III.
Il
Ratcliff.
È la quarta opera del
Mascagni. Apparsa tre anni dopo i Rantzau, era attesa come
un'affermazione più importante e più nuova dell'ingegno del Mascagni. Ma
l'opera, sebbene nella scelta del soggetto sembrasse accennare a un
rinnovamento del contenuto mascagnano, non segna che un aspetto un po' diverso
del contenuto già noto. Si aggiunga che, se quest'opera è infinitamente più
significativa dei Rantzau, un fraintendimento della propria ispirazione
da parte del maestro, ha fatto sì che l'opera al teatro appaia moltissimo meno
bella e importante di quello che non sia nella realtà.
Il libretto, come ognun
sa, non è che la traduzione discretamente sciatta che Andrea Maffei fece della
tragedia romantica di Enrico Heine. Per quel che riguarda il poema heiniano,
non è da dubitare che invece di una tragedia voluta bella e riuscita ridicola,
si tratta di uno scherzo di buonissimo gusto. In un paese dove come nella
Germania, il maggior tragico, lo Schiller, per imitare Shakespeare e i tragici
greci produceva tragedie affatto indegne di stare allato ai sublimi modelli
inglesi e greci, se non altro che per il fatto stesso che avevano bisogno di
modelli per essere intese a dovere; niente di strano se l'inflessibile critico
del cattivo gusto e dell'ingenuità tedesca abbia voluto contraffare
ironicamente quel tipo d'arte con una tragedia in cui tutto l'arsenale dei
luoghi comuni del teatro tedesco - luoghi comuni che si sono infiltrati
discretamente anche nell'opera wagneriana - venisse a bella posta adoprato con
mano umoristicamente prodiga. Del resto anche senza ricorrere all'ipotesi d'una
cosciente satira dei falsi tragici tedeschi, chiunque abbia dimestichezza con
lo spirito di Heine e con gli spiriti affini e fraterni, sa benissimo come
certi loro stati d'anima, anche senza potersi chiamare umoristici, confinano
con l'umorismo. C'era quasi in essi un'impotenza artistica - impotenza se noi teniamo
fissa la mente alle più sublimi forme dell'arte - e un'amarezza ironica sempre
pronta a zampillare, che facea lor volgere in un ridicolo doloroso anche ciò
che pur avessero intrapreso come qualcosa di serio. Del quale stato d'anima
angoscioso e pure accettato con serenità, non era esente, a me così pare,
neppur lo stesso massimo Goethe.
Ma, com'ebbi già a dire
altrove, Pietro Mascagni con la sua solita beata ingenuità ignorante poco si è
occupato d'indagare il significato tortuoso e duplice del poema di Heine. Ha
creduto così, alla buona, alle tirate umanitarie del socialistoide Ratcliff,
s'è entusiasmato romanticamente alle apparizioni spettrali nelle foreste
scozzesi alla Walter Scott, ha animato musicalmente l'inanimato contrasto
erotico del protagonista; e ha creato, in mezzo alle brutture d'un'opera
enfatica e volgare, una specie di nucleo musicale, d'un romanticismo schietto e
simpatico, affine, sebben più grossolano, a quello di certe ballate di Chopin,
di certi poemetti vittorughiani e di alcune concezioni wagneriane della prima
maniera.
Ho detto: una specie di
nucleo, e avrei dovuto dire addirittura un poema o una suite lirico-sinfonica.
Giacchè se il Mascagni ha creduto di creare un'opera, a sua insaputa, credo,
egli ha creato in mezzo alle costruzioni inutili di quattro atti che non
riescono a star bene insieme, un centro vivo, un nucleo musicale a sé,
che è quello che regge in piedi l'opera dinanzi al pubblico e che impedisce
allo stesso di fischiare quest'opera, realmente, come opera, sbagliata. Ora
l'ufficio della critica non deve esser sol quello di dimostrare l'inesistenza
estetica di quella tale opera, in cui le parti belle non formino un organismo
con tutto il resto dell'opera, ma da questo si distacchino come frammenti
compiuti d'un edificio incompiuto. Vi sono casi, e il Ratcliff
mascagnano è uno di questi, nei quali il compositore ha realmente visto
qualcosa di vivo nel soggetto preso a trattare, ma è stato, per dir così,
insofferente della forma impostagli dal libretto e ha composto qualcosa di
formalmente diverso dalla ineffettuata attuazione dello schema dato dal
libretto, anzi ha creato un organismo del tutto indipendente da questo
schema. Chiunque infatti ascolti il Ratcliff a teatro, si accorgerà con
meraviglia come da tutto il mare plumbeo dello spartito emergano e s'imprimano
indelebili nella memoria alcuni pezzi, mentre di tutto il resto dell'opera non
rimane in mente che una fluttuazione informe di recitativi e di fragori
orchestrali. La ragione di ciò sta proprio in questo: che il vero Ratcliff
di Mascagni consiste soltanto di quei pochi pezzi, è tutto in quei pochi
pezzi. Sono essi, cioè, che ci danno l'immagine schiettamente romantica e per
nulla umoristica che di questa strana storia s'è formato il maestro; sono essi
che hanno diritto di chiamarsi una delle più ispirate cose del Mascagni; sono
essi finalmente che la critica deve estrarre dall'inutile materia sonora in cui
sono immersi e sperduti, onde render loro la giusta fisonomia.
