L'OPERA DI
PIETRO MASCAGNI.
I.
Cavalleria
rusticana.
Cavalleria rusticana, il bel dramma musicale
in un atto, che il Mascagni scrisse tra i 25 e i 27 anni, e che fu la sua prima
opera rappresentata in pubblico, è forse, per ora, l'opera più completa che ci
abbia dato il compositore livornese. Non che nelle opere posteriori egli, come
molti pensano, non abbia più dato alla nostra musica dei brani di bellezza
paragonabile a questa freschissima Cavalleria. Però, oltre al fatto che
il maestro, dopo quest'opera curata in tutte le sue parti, ha pur egli ripreso
il vecchio andazzo dagli operisti italiani di abborracciar spartiti ammassando
alla rinfusa bellezze e sciatterie, lampi di genio e volgarità inaudite; a
impedire al Mascagni di ridarci un'altra opera interamente bella - se dalla
condanna si eccettui in parte l'ispiratissima Iris - sta l'altro fatto
che egli non ha saputo svolgere in sè alcun germe fecondo di coltura. La qual
cosa gli ha fatto accettare, come musicabili, libretti o difettosi o affatto
incompatibili con la sua natura musicale. Giacchè coltura non vuol dire aver
letto, sia pure con accesa passione, altissimi scrittori, come, ad es. aveva
fatto indubbiamente Giuseppe Verdi. Che quest'ultimo non avesse capito
Shakespeare - che pare egli avesse letto assai estesamente - ce lo dicono
quelle cattive riduzioni melodrammatiche vittorughiane dei due capilavori
shakespeariani: il Macbeth e l'Otello. Del quale Otello,
musicalmente non solo superiore al Macbeth, ma a quasi tutta l'opera
verdiana, il Boito e il Verdi compierono una vera e propria traduzione
ad uso dei vanagloriosi cantanti del barocco teatro melodrammatico; sicchè il
disgraziato eroe orientale, nel testo inglese gentiluomo nobilissimo qual
s'addiceva essere a un figlio della razza più squisitamente signorile che
esista, la razza moresca, diventa nell'opera verdiana un villano tenore che non
sa esprimere la propria ira che urlando come un ossesso. Non parlo poi di
quello che diventa Iago, la creatura ambigua tortuosa oscura dell'immenso poeta
del cinquecento.
Ora, a dire il vero, io
non so la quantità e la qualità delle letture con le quali è supponibile abbia
adornato il proprio spirito il nostro Mascagni. So però con certezza che se
esiste, la sua coltura è ben lontana dal raggiungere quel grado di ricchezza,
armonia, solidità e signorilità, che permetteva al Wagner di emulare in questo i
più grandi poeti e di permettersi il lusso di ricreare con tanto sapore storico
e con tanta precisione di particolari scenici poetici e musicali l'ambiente
della barocca e gentile Norimberga della metà del cinquecento. Se un nostro
compositore tentasse di risuscitare, p. es., la Firenze del 400 o la Roma del 600 o la Venezia del 700, chissà a
quali orribili gare di cattivo gusto e d'incredibile ignoranza ci toccherebbe
ad assistere!
Comunque, il caso offrì
al Mascagni un ottimo libretto nella Cavalleria Rusticana dei sigg.
Targioni Tozzetti e Menasci, breve poema drammatico tolto dalla omonima
notissima novella di Giovanni Verga. Io non pretendo dire che l'aggiunta del
fallo di Santa (Santuzza nel libretto) col fidanzato Turiddu e la
trasformazione dei «vicini» in un coro assai melodrammaticamente risibile,
abbiano abbellito la primitiva concezione del Verga. Questo nostro grande
novelliere-poeta, non accennando ad alcun fallo di Santuzza accresce, a parer
mio, la naturalezza del suo racconto, naturalezza così impreveduta nella nostra
quasi sempre inverosimile novellistica, per altre ragioni che la possibilità
dell'azione, pregevole. Certo però, questo fallo di Santuzza se sciupa un po'
la semplicità della concezione drammatica, porse al Mascagni, acuendo la ferocia
dell'azione fulminea, una ragione di più per impiegare le tinte più calde dello
sua violenta tavolozza musicale. È vero altresì che rimproverare ai librettisti
di aver falsata la concezione verghiana, è dimenticarsi che la Cavalleria di
Mascagni non ha ormai più alcun legame estetico con la Cavalleria del
Verga, trattandosi di due intuizioni diverse.
Il Mascagni trovò dunque
nel disegno offertogli dai due librettisti, tutti gli stimoli necessari per
esplicare la sua personalità. Difficilmente nella storia delle arti troviamo un
fatto simile. Il Mascagni delle opere successive non ha aggiunto nulla di
veramente nuovo al mondo espresso nella Cavalleria, se se ne eccettua il
rinnovamento puramente tecnico dell'Iris, che può essere anche una presa
di possesso più chiara e più audace della propria personalità. E non perchè
egli dopo non si sia più svolto, come troppo leggermente si dice; sibbene
perchè una fortunatissima concordanza di fattori storici ed estetici condussero
il Mascagni a raggiungere nella Cavalleria, che è come una prefazione
fremente di entusiasmo e di fede a tutta l'opera futura, l'intera sua capacità.
Chè se egli in essa si fosse esaurito, com'è opinione di molti, non avrebbe
potuto empire le opere posteriori di bellezze che, se per una parte riescono
vane, non essendo nate a formare un organismo compatto, per un'altra attestano
che la fantasia di quest'uomo non s'è spenta, ma aspetta solo di non essere
contrariata da soggetti che le sono alieni e indifferenti per espandersi
nell'armonia d'un capolavoro.
