di un imbuto che dal fondo sale quasi fino al collo in forma di berrettone da pagliaccio: e v’è scritto sopra a stampa MALAGA VECCHIO. No, miei cari, quel vino non è vecchio, e non è stato a Malaga più di me: tutto è impostura in quella bottiglia e di dentro e di fuori; e solo a vederlo da lungi si capisce che ve l’ha regalata il droghiere a natale, e che è un vino fabricato nella sua cantina. Un’altra avvertenza importante. Chi non è ben certo della patria e del carattere e del merito delle proprie bottiglie non dovrebbe mai versarne una, se prima non sia stata provata e riconosciuta degna: senza di che si arrischia di far bevere agli ospiti dio sa che robaccia. Molti si accontentano di sapere che il vino suggellato è, senz’altro, il vino buono: tengono in cantina una quantità di bottiglie senza indicazione di età o di provenienza, miste là insieme come le anime del purgatorio: e quando danno un pranzo, ne levano alcune a casaccio, e le servono in tavola. Ah compendii d’ignoranza e di stoltezza! è questo il modo di tenere e di adoperare la vostra libreria? sapete voi se siano vini placidi o ardenti, e a qual momento del pranzo si debbano versare? sapete se siano acerbi di stagionatura, o passati? sapete se questa o quella bottiglia sia svaporata, o divenuta aceto? Non sanno nulla, i traditori. Sapete finalmente che qualche bottiglia potrebbe non esser vino, e contenere o del rhum, o una conserva, o una salsa? Sentite un aneddotino.

Un dopopranzo io passeggiava con un buon amico, che mi lodava a cielo un vino di Valle Polesella da lui fatto imbottigliare qualche tempo prima: l’aveva fatto assaggiare a molti, e tutti ne facevano le congratulazioni: infine concluse che si andasse subito a giudicarne. Un passo dopo l’altro, si va: scende egli stesso a prenderne una bottiglia, perchè in queste cose non bisogna fidarsi di nessuno; e nel versarne due bicchieri, mi dimanda: «Te n’intendi tu di vini? — Eh, così: quanto basta per distinguere a lume di naso l’ottimo dal pessimo. — Peccato che tu non sia un conoscitore di prima sfera: mi sapresti dire che vino bevi.» Intanto che io l’accosto alla bocca, egli col bicchiere in mano, e con un cierino di esultanza studiava i moti del mio volto, aspettando l’esplosione delle lodi. Ma, accorgendosi che la mia meraviglia era tutt’altro che ammirativa, e che stava per iscoppiare in una risata, mi prevenne: «Per carità, non farti compatire, chè saresti tu il primo a non trovarlo superbo. — Ma ti dico.... — non c’è niente da dire, nè da eccepire; e se lo critichi, ti farò canzonare da tutti. — Difatti è impossibile criticarlo, perchè questo non è mai stato vino.» A tali parole guardò finalmente il suo bicchiero e si mise a fiutare. Indovinate un poco! era nientemeno che caffè brulé.

Ancora due parole. Giunti che saremo all’arrosto nessuno pretenderà da voi lo sciampagna, che è vino di molto lusso e di troppo costo: anzi, se non siete ricchi, verrete santamente disapprovati a volerne servire un pasto d’amici, salvo il caso di festeggiare alcun fortunato avvenimento. Ma non crediate però di sostituirgli quella vuota fatuità dello sciampagnino, che è esso pure una vinessa bastarda, e che pare una spremitura di mele cotte, con entrovi un granello d’orzo per darle un terribil impeto di fermentazione. Difatti all’atto dello sturare, per quanti sforzi s’impieghino a frenarne la furia, scoppietta, sprizza, scappa via, bagna dappertutto, le donne strillano, i ragazzetti piangono di paura, e tutto questo scalpore finisce nello sporcare la bocca con un sorso di schiuma o di saponata dolce come un purgante di manna.