Non sarà male, per
spiegarmi meglio, illustrare l'esempio già citato del Vascello Fantasma.
Chi conosce davvero quest'opera (ossia chi l'ha ripensata criticamente) non
stenterà molto a convenire con me esser l'ouverture dell'opera e la ballata
di Senta due pezzi bastanti da soli a esprimere tutta la leggenda
bellissima del maledetto navigatore condannato in eterno a scorrere i mari del
nord sul vascello misterioso. Infatti le numerose e prolisse scene, che
s'aggruppano intorno a quel nucleo musicale, non sono che un'aggiunta inutile,
una spiegazione che nulla dice di più di quel che già dissero col suo
prodigioso impeto sinfonico l'ouverture e col suo fuoco sentimentale la ballata.
La stessa cosa sarebbe avvenuto se da una Ballata di Chopin e servendosi
di essa altri avesse svolto drammaticamente ciò che in essa è già stato
svolto a sufficienza liricamente.
Ora lo stesso divario
che corre tra l'ouverture e la ballata di Senta e il resto del Vascello
Fantasma, corre pure tra i pezzi lirici del Ratcliff - i
quali tra poco analizzeremo - e le scene che intorno ad essi s'aggruppano. La
leggenda dei romanzeschi amori d'Eduardo Ratcliff e della Bella Elisa,
ripetuti, quasi per legge d'atavismo, dai rispettivi figli Guglielmo e Maria,
come può esser poesia di per sè stessa, cioè all'infuori della versione
umoristica ricamatavi sopra dallo Heine, così può servire, ed ha servito, al
Mascagni, di soggetto a un poema lirico-sinfonico da porsi accanto a quei
leggendari poemi che sono l'ouverture e la ballata del Vascello
Fantasma, le ballate di Chopin, e per passare dalla musica alla poesia, il Mazeppa
di Victor Hugo, la Lénore
di Burger etc. etc.
Il primo di questi pezzi
lirici è il lungo preludio con cui si apre l'opera. Esso è una specie di
ballata romantica ispirata all'antefatto della tragedia d'amore di poi svolta.
Immaginiamoci una sfrenata fantasia d'amore di gelosia e di fatalità tragica,
fantasia che sarà poi determinata verbalmente sulla fine del poema: per ora non
se ne intende che il tono tragico e fantastico (adopro qui la parola fantasia
nella sua accezione volgare di soprannaturale, irreale). Come tutte le ballate
romantiche, questo preludio, interrotto dalla canzone fatale: «perchè rossa di
sangue è la tua spada Eduardo?», canzone che nel poema ha il potere misterioso
e ineluttabile che aveva nella tragedia greca l'oracolo, presenta i
procedimenti ormai classici dell'arte romantica: i ritornelli, le ripetizioni
etc. etc. E certo questi procedimenti sono venuti spontaneamente al Mascagni,
che non è da credere ch'egli abbia una profonda conoscenza del folklore
romantico e del romanticismo folkloristico.