Analizziamo dunque
questa bella e fresca prefazione.
La Cavalleria, a differenza delle
opere successive del Mascagni nelle quali viene usato, almeno nell'intenzione,
un sistema analogo a quello wagneriano della melodia continua; - dico
analogo, giacchè, se il discorso musicale del Mascagni è, come dicono oggi,
continuo, la sua concezione è per sua intima natura, opposta alla volubile
fluenza del polifonismo wagneriano - è divisa in tanti pezzi staccati secondo
l'antico sistema prewagneriano. E questo sistema dei pezzi formanti un tutto da
loro stessi, è un vero peccato sia poi stato abbandonato dal Mascagni. Il genio
latino, generalmente, non ha potente in sè, come il tedesco, il senso dello
svolgimento ininterrotto della Storia, del divenire inarrestabile e
irrivertibile delle cose. Egli ha ereditato dal mondo ellenico la classica
oggettività, il bisogno del ciclo simmetrico della strofe, invece della prosa
flessibile e asimmetrica. Così al posto degli interminabili svolgimenti
aritmici e simili al pesante e indeterminato flusso della materia, così cari a
Riccardo Wagner e ai seguaci Riccardo Strauss e Claudio Debussy6,
egli ama le brevi forme nitide, i contenuti ben serrati dai solidi argini del
ritmo. Così le cadenze che chiudono ogni pezzo mascagnano, sieno pure abilmente
mascherate e dissimulate, generano in noi il senso della perfezione, poichè
quei motivi e quelle melodie, che si avvolgono e si svolgono in periodi
regolari come strofi della lirica greca o degli inni sillabici del canto
gregoriano, non son fatte per essere contorte e concatenate secondo i dogmi, a
loro estranei, del sistema wagneriano o dei sistemi da quello nati. La guerra
alle cadenze che oggi infierisce nella musica, è errata per Mascagni e starei
per dire per la musica italiana; sarebbe come fare in nome del verso aritmico
dei verslibristes una guerra alla rima nella nostra poesia rimasta
tuttavia a strofa ritmicamente obbligata. E il Mascagni laddove tenta di
obbedire ai canoni del discorso libero o simile alla prosa del romanzo e della
commedia in prosa, non ha fatto che generare un malinteso puramente grafico,
malinteso che si dissipa all'audizione, se pure l'intento non sia stato davvero
raggiunto a scapito della musica stessa.
L'opera è preceduta da
un preludio di carattere più lirico che descrittivo sebbene d'una certa
descrittività. A un breve episodio religioso che ci avverte di essere in un
giorno festivo (la Pasqua),
tracciando così un poco la cornice del quadro passionale che a poco a poco ci
vedremo svolgere dinanzi, segue un motivo che potrebbe chiamarsi: il pianto di
Santuzza; chè, infatti, esso e gli incisi che lo seguono, son tratti dal duetto
tra Santuzza e Turiddu. A questo episodio, che subito c'immerge in
quell'atmosfera di calda sensualità disperata, caratteristica vibrante
dell'anima del Mascagni, succede una cadenza delle arpe preludiante alla Siciliana
- una canzone cantata a sipario calato da Turiddu sotto le finestre di Lola.
Ecco così che i personaggi sono già evocati tutti e quasi lineati dal preludio.
La Siciliana
è una melodia bellissima, serena sebbene languida di passione. È come una stasi
intima e profonda nel terribile dramma che ha già cominciato a scatenarsi. Non
è detto se sia una mattinata o una serenata; ma noi sentiamo in
essa quella indefinibile aspirazione quasi a superare i limiti dei corpi e gli
argini delle azioni, che trema nelle popolari canzoni d'amore, cantate nei due
crepuscoli, in alcune nostre provincie, a cui la civiltà s'è appena avvicinata.
Non so se la musica della Siciliana sia originale oppur ripresa da un
vero e proprio motivo popolare. Il fatto è che Mascagni ha qui avuto una
stupenda intuizione del sentimento che doveva avere una canzone popolare.
Ma improvvisamente
l'incanto vien spezzato dal dramma feroce che prorompe di nuovo e con maggior
foga. Il fascino lascivo della canzone vien come affogato nell'onda furiosa
dell'orchestra, dove nuovi impeti di passione balzano alternati da murmuri
sordi come di collera e da echi lontani di melodie umili come di preghiera.
Finchè comincia a svolgersi maestoso e doloroso il motivo esprimente l'urto
tragico tra l'amor vano di Santa per Turiddu e la noncuranza satura di rimorsi
di quest'ultimo, motivo a cui, dopo un fortissimo spasimante, s'attacca il
pianto di Santuzza, così pieno di disperazione rassegnata. E il preludio si
chiude con una lunga cadenza sacra che riprende e compie la cornice sacra con
cui esso si era aperto.
A proposito della
descrittività di questo preludio mi si potrebbe obbiettare che il significato
che io dò ad esso può anche dipendere da una retroproiezione del
significato del dramma su di esso. In altre parole: se questo preludio fosse
eseguito separatamente, esso non potrebbe parlarci di Santuzza e del suo
dolore. Ma la questione è che questo preludio non dev'essere eseguito
separatamente, per la semplice ragione che esso è stato concepito insiem
col dramma. Nè, parimente, è vero che tutte le parti d'un'opera debbano, se
staccate da essa, dirci da loro sole a qual causa, per dir così, sono votate.
