II.
L'Amico
Fritz e i Rantzau.
Che il buon Mascagni non
fosse un verista pienamente iniziato nei dogmi della scuola naturalistica, ce
lo dimostrano le due opere, che subito seguirono la Cavalleria. La
prima di esse, l'Amico Fritz, sebben musicalmente possa rappresentare
come la continuazione del giovanile furore melodico della Cavalleria,
non ne rappresenta certo una continuazione dei presunti ideali veristici. Non
starò a ripetere che quel verismo era dato alla Cavalleria dal caso puro
e semplice; chè infatti il soggetto del Fritz ne è una conferma
lampante, nulla essendo di più d'una di quelle farse un po' comiche un po'
sentimentali, quali il Donizzetti specialmente ci diede nel suo delizioso Elisir
d'amore e nel suo Don Pasquale, etc. Certo molto di nuovo e di
diverso dal contenuto di quelle farse e delle affini c'è nel Fritz; chè
elementi indubitatamente nuovi sono nella vita anche popolare della terza
Italia. Un senso più immediato e appassionato della natura, una più profonda, a
modo suo, intimità psicologica dei personaggi, e quella certa strana tristezza
erotica, che se per un lato richiama alla memoria l'erotismo melanconico del
settecento, per un altro è cosa tutta moderna e che, a ben guardare, si
ricollega con quello stato ambiguo che fu chiamato - dai letterati, oh! non dai
musicisti - neoromanticismo. Ma nella sostanza il drammetto del Fritz
è ben diverso nel suo significato umano dalla tragedia della Cavalleria.
Col Fritz il Mascagni è tornato, per non abbandonarli più, ai vecchi mannequins
del teatro melodrammatico italiano. Questi personaggi non son mai come quelli
della Cavalleria. Tra Suzel e Santuzza c'è lo stesso abisso che tra la
vera poesia e la graziosa invenzione del romanzo ameno.
Musicalmente, ripeto, il
Fritz è una continuazione dell'esplosività melodica della giovinezza
musicale del Mascagni. Come noi vedremo a poco a poco, la scoperta della
propria forma musicale dal Mascagni raggiunta nella Cavalleria, lo
influenzò per il lungo periodo che va dalla Cavalleria all'Iris,
nel quale spartito egli raggiunge la scoperta di un mondo di nuove formule
stilistiche, quasi direi di un nuovo vocabolario personale, scoperta pur troppo
resa vana, come è già dimostrato in altra parte, dal non essere generata di
pari passo con la scoperta d'un nuovo contenuto maggiormente significativo.
Pure tra il Fritz e le opere al Fritz posteriori, cioè i Rantzau,
il Poema leopardiano e il Silvano (eccettuo il Ratcliff e
lo Zanetto come opere, in cui il maestro ha potuto risentire con calore
di vita l'espressione di quelle formule già sfruttate) corre un immenso
divario: chè, rispetto alla pienezza espressiva della Cavalleria, quelle
tre opere sono autoretorica nata dalla Cavalleria, mentre il Fritz
è, come ho già detto, una continuazione della Cavalleria. Quindi, a
parte la sciatteria di alcune sue parti, nel Fritz troviamo ancora delle
cose incantevoli per freschezza e schiettezza. Il preludietto, l'aria di Suzel
nel 1º atto, quasi tutto il 2º atto, la magnifica romanza «all'amore» di Fritz
nel terzo atto e, pure nel terzo, il duo di Fritz con Suzel, meraviglioso per
passione e forza drammatica, son tutti pezzi degni di stare accanto alle più
belle ispirazioni della Cavalleria. Ma il pezzo che supera e abbuia
tutta l'opera e che è tra le cose migliori del Mascagni, sebbene inutile
rispetto all'opera in cui lo troviamo, è l'intermezzo. Consistente come quello
della Cavalleria in una larga aria per violini incastonata tra accordi
preludianti e accordi concludenti orchestrali, questo intermezzo esprime,
quanto difficilmente la musica del Mascagni ha poi saputo ancora esprimerlo, la
calda natura sensuale dell'autore. A quei critici a cui non piaccia e che non
sentano in esso che un volgare raddoppio di violini, io non so fare altro che
consigliare di essere inesauribili nelle loro esperienze di vita e d'arte, e di
pensare che anche questa sensualità espansiva e sana, in cui par sentire
«gorgogliar rosse le scaturigini della vita», è cosa troppo italiana, troppo
popolare, troppo giovane, perchè si possa spiegare... a chi non l'ha provata nè
sospettata, e a chi non ha dell'Italia che una concezione retorico-nietzschiana.