Le scene che seguono il
preludio, cioè il fidanzamento di Maria con Douglas, la descrizione che questi
fa della vita londinese, il racconto, sempre dello stesso, del viaggio per la Scozia infestata dai
masnadieri, sono e inutili nel dramma (naturalmente nel dramma preso sul serio;
satiricamente sono allo Heine riuscite bellissime) e false musicalmente. Anzi
non è qui senza ragione la autoretorica mascagnana; chè, dato lo sfondo
leggendario del dramma, troppo grande è il salto dal carattere eroico di questa
leggenda, e la realtà semiseria d'un buon fidanzamento che, a dir vero,
d'eroico non ha che i costumi scozzesi dei personaggi. Per trovare una
continuazione della leggenda lirica, occorre saltare a pie' pari tutti questi
episodi inutili e leggere l'altra bella ballata che descrive, alla fine
dell'atto, le uccisioni dei due fidanzati di Maria, tragico frutto della
decisione irrevocabile che Guglielmo Ratcliff ha preso, di uccidere tutti i
fidanzati della sua cara. Le parole heiniane sono qui più comiche che
terribili. Un musicista che ne avesse penetrato l'intenzione satirica, avrebbe
certo scritto per esse una finissima musica carica d'ironia. Ma il Mascagni,
come sempre, non ha saputo che risentire senza doppi sensi una tragica vendetta
d'amore e ha scritta una graziosa ballata in due vere e proprie parti o strofe
ritornellate e tutte piene di quei richiami ed echi suggestivi, che sono come
la musica della poesia romantica. Così alla melodia scorrevole
narrativa, che descrive l'innamoramento di Ratcliff per Maria, succede, bene
intonata, la descrizione della ricerca dello sposo mancante alla cerimonia
nuziale. Ed è bello il glaciale fluttuar dell'orchestra sottolineante la
scoperta del cadavere nella foresta a' piedi del Negro Sasso. Ed è pur bene
intonato alla leggenda lo scoppio di fanfara eroica che alla fine della prima
strofa echeggia all'offerta che del teschio del fidanzato fa Ratcliff a Maria.
La seconda strofa della ballata, saggiamente abbreviata, ripete e nel fatto e
nella musica le parti episodiche della prima. Certo non dico trattarsi qui
d'una splendida ballata come quella di Senta o come una delle sublimi ballate
di Chopin. Ma questa ballata mascagnana non sembrerà affatto brutta se se ne penetri
il tono tutto popolaresco e l'ingenua spontaneità.
È facile trovare nel 2°
atto, liberandolo dalle banalità poco spiritose dei briganti e dell'oste,
banalità che ci ricordano, con minor schiettezza d'ispirazione, le scene
zingaresche del Trovatore verdiano, e sfrondando la parte di Ratcliff
dalle poco concrete effusioni socialistiche, il momento musicale che, continua
il poema sui generis, in cui dico consistere il vero Ratcliff del
Mascagni. È il racconto che, intrecciato di fantasticherie soprannaturali,
Ratcliff fa del suo amore disperato per Maria. Questo pezzo, di gran lunga
superiore alla ballata del 1° atto, comincia dalle parole «un lunatico eroe
non mi devi suppor», e termina laddove ritorna in ballo la sciocca
fantasmagoria dei masnadieri scozzesi (sottintendi, bella nello Heine). In
questo lungo racconto s'incontrano bellezze tali da porre questo brano di
musica accanto alla Cavalleria e all'Amico Fritz. Certo il
significato del testo poetico - una morbosa passione inoculata atavisticamente nel
sangue del protagonista - vien sopraffatto e quasi tramutato dalla sana vena
erotica del Mascagni. Sicchè, lentamente, la mania dell'eroe romanzesco si
converte nella solita rubiconda sensualità popolana del Mascagni. Il bellissimo
motivo sulle parole: «quando fanciullo ancora» esprime, sì, qualcosa di
misterioso, ma non è il cupo mistero soprannaturale del testo. Sibbene è il
dolcissimo mistero dell'amore e del piacere carnale, che annega lo spirito e
che, se gli impedisce di discernere nitidamente lo stato sentimentale in cui si
trova, pur non lo acceca tanto da non concedergli una semivisione calda e quasi
direi, se non fosse un controsenso, materiale. Del resto sappiam forse noi in
certi nostri stati d'anima distinguere con precisione i gradi della insensibile
scala per cui l'impressione sensuale si converte lentamente e per passaggi
impreveduti, in intuizione, in percezione, in spiritualità insomma? Di tutti
gli stati sentimentali ambigui e confusi, lo stato amoroso è il più
crepuscolare. Lo spirito si contenta d'una penombra quasi incosciente,
dileguata la quale, dileguerebbe anche la passione. È questa penombra il mistero
dell'amore, e questo mistero si sente indefinibile e soave in tutto questo
bellissimo racconto d'amore. Così ancora una volta trionfa nell'arte
mascagnana, si tratti d'un soggetto veristico o romantico, l'amore, il solito
amore sensuale, sano, fresco, senza complicazioni psicologiche: e la musica di
questo pezzo è pieno di baci, di rose, di luminose visioni di giardini verdi e
solivi, di tutta quella natura serena e prettamente italiana che riempie della
sua gran pace refrigerante la
Cavalleria e l'Amico Fritz. Anche gli scoppi
d'odio e i propositi di vendetta di Guglielmo, tentando di colorirsi delle
reboanti esclamazioni romantiche, dove non suonano a vuoto, parlano dello
stesso strazio carnale, dello stesso ribrezzo della gelosia carnale, che già
ispirò la melodiosa Cavalleria Rusticana.