Se la Cappella
Sistina fosse per ipotesi scancellata dal tempo di sul muro
dov'è dipinta e dalla memoria umana, colui che ne venisse a scoprire un
frammento, ad es: una delle Sibille, si troverebbe, credo, ben'imbrogliato a
ricostruire il tutto, risalendo ad esso da quella parte frammentaria. Lo stesso
si dica di uno dei frammenti scampati al naufragio del teatro greco. Una frase,
un motivo, una figura prendono il loro significato dal testo al quale sono
concreate. È il tutto che dà il valore delle parti, o, meglio, è l'intuizione,
per dir così, centrale, che s'è espanta armoniosamente nelle più estreme
ramificazioni del tutto. Le parole, le frasi, i periodi; le note, gli accordi,
i motivi, gli svolgimenti, etc. etc., non sono che forme del linguaggio, il
quale è composto di simboli vuoti e, per dir così, non solo empibili di sempre
mutevole contenuto, ma trasportabili in quella di tutte le posizioni rispetto
al tutto, che possa contribuire maggiormente a raggiungere l'intuizione madre,
a esprimerne la vita, almeno approssimativamente. L'essere scettici riguardo
alla descrittività della musica, o meglio al suo valore determinativo, è essere
scettici del potere rappresentativo del linguaggio umano; e se tale scetticismo
spesso non ha luogo di esercitarsi sul linguaggio parlato, ciò dipende dalla
lunga abitudine, che ha soffocato lo stupore del miracolo.
Il sipario si alza
davanti alla piazzetta d'un paese in festa. È mattina. Le campane suonano e dal
loro ritmo vien generato, con un'intuizione geniale, il motivo gaio e
esuberante di trilli di colore e di squilli di luce, che descrive la pasqua.
Son frasi gaie, lanciate con un brio rossiniano di danza, alle quali si unisce
a poco a poco il doppio coro, quello femminile cantante una fresca e delicata
melodia primaverile, quello maschile, rude, un po' sgarbato nella sua allegria
contadinesca. La scena è indovinatissima. Potrà forse sembrare triviale a certi
critici di palato ipersensibile, ma chi conosce bene le pasque gioconde delle
nostre città italiane col loro bel sole d'aprile, con quel brulichio d'abiti
femminili dai colori accesi che formano colle luci e con le ombre accordi
policromi sempre cangianti; chi ha provato quel senso tutto caratteristico di
allegria spensierata e di facile felicità che effondono lo scampanio incessante
e il clamore della folla, diverso, non so perchè, da quello delle altre
domeniche, riconoscerà che Pietro Mascagni ha mirabilmente rappresentato in
questa scena introduttiva il mattino della pasqua popolare italiana.
E il dramma comincia.
Un motivo tortuoso e
cupo, il motivo della gelosia di Santa, apre il recitativo di questa con mamma
Lucia. Fermiamoci un istante su questo tipo di recitativo. Esso non è il
vecchio recitativo monotono dell'opera buffa, o il recitativo eroico e starei
per dire marmoreo delle opere wagneriane della prima e seconda maniera. Neppur
si riattacca al melanconico e sentimentale recitativo del 500-600. Deriva, se
mai, dal recitativo bizettiano (da quello per es., dell'ultima scena della Carmen,
chè i veri recitativi secchi di quest'opera non furono scritti dal
Bizet, come ognun sa, ma dal suo amico Guiraud), recitativo drammatico,
duttile, pieghevole a esprimere con naturalezza i più diversi sentimenti. Ma,
in realtà, è una specie di recitativo nuovo, anzi più un canto libero
ogni tanto solcato da esclamazioni liriche dell'orchestra, che un vero e
proprio recitativo. In opere posteriori il Mascagni ha pur troppo tentato di
abbandonare questo suo bel tipo di recitativo per riprendere anch'egli il
recitativo svenevole e civettuolo della scuola massenettiana. Ma non avendo il
Mascagni le pessime doti di leggerezza melliflua che ci vogliono per parlar
musicalmente con tale leziosaggine melensa, ne è venuto fuori un linguaggio
ibrido, che non contenta nessuno con la sua goffaggine7
provinciale, che vuol sembrare disinvoltura da viveur.
La canzone di Alfio, che
segue l'incontro delle due donne, è uno dei pezzi più scadenti dell'opera. In
esso appare, la prima volta in Mascagni, il vizio dell'enfatica eloquenza
inutile, vizio inoculato nella musica moderna dal8 dittatore a vita di
essa musica: Riccardo Wagner. Lo spunto della canzone, un triviale motivuccio
da operetta, è scelto arbitrariamente dall'autore a reggere un grandioso
edificio corale e strumentale di nessun valore musicale, salvo che musica non
diventi sinonimo di fragore. L'origine di questo vizio va ricercata9,
come ho detto, nello smodato fervore con cui finora è stato studiato il sistema
d'orchestrazione10 wagneriano. Il Wagner, scopritore di
meravigliosi e impreveduti impasti strumentali, lasciò pur troppo una specie di
ricetta, usando la quale i musicisti sono pressochè sicuri di ottenere un
frenetico applauso. Comunque questo pezzo, che sembra descriva il fragore di
rotolanti carri guerreschi e non l'umile treppichio dei poveri barrocci
siciliani, ha pur nel disegno errato qualcosa di fresco e di giovanile che fa
pensare a certi selvaggi e un po' triviali ritmi tschaikowskyani. Quasi a fare
il pendant a questo coro segue l'inno popolare della resurrezione. Anche
questo pezzo è condotto con un po' di tronfiezza ed esagerazione. Ma la
spontaneità della melodia, l'impeto delle modulazioni, alcuni effetti
irresistibili di sonorità, vibranti quasi d'un empito di gioventù e di
passione, finiscono per far perdonare il fragore, pur questa volta
sproporzionato a un'azione che esigerebbe maggior semplicità e forse un tono
tra l'agreste e il pastorale; insomma un canto più umile e meno meyerbeeriano
nella condotta.