Quì mi cade in acconcio il soggiungere alcunchè sui due più usitati e famosi vini forestieri, lo sciampagna e il bordò. Il primo lo chiamerò principe dei vini buffi, perchè difatti è un vino a lazzi e a smorfie, un impostore che illude con una quantità che pare non finisca mai, dacchè va tutto in bollicine, e con una bottiglia si riempiono venti o venticinque di quei lunghi calici o cannocchiali fatti apposta per lui. Molta parte del suo merito, senza far torto al merito reale, consiste in quel colpo che fa il turacciolo sprigionandosi con violenza e salendo alla soffitta fra gli applausi dei commensali. Insomma, è il vino prediletto al bel sesso, il vino delle frutta, dei brindisi, delle felicitazioni. Viva dunque lo sciampagna!

Ma il bordò è il principe dei vini serii, e perchè? per essere saporito, leggiero, molle, passante, che è quanto dire pasteggiabile per eccellenza. Vedete un poco come i fatti convergano spontaneamente alla teoria e le servano di prova, quando è vera la base scientifica. Credo che alcuni grandi pensatori difunderebbero rapidamente le loro dottrine se avessero il supremo ingegno di renderle pasteggiabili con una esposizione limpida, facile, amena: ma per solito riescono così aspri e duri e indigesti, che il mondo se ne spaventa, e non può avvezzarsi al loro vino. Sì, il bordò è il re dei vini, o il vino dei re, perchè possiede tutte le miti virtù del vino da pasto.

Se non che, io tengo col bordò un vecchio rancore che sta nella convinzione del suo prezzo esagerato: la quale idea non è solo relativa alle deboli borse, ma è assoluta: essendo che anche un ricco sfondato nei milioni ha sempre diritto di godere proporzionalmente alla spesa: e non trovo che il bordò stia a livello del suo valore venale: perchè insomma si sente che è un vino dilicato, distinto, meritevole d’essere pagato il triplo o il quadruplo, se volete, d’un buon vino nostrale: ma venti, ma trenta volte tanto, no, assolutamente no. Il peggio poi si è che il bordò presenta una terribile antitesi in confronto allo sciampagna: che, mentre di questo con un pajo di bottiglie in fine di tavola fate schiamazzare d’allegria una numerosa comitiva, dell’altro bisognerebbe, a rigore di logica, servir tutto il pasto, e quindi darne almeno una bottiglia per testa, perchè appunto è un vino pasteggiabile e leggiero. Quindi è un errore il darlo a pranzo avanzato, e quando si sono già serviti vini più energici: perchè nella saggia economia del piacere si progredisce sempre a minori ad majus, e non si argomenta mai a majori ad minus: altrimenti diventereste, senza volerlo, uomini retrogradi, e veri codini, per usare una parola di moda. E che al pranzo debba applicarsi il grande assioma crescit eundo (ben inteso che la progressione non è già nel costo delle cose, ma nella efficacia delle sensazioni), lo si prova da ciò che si va gradatamente dalla blanda minestra fino al sapidissimo e aromatico arrosto. Si potrebbe invertire quest’ordine senza sconcio? sarebbe come studiare prima la retorica, e la grammatica dopo.

Soggiugnerò poi che il bordò ha molte gradazioni di merito, e perciò di prezzo; gradazioni che vogliono, a distinguerle, palati educatissimi: come abbisogna un occhio esperto di artista a discernere una tela originale da una buona copia. Perciò quì tra noi succede spesso, e ve lo dico di certa scienza, che si paga ora otto, ora dieci franchi la bottiglia, e anche dodici, e anche peggio, un bordò che il commercio giura essere di prima qualità, quando è delle inferiori, e vale sul luogo tre franchi e anche meno. Del che, oltre al pelarci così all’ingrosso, ci fanno anche le beffe giudicandoci gente degna di bere l’acquavite. E ci sta bene; e ne ho una consolazione infinita, come se quei denari li guadagnassi io.