Ma chi ha conosciuto la semplicità della vita italiana lungo i litorali
luminosi, nelle campagne armoniose di venti leggeri e di squilli di merli; chi
ha penetrato il fascino carnale dei dialetti di certe sue città meridionali,
dialetti che nelle loro movenze sembrano musica di Mascagni o di Bellini; chi
dell'Italia sa tutto questo e ha intravisto (sorridendo dell'avvicinamento
mostruoso) quanta parentela corra tra la più fresca e schietta poesia di un
Gabriele D'Annunzio (Canto novo, III libro delle Laudi) e le
dolci liriche di un Salvatore di Giacomo, e ha sospettato che le loro parole
vivide di meridionalità sono intagliate nella stessa materia psichica di questi
buoni musicisti italiani, che sembrano averci al posto dell'anima... della
bella carne giovane e robusta; converrà con me che quest'intermezzo è vero, è
bello, è italiano, e che anch'esso va messo tra quelle arie popolari, che il
sereno grande compositore futuro dell'Italia dovrà avere nel cuore insieme con
qualche altra cosa ancora degl'italiani, oggi purtroppo dimenticata: il
Pensiero. Ma già, di coloro che questo intermezzo non comprenderebbero e
irriderebbero, quanti hanno compreso le divine ariette di Pergolese, di
Marcello, di Carissimi, di Vivaldi, di Arcangelo del Leuto etc. etc? quanti le
hanno godute pienamente e non a traverso ridicole retoriche da salotto?
I Rantzau, invece, sono una delle
opere peggiori del Mascagni; in esse trionfa quel modo compositivo o meglio
costruttivo, che ho già chiamato autoretorica. Certo, non siamo ancora caduti
nella ributtante sciatteria del Silvano, nè nello sforzo tronfio e
inconcludente dell'Amica. Il maestro ha in quest'opera ancora tanta
dignità in sè da non abbandonarsi a un'inerzia indifferente o a ricorrere a
degli inganni ignobili di barocca sapienza orchestrale e drammatica. Ma,
sebbene questa retorica sia innocente e quasi fanciullesca, cominciamo però a
sentire nell'ingegno del maestro il serio bisogno di un rinnovamento di stile e
di contenuto; aggiungasi il soggetto ben agro per un musicista monocorde come
il Mascagni. Chè, invece dell'amore, ha in questo dramma il sopravvento l'odio;
e il Mascagni, pur riuscendo fino ad un certo segno a far prevalere una tenue
ispirazione erotica infinitamente più debole di quelle già avute nella Cavalleria
e nell'Amico Fritz, non ha saputo che retoricamente creare il contrasto,
l'atmosfera nemica a questo amore, l'odio. Ed è naturale; chè se il Mascagni
può cantare l'odio erotico, l'odio della gelosia carnale, non saprà mai, perchè
troppo complesso ed estraneo alla sua natura, cantare l'odio per cupidigia,
l'odio nato fra due fratelli per colpa del danaro. Anche nella scena tra Alfio
e Santuzza, chissà che ad otturare la ben facile vena mascagnana non
abbiano contribuito ancora la situazione e il carattere di Alfio, che al
Mascagni dev'essere apparsa se non incomprensibile, certo indifferente, non
trattandosi in Alfio d'una rivolta al tradimento puramente erotico, sibbene
della rivolta molto più fredda e austera, la rivolta al disonore. E anche da
questa via ecco che noi torniamo al semplice centro del carattere mascagnano, a
questa specie di sensualità di primitivo e di meridionale di quest'uomo che non
capisce di tutti i sentimenti umani che quello più popolare di tutti, l'amore.
E che altro di più, in fondo in fondo, hanno sentito i maggiori a lui Ariosto e
D'Annunzio e gli spiriti affini?
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