Arrivato
in maremma mio padre mi confidò due giumenti da soma e m'incaricò di
trasportare il legname in un dato sito, detto Macchia Peschi. Io allora appena
sapevo leggere. La sera andavo ad alloggiare in una capanna di mandriani. Mio
padre e mio fratello maggiore erano in altro luogo, distante circa nove miglia
da me, occupati al medesimo lavoro.
Un
giorno, era la mattina del 25 aprile 1848, cadeva una leggera pioggia e vi era
una nebbia così fitta che non si vedeva un uomo a dieci passi di distanza. Me
ne stavo assiso sotto un'elce aspettando che la nebbia si dissipasse per
caricare i miei giumenti e potermi dirigere sicuramente attraverso la macchia.
In questo stato mi misi a considerare le mie deluse speranze. Subito il mio
cuore provò sì gran dolore che cominciai a singhiozzare e un diluvio di lagrime
inondò il mio viso e amaramente compiangevo il mio infelice stato. Mentre mi
ero abbandonato al mio dolore, intesi uno strepito poco lontano venendo dalla
parte della macchia. Colpito dallo strepito, subito mi alzai: io temevo qualche
lupo, poichè mi avevano detto che in quel luogo vi erano. A traverso la nebbia
mi misi ad esaminare da qual parte della macchia venisse il rumore, e vidi
avanzarsi verso di me un religioso che conduceva a mano un muletto bianco. Lo
salutai ed egli gentilmente corrispose al saluto e cominciò a parlare in tal
guisa: «Il vostro incontro, o giovinetto, mi è piacevolissimo; oggi siamo fra
le tenebre». Poi mi domandò, se lì vicino eravi una strada che conduceva a
Montepò, dominio dei signori Saccardi di Siena. Io gli indicai un piccolo
sentiero, dicendogli che poteva sicuramente seguirlo senza pericoli di
perdersi. Questo religioso aveva una statura media: portava una tonaca grigia e
un cappuccio gli copriva la testa: la sua barba era nera e riccia come i
capelli.
Era di
color bruno e gli occhi erano sì vivi che gli davano l'aria di un gran
personaggio. Egli si mise a considerarmi dalla testa fino ai piedi, e vedendo
che mi riguardava in tal modo, rimasi immobile di stupore senza proferir
parola; io pensai che si era accorto delle lagrime da me versate, ed infatti
non si era ingannato. Dopo avermi bene osservato in silenzio, mi domandò che
cosa facevo da solo in quel deserto. Gli mostrai i miei giumenti da soma e gli
raccontai tutte le mie occupazioni giornaliere.
Egli
ascoltò con benevolenza la storta dei miei guai e mi disse: «Povero fanciullo,
sì giovane ancora e già sottoposto a lavori sì gravi! Voi mi fate pietà, ma
ditemi, avete voi pianto?» A queste parole il mio cuore si sentì commosso; non
potei rispondergli, mentre le lagrime cadevano dai miei occhi. Il frate vedendo
che non gli rispondevo, soggiunse: «Coraggio, mio figlio, non vi date in preda
a coteste afflizioni, vi compatisco. Dovete sapere che questo mondo è pieno di
dolori e di lagrime. Felici coloro che si rassegnano alla volontà di Dio». O
buon religioso, così mi diceva una volta un eccellente maestro che ho avuto la
disgrazia di lasciare. Egli allora mi pregò di raccontargli minutamente tutta
la mia vita: Egli mi ascoltò con molta attenzione dimostrandomi tenera
compassione. Egli rimase qualche tempo pensoso e muto: poi cavando da una tasca
del suo abito una medaglia usata di ottone con un nastro verde a tre cordoni,
me la fece baciare e me la mise al collo. Poi cominciò a raccontarmi quanto è
potente la devozione alla SS.ma Vergine Maria, dicendomi in fine: «Pregate
sempre con grande confidenza la madre di Dio e sappiatevi rassegnare alle pene
della vita. La santa Vergine vi aiuterà nel corso della vita e nell'ora della
morte. Siate fedele a santificare il sabato, giorno dedicato a Lei e più tardi
vedrete i felici effetti». Allora prendendo la mia destra mano, mi disse
ancora: «O giovane, mettete in pratica tutto ciò che vi ho detto. Se noi non
c'incontreremo più in questo deserto, ci ritroveremo altrove; addio. La vostra
vita è un mistero; un giorno lo saprete. Verrà un tempo che voi sarete
l'ammirazione dei grandi della terra. Non racconterete ad alcuna persona
vivente il nostro incontro, altrimenti non potreste vedere gli ammirabili
risultati. Di nuovo, addio». Sì dicendo mi strinse sì fortemente la mano, che
mi costrinse a mandare un grido. All'istesso istante mi lasciò, conducendo a
mano il suo muletto, prendendo la strada indicatagli. Mi disparve subito dagli
occhi fra la nebbia, e nulla più vidi.
Partito
il Frate, sentii i brividi in tutte le parti del corpo. Ciò era, io credo,
l'effetto della paura che ebbi, quando esso mi strinse sì fortemente che rimasi
tutto sbalordito e pieno di confusione. Dopo un quarto d'ora cessarono i
brividi, ma provai dei mali alla testa molto violenti e mi venne una febbre sì
forte, che mi fu impossibile di muovermi. Mi coricai al piede dell'albero
indicato e mi coprii con una cappotta che avevo. Ma di tempo in tempo fui
costretto ad alzarmi per bere dell'acqua onde smorzare la sete che mi dava la
febbre, e andavo presso un piccolo ruscello poco distante. Grazie a Dio, la febbre
calmò un poco, la nebbia si dissipò, ed io caricai i miei giumenti e andai alla
capanna dei mandriani e quì alloggiai.
Appena
quì giunto, una buona vecchia che ivi dimorava, vedendomi il viso pallido e
abbattuto, mi domandò cosa avevo. Risposi che mi sentivo poco bene, ma non
azzardai di dire ciò che mi era accaduto; e mi gettai sul letticciolo estenuato
dalla febbre che non era del tutto cessata.
Il
giorno appresso un'ora più tardi di sera sentii i medesimi brividi, poi il
calore alla testa e quindi una febbre più forte. La vecchia vedendomi in questo
stato, a mia insaputa, fece chiamare mio padre, il quale la mattina seguente
venne alla capanna. Vedendomi sì contraffatto per le febbri avute, molto si
afflisse e mi domandò la causa del male. Gli dissi come mi era ammalato, ma
tacqui su ciò che mi era avvenuto col frate.
Appena
che la febbre mi lasciò, mio padre mi condusse a Polveraia, un villaggio
distante 5 o 6 miglia
dalla mia capanna. Là mi riprese per la terza volta la febbre e fu l'ultima.
Era il 27 aprile. Dopo avermi raccomandato alla padrona dell'albergo e al
medico del Villaggio, mio padre mi lasciò: pochi giorni appresso ripresi il mio
lavoro che terminai il 24 giugno.
Ritornai
in montagna con mio padre e con mio fratello maggiore, ma mi ero talmente
dimagrito che mia madre e il mio buon maestro non mi riconoscevano più.
Nell'estate ebbi una lunga e seria malattia della quale non guarii che nella
seguente primavera. Appena fui guarito, mio padre mi condusse di nuovo a
lavorare in maremma e per più anni dovetti rassegnarmi a menare sì misera vita,
cosicchè abbandonai l'idea di farmi religioso.
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