Ma ecco due scene in cui
il Mascagni può abbandonarsi tutto al suo frenetico lirismo erotico. Il
racconto che Santuzza fa del tradimento di Turiddu, e il duetto tra questi e
Santuzza, interrotto per un istante da una breve entrata di Lola, un po'
curiosa a dire il vero. Giacchè donne che vadano alla messa per una piazza
pubblica cantando a squarciagola11 stornelli d'amore,
sono, anche sul teatro melodrammatico, e con buona pace dei librettisti,
inverosimili. Infatti i librettisti italiani sembrano un po' troppo convinti
che l'arte, sia lirica, sia drammatica, è immagine, sì del reale, ma del reale
trasformazione fantastica. In fondo in fondo, sotto la libertà dell'arte, si
trova - la schiavitù della scena. E questo mi si conceda che è alquanto
ridicolo trattandosi specialmente di un dramma... veristico. O la bella e
schietta verisimiglianza della novella del Verga! Ad ogni modo queste due scene
sono tra le parti più belle dell'opera; onde occupiamoci sopratutto del
carattere personalissimo di questa musica. Ho già detto altrove che il Mascagni
sente più di ogni altro sentimento l'amor sensuale e un po' brutale del popolo;
questi due pezzi ne sono una conferma lampante. Il primo di essi, la romanza di
Santuzza, narra il dolore della giovinetta tradita, il ribrezzo della sua carne
martoriata dalle immagini del desiderio e della gelosia, sempre rinascenti come
un incubo infaticabile. La musica si colora mirabilmente delle immagini poetiche
espresse dalle parole, anzi sembra essere di queste immagini narrative-verbali
quella confusa frangia di nuove immagini e sentimenti che suole circondare come
un alone sfumato e inafferrabile l'immagine centrale di una poesia. Già
l'introduzione orchestrale simile alle iniziali miniate, con cui, nei libri
antichi, si preludiava pittoricamente alla narrazione di poi scritta, ci fa
entrare nella pienezza della situazione. Il pudore e lo spasimo carnale, che
impediscono alla giovinetta di parlare; la rassegnazione al destino, sotto la
quale però cova l'odio mortale alla donna che ha sedotto Turiddu, per invidia a
lei, Santuzza, non per vero amore a Turiddu; tutte queste fluttuazioni di
passioni tra di loro intrecciate e contrastanti, e di cui la potenza sta per
prorompere nella povera fanciulla con un'intensità tutta propria dell'anime
popolari più istintive che riflessive; sono bene espresse in quei due versi
di melodia12 dolorosa, coronati da uno scoppio
passionale e conclusi dall'abbattimento d'una cadenza rallentante. La melodia
del racconto quindi segue e sottolinea con perfetta evidenza sentimentale,
non visiva, come fa, per es., Wagner, gli episodi dell'agitata
narrazione della popolana. Di questi episodi belli in particolar modo sono e
quello in cui vien narrato il nuovo ravvicinamento di Turiddu e Lola, e quello in
cui si confessa l'atroce verità con tutta la confusione della vergogna e la
rivolta dell'amore tradito:
priva
dell'onor mio rimango!
La melodia di queste
parole sembra sgorgare lenta e desolata dal tumulto incalzante di poc'anzi. È
uno di quei rari momenti di melodia assoluta, che corrisponde,
nell'arte, a quello che, nella vita, è lo sfogo del pianto. E, infatti, come
nella vita una tensione troppo forte e troppo lunga dei nostri nervi nella
sofferenza, ci condurrebbe a qualche disequilibrio irrimediabile, onde il
risolvimento della crisi nel pianto ci procura un benessere doloroso sì ma
consolatore; così, in arte, il modo stilistico che corrisponde al momento del
pianto o di un qualunque sfogo in generale, ha come un potere refrigerante e
sollevatore. Si ricordi nel Coriolano di Beethoven, dopo il furioso
battito del ritmo affannoso che apre il pezzo, lo sgorgo discendente della
sublime melodia cantabile, e si ricordi ancora nell'ode a Napoleone
Eugenio di Giosuè Carducci, il refrigerio indimenticabile che dà, dopo tanto
cupo rombo di gloria fatale, l'evocazione della solitaria «casa13
d'Aiaccio - cui verdi e grandi le quercie ombreggiano - e i poggi coronan
sereni - e davanti le risuona il mare!».
Un episodio religioso,
lo stesso con cui comincia l'opera, cioè il motivo pasquale, termina la
bellissima romanza.
Il duetto che la segue è
di pari bellezza. Il dialogo, condotto sopra il recitativo mascagnano del quale
ho già rilevato l'originalità, è, a parer mio, perfetto. Le due persone del
popolo, che vi son dipinte in un momento così tragico della loro vita, son rese
all'evidenza in tutte le pieghe vorticose delle loro ingenue passioni. A una
esecuzione, per aver un'idea della verità popolare di questo duetto, se ne
osservi il riflesso sui volti degli uditori delle platee e dei loggioni. È un
continuo cangiamento del giuoco delle fisonomie, che al fremito doloroso d'un
accordo si abbuiano, si rischiarano a una dolcezza melodica, s'increspano con i
suoni aspri di un'ironia di Santuzza. Giacchè la potenza ingenua d'espressione
di questa musica è inesauribile, e, sotto quest'aspetto, il breve terzetto a
recitativo tra Santuzza Turiddu e Lola, è un piccolo gioiello. Le movenze
vivacissime del dialogo, i fuggevoli incisi orchestrali, la naturalezza degli enjambements
dell'una parte sull'altra, ci fanno quasi credere di esser in mezzo alla via
d'un sobborgo popolare, dove alcune querule comari, coi pugni sui fianchi, si
bisticcino fortemente, non risparmiando d'offendersi sia pur con l'inflessione
della voce, e riconducendo così il linguaggio a una vera e propria musica, a
quella lirica vivezza d'espressione, la quale il nostro sfiorito linguaggio di
uomini beneducati e beneammaestrati ha da gran tempo perduto.