Ma ciò che più indispettisce, è l’intima convinzione che tra noi si potrebbe con qualche studio e diligenza ottener vini da non temere il confronto di qualunque altro, per quanto celebre, del mondo. Che i signori inglesi o russi paghino carissimo il bordò, è regolare, perchè non hanno vini da loro, e devono passare sotto alle forche caudine di quei prezzi: e la mercanzia vale tutto il massimo che si può ricavarne. Ma è per noi che quel costo è assurdo: ma che i nostri ricchi tirino da lontano a dieci lire la bottiglia un vino che potrebbero emulare in casa propria con venti o trenta soldi, questo è lo sconcio che confina col sacrilegio. Figuriamoci se l’Italia, il più meraviglioso giardino dell’universo, ha da invidiare i vigneti della Gironda! Nè vale il dirmi che appunto abbisognano terreni magri per l’eccellenza di quel prodotto: perchè noi abbiamo e il magro e il grasso, e l’asciutto e il bagnato, e le costiere e le scogliere, e i poggi a scalinate e le colline, e i terreni vulcanici: tutto noi abbiamo in Italia, tutto.... fuorchè l’Italia. È proprio l’abbondanza che ci fa negligenti, come quei ragazzi che sapendo d’esser ricchi non vogliono seccarsi a studiare. Dove il suolo è fertilissimo, l’industria non si avvantaggia di tutte quelle arti onde si fanno forti gli abitatori di terre ingrate. L’estate scorso, in casa d’un mio coltissimo amico a qualche miglio da Monza ebbi occasione di esaurire tutte le frasi della meraviglia sopra un vino del 1834: eravamo nel 50; vedete che è una bella stagionatura. Era un vino rosso diventato quasi perfettamente bianco a forza di deporre tutta la parte colorante sul vetro. Avea simultaneamente una delicatezza e un vigore, una grazia e una fragranza da farmelo credere un vino venuto da dio sa dove. Ebbene, era di Busnago, un modesto villaggio che non fece mai parlare di sè nè per il vino nè per l’acqua, e che molti de’ miei lettori sente nominare per la prima volta. E come mai s’era ottenuto quel néttare? collo scegliere l’uva migliore, mondarla bene, e lasciarla alquanto appassire: più, con alcune diligenze, che non saprei ripetere, di travasamenti a tempi opportuni. Ora, dimando io, a parità di cure, quali miracoli si otterrebbero dal Montavecchia, per esempio, e dal Monterobbio? e da quei paradisi terrestri che si chiamano le rive del Lario, del Verbano, del Benaco? Ma i pregiudizii, il lusso e la vanità rendono indispensabile ai ricchi il bordò: bisogna che una livrea giri intorno alla tavola annunziando Sauterne! — Lafitte! — Chateau Margaux! E così l’Italia, classica madre dei più classici vini, in cambio di provederne l’Europa settentrionale e tirarne molti milioni, manda (orribile a dirsi) molti milioni all’estero per provedersi di vino. E non c’è da meravigliarsene: non siamo noi perpetui sprezzatori di casa nostra e delle nostre cose? Io conobbi un vecchio imbecille e mal foggiato, che stando a Milano si faceva mandare gli abiti da un sarto di Parigi, e li pagava il doppio. Imaginatevi come sarà stato leggiadro e seducente a settant’anni con indosso l’abitino del tailleur parigino. Roba d’avvisarne i sarti perchè lo facessero correre per le strade a buccie di melloni. E non sono casi molto rari.

In Lombardia non v’è quasi provincia che non vanti più qualità di ottimi vini, capaci coll’arte di diventare vini superbi. E l’amico Piemonte? chi non conosce almeno di fama l’Asti, il Ghemme, il Gattinara, il Rocca Grimalda, il Molera, ecc.? È vero che alcuni di questi sono un po’ pesanti e forti, perchè appunto si abbandonano quasi esclusivamente alla natura, e noi siamo ancora a quella di non saper fare il vino che coi piedi; ma se ci adoperassimo intorno anche la testa, e quel corredo di scienza enologica e di scrupolose e indefesse cure onde acquistarono celebrità i vini di Francia (come adesso si comincia a fare negli Stati Sardi), anche i vini italiani raggiungerebbero le tre grandi qualità di merito commerciale, pasteggiabilità, durabilità e navigabilità. E dove lascio i vini siciliani? e il Capri? e il Lacrima-cristi, il cui solo nome sublimemente poetico inspira venerazione? e i vini di Toscana, produttrice di tutte le cose buone come di tutte le cose belle?

