II.
Retorica
nell'opera italiana.
Poichè se ogni arte è
condizionata nella libertà del suo contenuto, vi sono però artisti che nascono
e si sviluppano quasi al di sopra della mentalità comune, violentando, se
troppo angusti, i limiti della storia di cui sono figli, sebbene serbando
profondamente conficcate le radici in quella storia stessa. L'operista
italiano, invece, ha, quasi sempre, una mentalità del tutto immersa, anzi
sommersa, nel flutto della mediocrissima vita che lo circonda. Egli è così
un'anima semplice, di quella semplicità un poco artefatta delle anime popolari,
che non appena venga varcata da noi, ci desta un'antipatia irrimediabile. Certo
nell'arte non vi è progresso, ma vi è progresso nelle condizioni del suo
contenuto. Ponendo il caso d'un uomo che da fanciullo abbia vissuto tra il
popolo e abbia sentito com'esso sente, e che, dopo, esperienze diverse
portarono a conoscere una vita più alta, più ignuda di pregiudizi e di
debolezze, non ci meraviglierà che quest'uomo sorrida con commiserazione della
sua infanzia. Infatti non c'è cosa più erronea del credere che l'anima popolare
sia la più genuina che vi possa essere. La sua forza di sentire potrà essere,
ed è spesso, più violenta della nostra, ma l'esattezza delle impressioni, la
elevatezza del gusto, la chiarezza del pensiero, cresce in ragione che ci
innalziamo e ci allontaniamo dallo stato confuso e bolso della vita popolare3.
Ognuno di noi se proprio da fanciullo non sia stato figlio del popolo, può avere
sperimentato, conoscendo qualche parrucchiere o qualche tappezziere o
penetrando nell'intimità d'una famiglia del popolo, tutto il misto di
grottescamente falso e di ingenuamente vero, che contengono i sentimenti del
volgo e le loro estrinsecazioni. Ora sarà il baleno d'un concetto larghissimo,
che l'ingenuo buon senso sfiora riempiendoci di stupore; ora sarà la vana
ripetizione male a proposito d'un trito sofisma che ci urta e ci disgusta; ora
sarà una intuizione splendida, quattro o cinque parole, un'osservazione
psicologica, un'intonazione, un arabesco della voce d'uno che canta per i
campi, che ci infondono un vero e proprio brivido estetico; ora sarà la
deformazione di non so quale orribile verso d'uno dei tanti poetucoli italiani
retorici e mentitori, per lo più a scopo di volgari sottintesi carnali, che ci
farà voltare nauseati da un'altra parte.
L'arte popolare o di chi
anche a traverso studi relativamente superiori, si può pur sempre chiamar
popolo, presenta queste bellezze e questo grottesco, questa curiosa mistura di
pura semplicità e nitidezza nella visione ed espressione, e di tronfiezza
ridicola. Così assistendo, per es., ad un'opera di Giuseppe Verdi, è per noi
una continua oscillazione tra l'aere sereno della bellezza e il tanfo opprimente
della retorica Ma intendiamoci bene sul carattere specialissimo di questa
retorica. Essa è come una retorica iniziale, una retorica delle condizioni in
cui s'è formato il contenuto. Quando tutto l'ambiente storico in cui un artista
si sviluppa, commette un errore comune, è difficile che quell'artista, se non
provvisto di un punto d'appoggio per giudicare, di richiami critici per
verificare, possa eroicamente difendere il proprio contenuto da quella specie
di morbo universale. Onde avviene che si formano certi schemi di arte, in cui
la visione degli artisti vissuti nello stesso ambiente storico sembra avere un punctum
caecum sempre allo stesso posto. Per esempio, v'è nell'opera italiana un
luogo più comune delle così dette arie della pazzia, scena della maledizione,
scena del riconoscimento, scena d'amore, scena della morte?
Però, superata da noi la noia che c'infligge questa costante retorica di
situazioni, talvolta niente è più bello della melodia che il compositore trovò
per tale situazione trita e ritrita. Al modo stesso, nella musica religiosa di
Bach, la condizione del contenuto essendo convenzionalissima, le cantate del
maestro di Eisenach, eccettuati alcuni recitativi ed alcuni cori, consistevano
sempre in arie e in duetti in cui il vanerello amore agghindato e incipriato e
imparruccato dell'anima per il suo innamoratissimo padre, era espresso con
sempre nuova eleganza sincera dal compositore, che non sospettava affatto
quanto fosse indecoroso per l'anima e per Dio tenere quel contegno da Florindo
e Rosaura. In questo caso, come nel caso delle situazioni melodrammatiche
dell'opera italiana, noi non possiamo chiamare retorica la forma musicale
(talvolta bellissima se staccata dal contesto col quale ha relazioni che noi
non possiamo sopportare); ma retorica, le condizioni in cui è sorta tale
musica; la quale anche ai contemporanei parve bellissima e fu da quelli
medesimi ben distinta dalla musica veramente retorica, cioè la
vecchia intuizione, il vecchio motivo, la volgare modulazione ripetuta ormai a
sazietà.
E in che cosa, se non in
questa sincerità e convenzionalità aventi ineluttabili ragioni storiche, va
cercata la spiegazione di quel fatto che notava lo Hanslick, che nulla è più
cedevole al tempo e alla moda (cioè alle mutevoli condizioni del superficiale
sentimento popolare) delle forme della musica teatrale? I nostri nonni hanno
infatti pianto alle settecentesche smanie della Vestale colpevole di Spontini,
come i nostri bravi loggioni moderni palpitano e fremono all'eroismo da sartine
e da commessi viaggiatori della Bohème o si commuovono all'apoteosi da
giornale illustrato della mousmè Iris, cortigiana abortita per ignoranza. E,
parimente, i nostri padri vibrarono dinanzi alle victorughiane idealizzazioni
del buffone di corte Rigoletto, come i loro rispettivi bisnonni erano andati in
solluchero alle graziette lascive e seducenti della Serva che non contenta del
possesso carnale d'un vecchio padrone di provincia, ne vuol sancito il dominio
con un bel matrimonio. Come si vede il fenomeno è vecchio e a forza di nonni e
di bisnonni si potrebbe senza fatica risalire, seguendone le traccie, a Plauto
e chissà quanto più su.
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