Lola partita, il duetto
riprende con maggior furore. La vena lirica del Mascagni si riapre, versa
torrenti di melodia. Sono in particolare belle la melodia sulle parole: no,
no, Turiddu, rimani ancora, e quella: la tua Santuzza piange e t'implora,
ambedue già fatte udire nel preludio. Le diverse sfumature del dolore di
Santuzza e del rimorso orgoglioso di Turiddu, vi sono espresse come meglio non
si poteva. Caratteristici sono i furori (è la vera parola) melodici, allorchè
le voci salgono a una altezza disperata, vibrando in un fortissimo passionale
di tutta la massa orchestrale. Questi abbandoni frenetici al fortissimo furono
da me già osservati, a proposito della preghiera, come una delle principali
caratteristiche dell'esuberante e prepotente natura musicale del Mascagni.
Naturalmente nessuna attitudine, come questa, alla retorica può esser
pericolosa e trascinare nel vuoto e nel volgare; però la freschezza giovanile
con cui il Mascagni compose la
Cavalleria, difende assai questo spartito dal pericolo
suddetto. Il duetto, dopo aver percorse diverse fasi tutte interessanti,
s'arresta ad un tratto su di un tremolo dei bassi, al quale si mischiano
soffocate ed irose le offese supreme dei due fidanzati. Momento indovinato, in
cui il canto e la parola, insomma l'intuizione del proprio stato di anima,
cessa per dar luogo al suono rauco e quasi bestiale dell'ira cieca. L'ira
infatti, al suo estremo furore, estingue ogni rappresentazione lucida; l'uomo
non vede più che in confuso; il turbine della passione scatenata lo disumana,
lo fa14 tornare natura, sentimento incosciente.
E questo è bene espresso
dal Mascagni con i tremuli sordi, colla precipitosa e starei per dire verdiana
scala cromatica saliente, quasi a condurre alle labbra di Santuzza la
maledizione folle: a te la mala pasqua, spergiuro! E l'orchestra
commenta, intonando a tutta forza il motivo della gelosia di Santa.
Anche questa dei
commenti orchestrali alla fine d'un pezzo è caratteristica mascagnana. Alla
fine del duo dell'Amico Fritz (soprano e tenore atto III); alla fine
dell'ultima scena del I atto dell'Iris, alla fine del duello tra
Ratcliff e Douglas nel III atto del Guglielmo Ratcliff e in molte altre
parti dell'opera mascagnana, si trovano esempi di questi commenti orchestrali,
i quali hanno avuta eccessiva fortuna nella giovane scuola italiana e in modo
speciale sono stati ripresi con grande eleganza dal maestro Perosi.
Il duetto che segue, e
cioè, il duetto tra Santuzza e Alfio, è infinitamente inferiore al duetto
precedente. C'è in esso una fiacchezza fantastica invano celata dai tentativi
numerosi d'abbandono a una melodia che non vuole espandersi. La composizione, anche
negli artisti più leggeri e più spontanei, è pur sempre qualcosa di troppo
sacro, perchè la si possa comandare a piacere. La fretta del preparare l'opera
per il concorso, l'impazienza irriverente (e tutta italiana, pur troppo)
davanti al mistero della creazione, irriverente impazienza propria a molti
nostri altri musicisti, ad es: al Rossini; e altre simili ragioni d'indole
pratica hanno impedito al Mascagni di attendere il momento propizio per
risolvere il problema estetico di questo duetto con l'unica risoluzione
che gli spettava, o per migliorarne la risoluzione già sbagliata. Così com'è, è
un pezzo ben meschino, vuoto, tirato via, con una velleità di ritorno
all'antico modo di cadenzare un pezzo con qualche retorica cadenza o nota di
bravura.