Nel mio ritorno dal viaggio scientifico a Napoli, una mattina sbarcammo a Livorno: e si pensò tosto alla colazione perchè, ritenetelo, a ventre digiuno non v’è scienza che faccia buon pro. Quindi, unitici in tre amici dei più persuasi di questa massima, ci accingemmo, senza perdere un istante, alla scoperta di un’osteria. Entrati in un sito di apparenza soverchiamente modesta, talchè eravamo per retrocedere, ci colpì un soave odore, per lo che si ragionò: «Diogene, che era pure un gran savio, albergava in una botte di legno; e la sapienza non deve più essere troppo aristocratica. Oste! portateci del meglio che avete sui fornelli, è sopratutto che il vino sia buono, per carità!» Dopo qualche minuto ci pose sulla tavola una damigiana, vestita tutta di vimini, ma di una capacità così enorme pel caso nostro, che mi manca il coraggio di dirvi quante bottiglie a mio debole avviso contenesse. Fui tentato perfino di credere che volesse mettermi davanti la parodia della mia pancia. «Come diamine volete che vuotiamo tutto questo fiasco?» e l’oste: «Quello che non beveranno loro signori, resterà per me.» Va bene. Mi levo in piedi, e pigliando quell’affarone a due mani, comincio a versare, e poi tutti e tre a provare.... Il primo momento di una sensazione nuova, deliziosa, inaspettata non è definibile: si resta senza parole come nel dubio di una illusione e nel desiderio di ridurla a realtà. Ma passata appena quella istantanea confusione del giudizio, fummo tutti alle esclamazioni: «O io sono matto, o questo è un gran vino! — Ma sì che è buono davvero, e non attendibile in questa magra trattoria! — Altro che buono, miei cari, è un vino prodigioso, stupendo: e vi dico che questo vino mi fa capire, come se la vedessi, l’anatomia interna del corpo, perchè lo sento a penetrare e girare per tutte le pieghe degl’intestini.» Difatti era un vino di quelli che non si lasciano più dimenticare: placido, gentile, fragrante, vaporoso, con una leggier vena di amaro, quasi di melanconia, però di una serietà temperata di grazia come il volto d’una bellissima donna di sangue reale. E lì a versare e a provare di bel nuovo, e a voler indovinare che vino fosse. «Scommetterei che questo è il celebre vino di Chianti. — Oibò, sarà il famoso Montepulciano. — Eh via! questo non può essere altro che il gran Falerno, quel Falerno tanto decantato da Catullo e Orazio là in quei tempi eroici quando i poeti beveano così bene! — Zitti che vien l’oste, e se ascolta queste lodi ce lo farà pagare il doppio del suo prezzo; ehi, come si chiama questo vino? — Vino fiorentino. — Ah per Bacco, dovevamo argomentarlo in forza di analogia, e direi che siamo tre dotti da scarto, se non ne conoscessi moltissimi peggiori di noi: anzi, ritengo che io, io avrei colpito nel segno se aspettavamo a saperlo due minuti ancora: perchè, essendo le cose tutte di questo mondo regolate da leggi mirabili di corrispondenze e di armonia, era facile a capire che dove si parla la più bella lingua d’Italia, là si deve fare il vino migliore. Sì, questo vino non può essere che di Firenze.» E lì, tra un bocconcino e l’altro, a provarlo ancora viemeglio, e a sempre più persuaderci della sua provenienza, e a convalidare il bere coll’elogio e l’elogio col bere. Insomma a furia di attenerci al gran motto di Galileo: provando e riprovando, unico