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Giovanni Rajberti L'arte di convitare IntraText CT - Lettura del testo |
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CAPITOLO DECIMO
I vini fanno venire in mente i brindisi. Oh, la brutta e detestabile usanza che sono i brindisi! Tuttochè isolato dal mondo, e fuori di pericolo di doverne fare, mi sento ancora i brividi al solo pensarvi. Il pranzo, una delle migliori gioje della vita, hanno avuto il talento di guastarla proprio sul fine colla maledizione della poesia obligata: in cauda venenum; giacchè io quì per brindisi intendo i versi adulatorii che pur troppo è costume di leggere a tavola in certe ricorrenze. È propriamente il caso di dire che il diavolo ha voluto metterci la coda: tanto che in questo mondo una cosa tutta bella e perfetta non ci abbia da esser mai. La disgrazia però è di pochi, anzi limitata a quei pochissimi che scrivendo hanno la responsabilità delle proprie parole, e sono ridotti al mal partito di non lasciarsene scappare una che non sia confessabile in faccia al publico rispettabile. Per li altri tutti di solito è noja, e nulla più. Oh beati i pranzi diplomatici e politici (all’estero, s’intende bene), dove uno si leva a seriamente ciarlare in facile prosa, e gli altri seriamente attendono a bere e applaudire! dove si fanno tanti toast, e a tanti personaggi, che se si bevesse un sorso di vino a onor di ciascuno, i commensali dall’essere a tavola dovrebbero riescire tutti sotto alla tavola a russare per esaurimento di ammirazione. Beati anche i nostri desinari alla buona, dove il brindisi si risolve in un «mille anni di salute e prosperità al signor N. N. e a tutta questa bella comitiva!» e la comitiva: «Bene, bravo, evviva, evviva!» Il male, replico, è di quegli infelici che per dritto o per traverso hanno nome di poeti, e debito di mostrarsi tali per ogni minchioneria. Si accetta spensieratamente un invito: e subito dopo un tale viene a dirvi all’orecchio: «Bisogna poi ricordarsi che è l’onomastico della marchesina: quattro versetti faranno tanto piacere.» Oimè! è una stoccata al cuore come quando vi si cerca in prestito cento lire per pochi giorni da un caro amico che abbia ciera da voler tenerle per cento anni. Che cosa si ha da dire per la marchesina? che è tanto bella, che è nell’aprile della vita, che è il fremito di tutti i cuori.... sciocchezze tanto difficili a dirsi bene, che sarebbe assai meglio fingersi impedito, e non andare al pranzo. Ma se incomincio quest’anno, l’anno venturo saremo da capo: anzi m’inviteranno a posta: non me ne libero più. Questo è il terribile dei brindisi: la loro periodica ricorrenza! Bisognerà ripetere che è una bellezza tiranna, che è la palpitazione di tutti i cuori, e che è nell’aprile.... sempre aprile? sicuro passano gli anni, ma i mesi restano: e quando dobbiate cambiare, dite piuttosto marzo che maggio, per carità! Insomma, una volta entrati in questi impegni, siamo al dilemma: o romperla con una casa e non lasciarsi più vedere, o continuare per tutta la vita a scorgere i zefiri di primavera su di un volto che richiamerà piuttosto la brezzolina d’autunno. Un prete che faccia il panegirico di un santo, o l’ottavario dei morti, cambiando chiesa, ha la fortuna di poter sempre predicare le stesse parole ogni anno e que’ suoi scritti possono dirsi una piccola rendita perpetua, una Cartella del Monte. Ma il povero poetastro, condannato a recitar sempre le stesse lodi nella casa istessa, deve continuamente variare sopra un tema già monotono e nullo. E questo sforzo è una fatica da retore così arida, così dura, così difficile, che il buon senso publico dovrebbe rivoltarsene per compassione, e condannare i brindisi a perpetuo bando, con apposito e assoluto precetto di Galateo. Voglio citare un fatto che servirà di esempio salutare ai fabricatori di versi. Nel 1837 fui invitato pel giorno quattro novembre alla villeggiatura in Ceriano di don Carlo Villa, che vi facea celebrare una festajuola in un suo oratorio, seguita da pranzo. E fo tanto più volontieri menzione di quell’ottimo signore, perchè, oltre all’essere stato uno dei più benemeriti cittadini, per utile operosità e intelligente beneficenza, era anche un anfitrione di ottimo gusto, i cui conviti si distinguevano per armonica riunione di capi ameni, e quindi per un ridere che non finiva mai. Largo di cuore, come di fortuna, la di lui tavola era sempre aperta ai buoni amici: e anche coloro che si limitavano alla ricorrenza ebdomadaria, affrettavano quel giorno col desiderio, perchè si andava proprio a passare alcune ore nella più schietta ed esilarante allegria. Alla mattina del giorno di S. Carlo, intanto che aspettava l’ora di mettermi in viaggio, mi salta in mente l’idea di tirar giù qualche sestina da leggere a tavola, tanto per ajutare a far baccano. E lo feci proprio di mio capriccio, io, che a questi lacci, per quanto seccato e ristuccato, non mi lasciai cogliere in vita mia più di due o tre volte. Verso la fine del pranzo, che fu spaventevolmente numeroso, e servito a vini eroici (circostanze ottime per ammirare la poesia pessima), si fa alto silenzio, e mi metto a declamare. Volete sentirli quei poveri versi? se no, saltateli, che l’esempio cammina istessamente: e chi non li capisse, stia certo che non vale la pena di farseli spiegare. Per altro, è un peccato che dopo Carlo Porta tutta Italia non intenda il vernacolo di Meneghino. I dotti inglesi studiano l’italiano a posta per gustare il Dante: e i colti italiani non dovrebbero prender cognizione del più bonariamente malizioso e comico e bisbetico tra i loro dialetti? Dunque, ecco il brindisi tale e quale.