Possiamo anzi fin da ora
notare, e così avremo indicati i principali difetti dell'arte mascagnana, che
il nostro autore, se ha in comune con gli artisti molto spontanei ed ingenui
alcuni pregi indiscutibili, ne ha anche in comune i difetti correlativi. Se, per
es., è nel Mascagni pregio gettar giù musica bella (sebben piccola nel suo
contenuto) a larghi fiotti, come una fontana sempre piena, senza l'ansia
creatrice15 e il combattimento eroico con la materia
sorda e riluttante alla bellezza della forma, procedimenti propri a un
Michelangiolo e a un Beethoven; talvolta questa sua facilità quasi direi
incosciente, tanto è ingenua, diviene il suo peggior difetto. Che l'accogliere
senza un'insaziabile riflessione tutto ciò che nasce nella sua fantasia, lo
porta spesso a accumulare erbe marcite16 in luogo di fiori
freschissimi. Nel resto dell'opera del Mascagni infatti, e lo vedremo a suo
luogo, vi sono non più pezzi soli e brevi, ma interi spartiti, in cui la
mancanza d'una vagliatura rigorosa e dignitosa ha fatto sì che il maestro
scambiasse per arie espressive, semplici accozzi mnemonici ed insignificanti di
quegli echi di composizioni o proprie o altrui, che formano il supplizio di
tutti i musicisti più riflessi. Giacchè anche nella musica accade ciò che il
Bergson e altri notavano accadere nel linguaggio poetico. I poeti, i veri
poeti, creano parole sempre nuove, perchè intuiscono sempre situazioni della
realtà continuamente diverse; ma la vita comune, la vita, come direbbe lo
Shelley, meccanica, non avendo creatività bastante a produrre nuove
esperienze, ripete, con esperienze stereotipate, parole vecchie, da cui è stata
spremuta tutta la freschezza del succo. I nuovi musicisti, parimente, creano
formule tonali nuove; i retori si affrettano a ripeterle, a ripeterle fino a
che il pubblico d'orecchi duri non se ne stufi e protesti fischiando. E per retori
intendo anche coloro che, pur avendo creato della musica nuova, cioè avendo
creato delle formule nuove per problemi estetici irripetibili, tentano di
applicarle a problemi estetici nuovi, divenendo così autoretori. Il
Mascagni è uno di questi. Egli nella creazione ha una facilità estrema, che
ricorda, sotto questo aspetto, la facilità, quasi sorella dell'improvvisazione,
di Victor Hugo. E come questi, egli ha sopra di sè, simile a una condanna, la
minaccia dell'autoretorica, che pare quasi vendicare gli artisti
incontentabili, come il Beethoven, di questa specie d'ingiustizia della natura.
Per questo aspetto è pieno di significato la mesta invidia che Beethoven
provava, vedendosi abbandonato dal leggero e vano pubblico viennese per il gaio
e spensierato Rossini.
L'intermezzo che divide
l'opera in due parti diseguali è composto d'una specie di brevi strofi
preludianti, e di una larga melodia ormai, e giustamente, famosa. Le due strofi
sono di stile religioso, ma di una religiosità calda e sensuale che ci ricorda
certe frasi della musica religiosa del Pergolese. Vi piange infatti la stessa
melodiosa malinconia erotica del buon settecento napoletano, e queste due
eleganti strofi, per essere religiose non cessano d'avere un aggraziato
movimento di menuetto leggiadro. È curiosa anzi l'osservazione che oggi si
potrebbe fare a tanta musica moderna da Wagner in giù: la confusione di tutti
gli stili, o per meglio dire, l'uso profano di certe formule stilistiche in
altri tempi adoprate con intenzione religiosa, o, viceversa, l'uso oggi
religioso di formule in tempo lontanissimo profane. La musica religiosa del 700
ripresa dagli autori moderni, assume una significazione per lo più erotica. È
una profanazione, nel cattivo senso della parola? o è il tardivo atto di giustizia,
per cui vien svelato che quelle formulette erano molto più terrene che
celestiali?
La larga melodia dei
violini che forma la seconda parte dell'intermezzo, accompagnata internamente
dall'organo, dimostra una volta di più la verità di quanto ho detto
nell'introduzione, che la melodia mascagnana per essere esulata dalle gole
umane nei meccanismi degli strumenti orchestrali, è pur sempre rimasta la
vecchia melodia italiana, ultracantabile. E della vecchia melodia italiana ha
tutto il fascino sensuale questa magnifica melodia d'una calda religiosità
quasi erotica. Religiosità erotica, ho detto. Infatti qui non starò a
dimostrare diffusamente come il sentimento religioso del Mascagni non cessi
d'esser religioso per essere sensuale. Al sentimento religioso, come a tutti i
sentimenti, non possiamo dar forme determinate ed esclusive, giacchè le sue
concretizzazioni è naturale che si colorino delle infinite differenze che
distinguono tra di loro le personalità artistiche. Così la religiosità d'un
Michelangiolo è eroica, quella d'un Wagner mistica, quella ancora di un
Pergolese sensuale quanto quella del Mascagni. E nella Bibbia lo stesso Dio del
mito ebraico è come modificato dalla diversità dei caratteri dei profeti che lo
cantano.
Ma la messa è terminata.
Le campane squillano di nuovo «con onde e volate di suoni». La scena si riempie
di popolo, che canta nella gran luce del mattino inoltrato, un coro allegro e
leggero. Non ripeterò la difesa alla banalità squillante e argentina di questa
scena popolare. Nè difenderò la gaiezza sprizzante e saltellante del brindisi.
Giacchè chi non sente la bellezza di questa scena e di questo brindisi, non ha
mai bevuto e ammirato sotto le pergole appena verzicanti dai tralci che
rimettono, in certe graziose trattorie di campagna, il luccicore rosso del vino
coronato di spuma rosea, al sole di primavera. In fondo in fondo i critici
dovrebbero avere una possibilità quasi infinita di esperienze, che dovrebbero
risorgere alla voce suggeritrice e rievocatrice dell'arte. Ma questa possibilità
è troppo rara, perchè noi ci rassegnamo a sentire malmenare della musica anche
bella, da critici troppo limitati e accecati da pregiudizi micidiali.
