III.
Ciò che
simboleggia Pietro Mascagni nell'opera moderna italiana.
Pietro Mascagni, ho
detto, è un discendente in linea retta degli operisti italiani. Al pari di
loro, egli non mira che a destare i tumultuosi fremiti salienti dalle platee,
ruinanti come uragano dai loggioni, con delle scene che afferrino l'attenzione
del pubblico alla prima audizione, con dei finali coronati di quelle folgori
degli ottoni, senza delle quali il volgo non crede all'esistenza del miracolo.
Nelle sue opere scorrono, ondeggiano dal principio alla fine, fiumane di
melodia che inebriano le anime di ebbrezze facili e passeggere. Un motivo di
Beethoven o di Wagner difficilmente diventerà possesso comune, il contenuto di
cui è riempito essendo soltanto parzialmente accessibile al pubblico, il quale
non ama le conquiste faticose. La profondità e la fedeltà dell'amore non son
molto comuni tra le persone volgari e le opere dei classici (ossia dei grandi)
non trovano nel popolo la pazienza vigile che esigono per esser comprese, la
qual pazienza di comprensione è già essa quasi una genialità, educata a lungo e
sviluppata con rigore di cultura.
Il canto in Mascagni è sottolineato
da un'orchestrazione, a cui la ricchezza coloristica dei timbri non toglie un
carattere di semplicità affatto contrario alla complessità tematica delle
grandi creazioni sinfoniche. Per i nostri vecchi le opere di Pietro Mascagni
possono significare ai loro cuori e cervelli conclusi nel loro ormai giovanile
passato, un intedescamento della musica. Ma questa è un'illusione. È vero bensì
che anche l'opera mascagnana ha risentito del decadimento del bel canto, e del
sopravvento su questo dell'orchestra a commentatrice del dramma. Ma, nella
realtà, la melodia, sia pur trasmigrata dalle fresche gole umane nei numerosi
strumenti dell'orchestra, è rimasta la vecchia melodia italiana dalle forme
regolari, dai blandi ritornelli, dalla serena cadenza finale coronata da una
nota tenuta per far piacere alla voce dei cantanti e all'orecchio del pubblico,
che ama i cantanti un po' simili a lottatori di molta resistenza. E gli
intermezzi mascagnani, i preludi, e i famosi commenti orchestrali alla
fine o d'un'aria o di un duetto (commenti che sono poi stati imitati da tutti i
mediocri compositori moderni italiani, compresovi uno non mediocre, Lorenzo
Perosi), che altro sono se non sempre, melodia, vecchia melodia italiana,
meglio vestita, più sonoramente versata negli orecchi degli uditori, più
argutamente organizzata? E non se ne sentono infatti intuonar gli echi per le
strade insieme coi motivi più amati di Rossini, di Bellini, di Donizzetti, di
Verdi? Oh! non temano i nostri vecchi! non sarà Mascagni che intedescherà
l'opera italiana! Egli ha ereditato una delle nature più italiane (nel senso
popolare) che ci sieno mai state. Se i vecchi non lo capiscono, è che alla
retorica dei cori di guerrieri medioevali, di sacerdoti romani, di schiave
orientali, etc., etc., è succeduta una retorica più nuova, la retorica delle
lavandaie giapponesi, dei ladroni scozzesi, dei contadini alpigiani, e più di
tutto, la ormai non più recente retorica dell'enfasi strumentale «che
dall'orchestra prorompe». Tutte cose che se non son consentanee ai gusti dei
fedeli del Prati, di Victor Hugo e del Guerrazzi, non vogliono precisamente
dire che Pietro Mascagni non appaia nella sostanza italiano quanto Verdi agli
italiani d'oggidì.
Certo profondamente
diversa è la sua personalità da quelle dei maestri italiani della vecchia
scuola. Al periodo epico del risorgimento di cui fu interprete fedele il
romantico Verdi, è successo un periodo in cui l'Italia sembra ritornata per un
lato quasi ai tempi di Rossini, per un altro ha acquistato una qualità dolorosa,
che allora non aveva, un dolore cioè di passione che fa soffrire, un
rifiorimento più agitato della malinconia erotica dei Paisiello e dei
Pergolese. E Mascagni è il cantore delle sensazioni fresche, della carne
giovanile, della cieca salute, del riso gaio della folla nei giorni di festa, e
del dolore della carne tradita per un'altra carne. Certo a lungo andare questo
trionfo di carne, di riso, di allegria, di dolore che non piange che per amore,
per amore, per amore, è monocorde, è monotono, e stanca. Ma quali melodie sane
non spicciano fuori da questa vena limpidissima! Che orgia di canto! che
gaiezza rimbalzante di suoni, nitidi, tinnuli, sgargianti come i colori che si
vedono in una fiera! Certo, e in un senso è bene, si può essere ostili all'autore
della Monferrina dell'Amica. Ma anche i più ostili, coloro che
più si sono allontanati da questa arte così angusta d'orizzonte, per essere
stati bruciati da ben altri spiriti, profondi come abissi solcanti fino alle
viscere l'umana natura, non possono fare a meno di ridere a scrosci, di urlar
di gioia e di dolore bestiale con questo mago che al posto del cuore ci ha un
nido, donde balzano alate le più fresche canzoni d'un popolo.
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