mezzo di riescire ai risultati concludenti e finali e meravigliosi, anche noi siamo riesciti a vedere il fondo del fiasco. Colla perseveranza si vincono pure le grandi difficoltà! Bisogna poi anche riflettere che noi eravamo tre scienziati, e perciò in diritto di bere come un doppio numero d’ignoranti e anche più, massime in via esperimentale. Nè crediate già che quel vino ci facesse male, oibò! l’oste saggio, con quel suo pratico colpo d’occhio, aveva conguagliato il fiasco alla ciera degli ospiti suoi, e presentata la giusta misura. Ora, è il vino cattivo che fa male, il buono fa sempre bene, quando se ne usa con la debita moderazione (di fatti noi non ne volemmo più altro), e quando chi beve è mens sana in corpore sano. In prova di che quel giorno siamo stati benissimo, divinamente. Vedute le migliori rarità di Livorno, s’andò per la strada ferrata a Pisa ad ammirare le rive dell’Arno, il Cimitero, il Duomo; fecimo risuonare la vôlta del Battistero con le nostre voci stentoree: nè si risparmiarono le osservazioni estetiche davanti alla Torre pendente. «Che ne dici di questa baracca così storta? — Eh, di quando in quando fa bell’effetto anche questo come a vedere un bel gobbo. — Non ti pare che faccia un gentile inchino a noi forestieri? — No, caro, perchè non si piega verso di noi: a me pare piuttosto che abbia bevuto lei sola tutto il nostro vino di questa mattina. — Vedi come si presenta bene il mare in lontananza! — E che cos’è quella montagna là nel mezzo? — È l’isola Capraja, o per lo meno la Gorgona. — Ah, ora capisco il Dante dove dice Movasi la Capraia e la Gorgona, ecc.: per gustare i classici bisogna proprio fare un viaggio scientifico da queste parti: quella montagna là sembra fatta a posta per venire quietamente una bella sera a stoppare la foce dell’Arno: e se il fiume è grosso, per ora della mattina i Pisani si risvegliano e si trovano belli e annegati. Vorrebbe essere una magnifica burla. — Bisogna però che fossero ben malvagi per meritare quella feroce imprecazione. — Oh, in quanto a questo erano il vituperio delle genti del bel paese che dice di sì. Figuratevi che avevano un arcivescovo che pareva un maestro e un donno. — Donno? forse per dire donnajolo? — Sicuro è appunto una licenza poetica per esprimere un uomo licenzioso; e quel prelato, in cambio di attendere a cantar messa e compieta in chiesa, andava a caccia di lupi e lupicini al monte. E poi sembra che quei di Pisa odiassero tutto il genere umano; tant’è ciò vero, che non potevano vedere nemmen Lucca, una città così buona, che fornisce i bambini di gesso a mezza Europa. — E io vi dirò che c’è ancora di peggio: dovevano essere un popolo sempre restìo e lento alla compassione, e che non faceva mai nulla di buono a tempo: e scommetterei che portarono una minestra al conte Ugolino quand’era già morto di fame: onde, per significare un soccorso tardo e inutile, si dice per proverbio il soccorso di Pisa. Ah sì, un poco di Capraja e di Gorgona sullo stomaco sarebbe proprio stato il caso per quei malandrini. — Però i posteri sono tutt’altra gente: fino i pitocchi che cercano l’elemosina parlano tutti in toscano che sembrano loro i scienziati e noi gl’idioti: è una meraviglia!» E così, con quel fiorentino in corpo, passammo la più bella e istruttiva giornata del nostro viaggio.