El dì de S. Carlo a Cerian
Quand pensi che ona volta al dì
d’incœu Anzi ghe rivi a dì che stamattina Per fortuna del ciel che a paramm via E siccome i mee coss usüalment A proposit, Don Carlo, ma l’è vera Mi, vedel, parli per el so vantagg, Ecco on vers proppi d’asen indecent: Ma vegnemm, che l’è vora, a la moral: Ch’el se regorda ch’el nost car Milan Ma sì! dov’hin i strecc e i
streccioritt E chì, per no seccall, tajaroo sù, Donca già ’l
sa ’l nost cœur coss’el ghe augura,
Il meno indulgente de’ miei lettori non potrà mai trovare questi versi tanto meschini, quanto stupendi parvero allora a una comitiva eccitata dai vapori dello sciampagna, e bisognosa di schiamazzare. Il successo fu immenso, strepitoso, frenetico. A ogni sestina, e spesso a ogni verso era un gran battimano, e una gran salva di bene! di bravo! di bis! e, se male non mi ricordo, credo che per rinforzare quel coro, urlassi bis e bravo anch’io. L’anno susseguente torna a capitare la festa di S. Carlo a Ceriano. Ora siamo al buono. Vi lascio imaginare se tra gl’invitati io ero il capo di lista. Credo che all’estremo caso di una piazza mancante, piuttosto che rinunciare a me, avrebbero mandato a spasso Don Carlo. Ma come si fa? ho da andare con un altro brindisi in saccoccia? e che altro si potrebbe dire? Avvisi sopra avvisi che mi guardassi bene dal mancare: e io a protestare che aveva troppi malati in cura, e non potevo. I birboni hanno capito il latino, e mi proibirono espressamente di far versi, e mi offrirono una carrozza a tutta mia disposizione per un’ora pomeridiana, per le due, purchè andassi. Ma la cosa era impossibile: perchè, ad onta delle proibizioni, in fine di tavola avrebbero aspettato una mia sorpresa: e io non voleva nè compromettere la gloria dell’altr’anno, nè restar là a mangiare e bere senza gloria. Oh, la gloria come costa caro! Insomma, mi sono finto ammalato, e non mi mossi da casa mia: e desinando in silenzio e frugalità, sospirava dietro alla crapula gioconda e romorosa di Don Carlo. E, per l’istessa ragione, non vi ritornai più a nessun anniversario posteriore. A Milano, sì, ma a Ceriano, no. E loro a burlarmi per non esserci andato in causa del brindisi; e io a negar sempre con faccia bronzina la verità evidente. Posso dirlo adesso, perchè c’è passato sopra tanto tempo, e Don Carlo è in paradiso da un pezzo, e dispersa quella bella compagnia: vicende umane! O raffazzonatori di brindisi annuali, non è questo un esempio salutare e una buona lezione? Quando penso ai poeti cesarei, costretti a comporre e disporre parole rimate per ogni onomastico di tante Altezze, e per ogni nascita di principino, e per ogni matrimonio di principessa, e per ogni ragnatela che si movesse a Corte, mi prende compassione del loro cervello. E non è gran male che il poeta cesareo sia un mestiero abolito come l’altro di buffone. Ma almeno dal buffone si toleravano utili e ardite verità: dal poeta non si soffrivano che stolte bugie. Perciò il buffone sparì dalle Corti qualche secolo prima del poeta. Quando i versi a tavola non si riducano alla monotona lode d’un padrone o d’una padrona di casa, ma piglino occasione o da avvenimenti lieti, o dalla presenza di alcun uomo illustre, allora possono anche assumere importanza di lavoro d’arte. L’avervi già condannati a sentire un mio brindisi, mi mette in tentazione di proseguire a farvene subire un altro, scritto con aria di pretensione maggiore, perchè s’indirizzava nientemeno che al maestro Rossini. In buona coscienza dovrei risparmiarvelo, perchè fu già stampato, salvo qualche strofa, perfino in una strenna; e per un componimento qualunque il finir sulle strenne è l’ultima fase di degradazione: è come il cavallo che va a finire di vecchiezza in mano de’ carrettieri. Siccome però quando fu scritto (1838) parve cosa d’un’audacia insolita, e mise in orgasmo le spie, e fece latrare i cagnotti; così abbiate la pazienza di rileggerlo adesso, e poi mi saprete dire per mia tranquillità se vi siano dentro i principii di un rivoluzionario furente.