Alla interruzione
dell'intermezzo e della bella scena popolare, succede più tragica e più feroce l'ultima
ripresa del dramma. E il finale è perfetto in tutte le sue parti. Dalla sfida
di Alfio al discorso sconclusionato di Turiddu, che sente in sè sorgere
prepotente il rimorso per il male che ha fatto a Santuzza; dall'addio di
Turiddu alla madre, d'una dolcezza che strazia, al murmure lontano del popolo
che annuncia tumultuosamente l'uccisione di Turiddu; è un seguito di episodi
che fanno uguagliare a questo finale la bellezza della romanza e del duetto di
Santa e di Turiddu. Ma di tutti questi episodi, l'addio di Turiddu alla madre è
forse tale da superare la bellezza non solo del resto del finale, ma ancora di
tutta l'opera. Dopo la sfida di Alfio, la scena è rimasta vuota. Alla gaiezza e
al clamore è successo un silenzio impicciato e quasi doloroso, quel senso di
tristezza che generano le scenate popolari in mezzo a una bella festa. Tutti
sono partiti lasciando Turiddu solo nella gran piazza piena di sole. È un
momento d'ineffabile malinconia. Turiddu non sa come baciare, forse per
l'ultima volta, la madre. E un breve intermezzo di violini tremolanti nel
grande silenzio, s'espande rinforzando scendendo salendo diminuendo, come fa il
vento, e come fanno i sentimenti umani fluttuando per i lor ciechi e
irremeabili labirinti. Finchè Turiddu trova la scusa: ha bevuto troppo, ha
bisogno di un poco d'aria libera; e fingendosi ubbriaco chiede alla madre la
benedizione «come quel giorno che partì soldato». Questa frase è un nulla:
eppure è un'evocazione sublime. Bisogna infatti sapere che cosa significhi per gli
abitanti dei paesetti sperduti e lontani dai grandi centri la leva militare,
quella ineluttabile chiamata che strappa alle madri e ai padri i figli per
portarli, là, nelle contrade ignorate o sognate come piene di terribili
pericoli, donde spesso non tornano più; bisogna intendere tutta la delicatezza
di quell'immagine infinitamente triste. E nella musica c'è tanta semplicità,
tanta giustezza di malinconia affettuosa, che volentieri noi porremmo questa
scena tra le più grandi d'ogni teatro. Ma alla pietà filiale s'accoppia in
Turiddu la compassione per Santuzza: ed egli prorompe allora in una spasimante
frase: «Voi dovrete fare da madre a Santa!» La povera madre s'angustia; domanda
il perchè di tali strane parole e del più strano tono. E tuttavia la musica non
ha un momento di debolezza: è sempre d'una verità purissima,
cristallina. Nessun ricordo di maniera intralcia nello spirito del
musicista lo svolgersi della visione del dramma, sentito fino a farlo balzare
ai nostri occhi e al nostro cuore come un momento di vera vita vissuta. Questa
musica è perfetta creazione, e le parole e la situazione per esser rivissute
intere nello spirito del Mascagni, sembrano esser create contemporaneamente
colla musica. Anzi io posso sostituire all'empirico forse, una sicurezza
assoluta. Giacchè in iscene come queste, anche i compositori che non creano nel
tempo storico il libretto da loro stessi, ma lo chiedono ad altri, sono simili
a coloro che, come Wagner, furono autori del libretto della musica. Infatti
tanto gli uni che gli altri, creando l'opera musicale, dovettero rifondere in
una nuova intuizione totale, l'antica intuizione poetica. Onde, che
questa appartenesse ad un altro o a quell'altro particolar sè stesso, che è il sè
del passato, ciò non conta, se tutte e due le intuizioni, e la propria e
l'altrui, debbono essere rintuite e come rifuse in una sola dal compositore.
Riepilogando, la Cavalleria Rusticana
è opera non di grande portata, ma schietta e piena di vita e di difetti
simpatici da un capo all'altro. È un'opera giovane ed entusiastica; è un'opera
plebea, certo inadeguata a rappresentare nella storia un vero e proprio momento
spirituale dell'Italia. Piuttosto essa si riallaccia bene con quell'ordine di
opere italiane e straniere, create, com'ebbe a dire uno degli interpreti più
profondi dello spirito moderno, da coloro che, preclusi ai grandi orizzonti del
pensiero dall'opaca muraglia del positivismo e del naturalismo, peccarono
contro il pensiero. Se non che la posizione del Mascagni nel verismo e nel
naturalismo è assai più complessa di quella di uno Zola e di Verga e merita di
essere commentata ed esplicata, tanto più che da tale analisi potremo togliere
i criteri onde dare un definitivo giudizio su quest'opera; un giudizio, cioè,
che non annullando come, ripeto, troppi 17 critici fanno, le sue
indiscutibili bellezze, limiti la sfera in cui queste bellezze nacquero e
vivono.
La Cavalleria si ricollega
indubbiamente col grande movimento europeo del verismo. Senza entrare nella
questione, per me ovvia, della possibilità del verismo nella musica, noterò
subito come la Cavalleria
sia opera del verismo più per virtù del libretto, che per bisogno della natura
del musicista. È in questo che consiste la speciale posizione del Mascagni
rispetto al verismo. La musica è stata finora, riguardo ai grandi movimenti
della coltura europea e alle grandi correnti dell'arte, come un'arte di
rifiuto. Le aspirazioni d'una nuova scuola allora solo penetrano nel mondo
cinese dei musicisti, che abbiano compiuta la loro totale evoluzione e che
questa evoluzione abbia già generato la sua rispettiva controrivoluzione.