Concludiamo dunque che a una tavola imbandita, dopo aver seriamente proveduto al vino è ottima cosa servire anche i vini, massime verso la fine del pranzo, perchè motus in fine velocior; quando, infiacchita la facoltà del mangiare, le sopravanza più che mai intrepida quella del bere. Ah sì, una mensa gremita di bottiglie mi rende l’idea d’un gran parco d’artiglieria smontato e tolto al nemico, ed è glorioso il sederle intorno da vincitori. In quell’entusiasmo la ciarla si fa più libera e sciolta: l’eloquenza spiega le ali e raggiugne l’altezza della poesia: si sviluppano le tesi più incredibili di filosofia e di politica; gl’ignoranti sembrano dotti, i dotti si degnano di sembrare ignoranti: uno dice un assurdo, l’altro lo confuta con due: questi si sfiata a ragionare e nessuno gli abbada: quegli pare attentissimo ai discorsi e non sente nulla. Ora udite un egoista a diventar tutto sentimentale e umanitario: ora è un’ottima pasta d’uomo che robespierizza. La sala diventa una gabbia di matti, e ciò qualche volta va bene: semel in anno: e se vi par poco, aggiustiamola con una traduzione libera: di quando in quando. Il male è allorchè uno solo o due sembrano matti, che allora servono di scandalo o di trastullo agli altri: ma quando s’è tutti insieme in una cosa, allora c’è l’armonia: e alla fine dei conti è meglio parer qualche volta matti che seguitare tutta la vita a parer savii. Non dimenticherò mai una cena famosa fatta in carnevale del 1839 nello Studio di un nostro celebre pittore. Eravamo una grossa comitiva con molti nomi distinti in lettere o in arti. Con gente siffatta non si scherza, e il pasto fu squisito, e i più superbi vini di Europa comparvero a farsi giudicare da quell’areopago: quando, dopo tanti, fu annunziato un vino del Friuli del 1802. A sì remota fede di nascita fu una maraviglia e un applauso unanime, clamoroso: e un poetastro da vernacolo si sentì preso da tale accesso di tenerezza, da una così irresistibile commozione di cuore, che a stento ratteneva le lagrime ragionando di un vino così vecchio: e infine non potè a meno di levarsi in piedi e apostrofarlo a un di presso così: «Oh, riverisco divotamente il signor mille e ottocento due! Altro che nata mecum, consule Manlio, anphora! Tu sei nato tre anni prima di me, consule Napoleone Magno che valeva mille Manlii, e un milione di anfore o di fiaschi, che è poi lo stesso. Ma sai tu che, per essere un vino, sei di un’antichità così prodigiosa come le piramidi di Egitto, e il carnevale di Venezia, e le rovine di Persepoli, e l’incendio di Pentapoli? Vino dell’ottocentodue, che stai per morire carico di anni e di meriti come l’uomo giusto, senti bene cosa ti dico io: Quando penso all’epoca che andavo a scuola a far raccolta di pugni e schiaffi e bacchettate perchè mi infastidiva del verbo fastidio e non capiva mai i tradimenti del verbo capio capis, mi sembra che ci sieno passati sopra dei secoli: e tu, vino, eri là ad aspettarmi; anzi eri già un vino vecchione. Vo ancora indietro indietro con la memoria fino all’età infantile, quando mi mandavano vestito da donna, tempo che all’incerta e confusa reminiscenza si richiama come annebbiato e favoloso per enorme lontananza: e tu, vino di una longanimità infinita, eri là tranquillo ad aspettarmi. Che dico? mio padre era forse ancora filosoficamente nemico del matrimonio: mia madre non sapeva neppure che il mio cognome esistesse: e tu, Melchisedecco.... cioè Matusalemme dei vini, stavi là ad aspettar me: me, bestia ingrata, o almeno spensierata cui non passò mai nella fantasia ottusa la possibilità di tua esistenza. Oh non sarà più così nell’avvenire, te lo dico io, veh! Ti prometto, e guarda quanti uomini di talento e quante belle donne stanno quì ad ascoltarmi con la bocca aperta, che se io dovessi campare gli anni di Noè inventore del vino e dell’ubriachezza, non dimenticherò più questa sera e questo ottocento due. Ma, oimè, che giova, se nell’atto stesso di riconoscerti e idolatrarti per sempre, tu muori e sparisci dalla terra dove abitasti tanti anni inosservato e all’oscuro per mio beneficio? che vuoi farci? rassegnarti e lasciarti bevere: pur troppo è il solito che accade in hac lacrymarum valle: finchè si è vivi, oscurità, isolamento, e peggio ancora: la gratitudine del mondo reo è postuma quasi sempre.» Questa è una parte, e forse non la più matta, dell’improvviso di quel cervello balzano: ma come ripeterlo tutto dopo tanto tempo, e colla penna in mano, e colle fauci asciutte e con arido il cuore? bisognerebbe avere davanti agli occhi un ottocento due, e nel ventre molti altri millesimi posteriori.

 

 




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