E ancor più bello e
pieno di questo sensual mistero erotico è l'intermezzo orchestrale, che ci dà,
abbattuta la selva vana di retorici monologhi che lo circonda fragorosamente,
il terzo atto. Nel testo dovrebbe significare una visione che Guglielmo ha al
Negro Sasso nel vasto orrore della selva sconvolta dalla tempesta, ferito per
la prima volta dal terzo fidanzato di Maria. In realtà è un grande sogno
d'amore: un sogno stanco e doloroso come la contemplazione d'un destino che,
immutabile, contrasti un amore profondo. Dei tre intermezzi mascagnani, in
Italia giustamente amatissimi, questo intermezzo è il più profondo. Qualunque
sia il suo significato preciso nel dramma, esso è un altro di quei rari momenti
di melodia assoluta in cui sembra concretarsi l'essenza stessa dell'anima d'un
compositore. Non siamo qui dinanzi al canto d'amore aspro e selvaggio della
zingaresca che forma l'intermezzo del Fritz, né dinanzi alla preghiera
amorosamente singhiozzante dell'intermezzo della Cavalleria. Questo
pezzo più lirico di tutti perchè più libero degli altri da qualunque
contingenzialità del dramma, sembra metterci in comunicazione immediata con la
personalità mascagnana. Ed è da questo intermezzo specialmente che io ho tratto
le linee principali di codesta personalità, ed è in esso precipuamente che io
ho notato il ritorno dell'anima italiana popolare alla malinconia erotica
settecentesca. Infatti se il titolo (il sogno di Ratcliff) ci avverte
dell'ufficio starei per dire simbolico, che nella mente del compositore ha
preso questo divin sogno d'amore, nulla ci vieta di oltrepassare il simbolo e
di cogliere in questo canto tutto crepuscolare, soffuso di voluttà armoniosa,
la più intima essenza della personalità del compositore. Onde questa melodia
semplicissima, sebbene saviamente orchestrata, si ricollega con le più schiette
manifestazioni della nostra pittura e della nostra poesia.
Il preludietto del 4°
atto è un pezzetto di musica di squisita leggiadria. Continua il poema
descrivendo la festa nuziale. C'è in esso quello strano senso che infonde la
musica d'una festa lontana. L'a solo del flauto è tutto quel che di più
elegante possa20 produrre la fantasia del Mascagni.
Nell'esecuzione dei pezzi staccati che io consiglio, questo pezzo
interromperebbe graziosamente il tono grave dell'intermezzo e del racconto. Nè
stonerebbe, giacchè il carattere fresco, ma pur sempre misterioso di questa
musica di danza, si ricollegherebbe bene con il carattere misterioso della
leggenda ratcliffiana.
Però, a dire che dopo
questo preludietto, la suite di cui è dimostrata l'esistenza, sia
proseguita nel quart'atto, sarebbe farsi troppo schiavi d'una teoria a danno
della realtà. La suite si rompe, per verità, e il cattivo melodramma
spegne nel compositore qualunque spunto di sincerità. Il quart'atto del Ratcliff,
se se n'eccettua la ripetizione del primo preludio a cui è adattata
l'esplicazione verbale dell'antefatto a tutto il dramma, è ammorbato dalla
solita autoretorica così comune nel Mascagni. Anche il duetto tra Guglielmo e
Maria è sforzato, inconcludente, anzi addirittura assorbito in altra e ben più
bella concezione mascagnana, di cui non è un'eco, sibbene un primo abbozzo,
come, a quel che ho sentito dire, è avvenuto di altri pezzi dell'opera; il
duetto, cioè, tra Turiddu e Santuzza. Dunque, mi potrebbe obbiettare qualche
malizioso, tutta la vostra teoria sul Ratcliff non diviene forse oziosa,
se la suite o poema, che voi dite essere il nucleo di quest'opera, non è
neppur compiuto? Niente affatto. La critica, intorno a questo spartito, che
molti credono il capolavoro del maestro, non può far altro che dimostrare qual
sia la sua vera vita, anche ad onta che tale suo modo di vita appaia qua
e là interrotto da lacune, le quali spetterebbe al Mascagni, reso cosciente
del suo lavoro, di riempire - dato e ammesso che gli artisti fossero così
malleabili, da lasciarsi consigliare dalla critica - cosa che non fanno quasi
mai e che, se ci pensi bene, è forse impossibile che riescano a fare.
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