Quand pensi in tra de mi chi vorrev
vess Perchè ’l so gener, asca al vess tant
bell Byron, Volta, Canova, Walter-Scott De già che hoo nominaa ’l gran Capp
de cà, Gh’è novitaa, gh’è fœugh, gh’è
frenesia, Da l’ingress trïonfal in di
cittaa8) Sfidi a trovamm situäzion del cœur, Ma chì parli del mond ver e patent: Mi però che a la longa tiri al buff Ma l’intrecc del Barbiere
almanch l’è bell; Chi ghe sarav de dì di gran bej coss; Ma siccome l’è on’arte inscì
vergnonna Con quest mi vorrev dì che la soa
gloria Diremm anca che quij che dà a la
stampa Ma sì! coss’el po avegh de pu de mi? In sti mee scarabocc, sur Cavalier, Che sta
povera Donna strapazzada,
Vi darò per ultimo (questi maledetti poetastri sono tutti così: ci vuole un soldo a farli incominciare, e poi ci vorrebbe un bastone a farli finire), vi darò per ultimo un frammento di brindisi per Messa nuova, che almeno ha il merito di essere inedito, e perciò può passar come nuovo esso pure.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Donca vegnemm a nun, Don Fruttüos, Ah, caro lù, quand pensi a la fortuna Ma sàl che anch mi podeva fa
altretant? Cosse no han faa quij pover Oblatitt Basta, lù sì ch’el farà ’l pret polit Lù mo, che per la grazia de là su . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Don Fruttüos,
sti vers no passaraven;
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p. - 6 Barlassina (per chi nol sapesse) è un villaggio a mezza strada fra Milano e Como: nelle sue vicinanze v’è il magnifico Seminario Arcivescovile di S. Pietro Martire, altre volte convento di Domenicani. Barlassina è volgarmente celebre per l’abbondanza degli asini, e pare che dovrebbe intendersi di quelli quadrupedi: giacchè i bipedi abbondano press’a poco egualmente dappertutto. Ma dove s’appoggi quella riputazione proverbiale, nol saprei: perchè davvero nessuno può dire esservi più asini colà che in qualunque altra terra della pianura lombarda. 7 Questo è uno scherzo che può correre a tavola: ma porge occasione di protestare con tutta l’energia (e l’impotenza) di un povero scrittore contro l’abuso di cambiare i nomi alle piazze e alle contrade; perchè tali nomi, oltre al richiamare spesso istituzioni antiche o patrie vicende, sono poi sempre abitudini di tutta la vita, e care e indelebili reminiscenze della prima età; quindi fanno, direi quasi, parte integrante della patria, la quale è un composto di molte cose e anche di molte parole. Mettiamo l’ipotesi strana che si volesse cambiare il nome di Milano in qualunque altro più bello e sonoro; ma qual è il Milanese, io dimando, che non rifuggirebbe con ribrezzo da tale idea? Ebbene, ciò che vale pel tutto, proporzionalmente valga per le parti. Volete onorare alti personaggi? dedicate loro monumenti nuovi, e non contrade vecchie, perchè insomma i nomi passano, e le contrade restano: e per la generazione adulta, il dover disavvezzare la lingua da vocaboli resi cari dall’uso, per assumerne de’ nuovi, è una cosa antipatica al massimo grado. 8 Otello. 9 Cenerentola. 10 Mosè. 11 Barbiere. 12 Gazza Ladra. 13 In dialetto basso la musica si chiama busecca, specialmente quella da chiesa. |
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