L'Italia aveva avuto già la violenta e feconda reazione letteraria al verismo
zoliano e verghiano nello pseudo-idealismo d'annunziano, pseudo in quanto
attuato più come intenzione che come cosciente rivolta al positivismo; quando
la reazione dei musicisti al melodramma victorughiano-verdiano si modellava
tardivamente sopra la reazione che all'arte victorughiano-romantica già
compivano in Francia i naturalisti, generando un'arte che doveva empire di
nuovo sangue, benchè a preferenza plebeo, le vene flaccide della Musa Europea. La Cavalleria
resulta dunque, rispetto agli ideali che l'hanno o sembra l'abbiano ispirata,
un'opera in ritardo, e perciò, anche sotto quest'aspetto, inferiore alla
storia, allo spirito che si svolge con continuo processo di autocreazione nel
tempo; essa è un'estrema produzione del verismo, come il Mefistofele è
una postrema produzione del romanticismo; sebbene nella Cavalleria noi
potremmo trovare un verismo infinitamente meno rigoroso di quello dei
naturalisti, che non ammettevano l'opera d'arte che come un documento
scientifico-fotografico della vita umana. E non per il fatto che il Mascagni si
sia reso piena coscienza dell'errore estetico del verismo; sibbene perchè il
verismo mascagnano è un verismo da musicisti, un verismo (non voglio fare un calembour)
a orecchio, da permettere perfino delle infiltrazioni wagneriane. Ora questa
mia nota sul verismo della Cavalleria, non sarebbe che oziosa e
meramente meccanica, se proprio questo carattere veristico non facesse assumere
a quest'opera il valore, rispetto alla circoscritta operistica italiana, d'un
sintomo di rinnovamento innegabilmente necessario, e, rispetto alla grande arte
motivata dalle più alte necessità della storia umana, non le facesse assumere,
contemporaneamente, il valore d'un'opera inutile perchè in ritardo18.
Ciò che ho detto sulla manchevole coltura del Mascagni, ha qui una nuova
riprova. Sembra quasi che l'arte degli artisti come questo nostro, si contenga
verso la grande arte degli artisti come Goethe e Beethoven, e Berlioz e Wagner,
al modo stesso che l'immobile fondo del mare verso gli alti strati delle acque
percorse da correnti e agitate da tempeste. Il movimento delle onde giunge, se
vi giunge, in basso, quando già su in alto un nuovo movimento s'è manifestato.
L'ambiente musicale assolutamente sterile di nuove idee, nate dal contatto
diretto della vita libera e aereata dai vasti venti della coltura, si pasce
quasi delle briciole che lascia cadere il sereno banchetto dei grandi spiriti.
Da questa specie di vecchiaia precoce, di morte quasi direi necessaria e
congenita alla nascita dell'opera, viene spiegato il senso di vuoto che cova
sotto la Cavalleria.
Certo la freschezza dello spirito del Mascagni c'incanta, e
se noi giungiamo ad astrarre l'opera dal momento storico in cui siamo immersi,
e ad assorbirci tutti nell'angusto cerchio della vita dello spirito italiano,
quasi ci sentiamo spinti a proclamare la Cavalleria un capolavoro. Ma anche
ammettendo, come io so di buon grado, la fresca spontaneità di quest'opera
contrastante con le bolse produzioni del falsissimo teatro melodrammatico
italiano - un teatro che ci ha dato talora per buone delle putrefazioni
romantico-sentimentalistiche della forza d'una Gioconda del Ponchielli -
il nostro spirito, se aperto a tutti i venti che agitano la storia
contemporanea e alle voci dei suoi problemi spirituali, trova presto in quella
freschezza la barriera della puerilità e dell'incoscienza, e in quella
spontaneità - il limite cieco della futilità. Non siamo dinanzi a una di quelle
opere che c'inquietano e ci fecondano, se non altro di contraddizioni19,
come qualche libro di Zola un tempo, e come il Pelléas di Debussy, oggi.
Non sentiamo nella Cavalleria un bisogno ineluttabilmente nuovo, che
prenda coscienza piena di sè e, come tale, abbia il diritto di esser chiamato
una nuova conoscenza artistica, una vera nuova opera d'arte. La Cavalleria, se,
ripeto, siamo pienamente coscienti del nostro spirito, ci fa l'effetto che fanno
tutti i ritardi e le rifioriture fuori stagione nella storia. Stucca presto,
anzi genera presto, invece di uno stato estetico nuovo, un sorriso oblioso.
Oblioso, perchè ci dimentichiamo che è stata scritta, tosto che il
grande sole della vera coltura adeguata alla pienezza cosciente dello spirito,
ci ravvolge scaldandoci e illuminandoci del suo immenso splendore meridiano.
Così, tutto sommato e
tenendo conto del valore di musicista popolare che ha il Mascagni, il vero
senso che la Cavalleria
ha nella storia generale dell'arte e quindi dello spirito umano, non è che
quello d'indicare un rinnovamento popolare della linfa musicale
nell'antichissimo tronco dell'arte italiana. E anche questo suo valore popolare
non è da disprezzarsi. Giacchè si ricordi bene che il popolo è pur sempre il
serbatoio delle forze vive d'una nazione, e che coloro i quali sembrano aver
superato lo stato confuso e retorico della vita spirituale del popolo, in fondo
in fondo non hanno fatto altro che dare una forma umana a ciò che dall'anima
popolare veniva su come confuso gurgite di sentimenti. Ond'è che un vero grande
musicista futuro non potrà dimenticarsi dell'opera di Pietro Mascagni, come non
potrà dimenticarsi, pur riallacciandosi alla grande tradizione del 500-600, di
quelle di Verdi di Bellini e degli altri nostri compositori popolari. Riprendo
qui una tesi che accennai nella prima parte di questo studio. Il linguaggio
musicale italiano è continuato da quei sebben piccoli musicisti che, sotto
altro aspetto, giustamente noi reputiamo come imbastarditori della grande arte
italiana. Ma chi vorrà cantare italianamente dovrà avere le vecchie arie
popolari in cuore. Che certo queste meno differiscono dalle antichissime nenie
dei pastori preromani, di quello che da esse non differiscano, e comicamente,
le musiche inutili degli intedescati e dei futuri d'Indysti e Debussysti.
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