IV.
Silvano,
Zanetto e Poema leopardiano.
Il romanticismo del Ratcliff
dopo il crudo verismo della Cavalleria e lo pseudoverismo del Fritz
e dei Rantzau, può assumere il valore d'una prova luminosa della leggerezza
artistica del Mascagni, prova che non viene infirmata dal fatto che il Ratcliff
fu concepito avanti la Cavalleria,
giacchè, ritornandoci sopra, il maestro ne riaffermava il contenuto, un
contenuto ad ogni modo di significato infinitamente minore a quello della Cavalleria.
Ciò che forma, si può dire, la personalità d'uno Schumann e d'uno Chopin, per
non citare sempre i massimi, è l'unità e la continuità di
svolgimento del loro contenuto, il quale, in costoro, sembra svilupparsi come
la vita d'un organismo lentamente e ininterrottamente crescente su sè stesso.
Lo concepite un Wagner che dopo aver creata la tetralogia scriva una Carmen?
È assurdo e ridicolo insieme; chè creare non è solo avere delle lucide
intuizioni, ma queste spontaneamente organare per via di assimilazioni ed
eliminazioni, in un tutto assolutamente originale. In altre parole un
compositore deve avere coscienza delle proprie forze e seguire la linea
unica e diritta delle sue aspirazioni. Ora questa coscienza delle proprie forze
o aspirazioni, o com'altro vogliasi chiamare il mondo d'un artista, è
affatto embrionale nel Mascagni. Come i nostri ultimi operisti - Rossini,
Donizzetti, Mercadante, Bellini, Verdi - anch'egli non sente ambizione
superiore a quella di espandere fiotti di colori su qualunque disegno gli venga
presentato. Questa minima ambizione raffaelliana - mi si perdoni, ma io scrivo
quest'aggettivo contrapponendolo mentalmente a michelangiolesca - era
quella per cui si tributavano maggiori lodi, per es., al Rossini; ma, se in un
certo senso è vero che sopra innumeri soggetti il Rossini e il Mascagni trovan
sempre qualcosa da dire, bisogna però vedere se questo qualcosa è detto ad
hoc, o non è piuttosto un'improvvisazione simile, in parte, a un sonetto
a rime obbligate.
Ora al punto in cui siam
giunti del nostro studio, ci è lecito stabilire, contemplando la serie dei
soggetti, già noti a noi, che hanno fornito al Mascagni l'occasione di cantare
il più possibile, sotto un nuovo aspetto il limite dell'ingegno mascagnano. Noi
non possiamo in fondo in fondo creder molto al romanticismo mascagnano per le
stesse ragioni, anzi accresciute, per le quali abbiamo dubitato del verismo
mascagnano. A una sola condizione noi vi potremmo credere, se l'abbandono del
verismo per il suo mortale nemico il romanticismo, fosse stato21
causato da un pieno riconoscimento delle manchevolezze del verismo rispetto ai
bisogni spirituali del Mascagni. Ma, in realtà, questa crisi potente e violenta
nel maestro non è affatto avvenuta. Come già dimostrai l'indifferenza e forse
l'incoscienza assoluta dello spirito del maestro verso il valore veristico
della Cavalleria, così non ci vorrebbe molto a dimostrare una non meno
incosciente indifferenza dell'interpretazione romantica della vita contenuta
nella leggenda ratcliffiana. Siamo nel paese dove si canta senza sapere il
perchè, diceva, credo, uno straniero a tempo della feconda polemica tra
Gluckisti e Piccinnisti. E anche oggi Mascagni in linea retta italianamente
discendente del Piccinni, non fa nulla di più che cantare senza sapere il
perchè.
Continuiamo la nostra
analisi.
La 1a
rappresentazione del Silvano segue appena d'un mese quella del Ratcliff
e questa nova opera di proporzioni più piccole dovrebb'essere un dramma
marinaresco. Ma in realtà il mare in quest'opera, che è la più brutta delle
opere del Mascagni, non è che un ridicolo mare di cartapesta, quale in certi
teatri da burattini vien rappresentato con strisce di cartone dipinte e
rumorosamente agitate con delle corde. Nè il dramma a cui serve di sfondo
questo ridicolo oceano impagliato, ha il benchè minimo pregio
drammatico. Si tratta d'un sanguinolento fattaccio recitato da fantocci
senza nessuna intimità e ragion d'essere. La musica poi è un tale accozzo di
frasucce o volgari o addirittura insignificanti, da non meritare quasi il conto
d'esser analizzata. Il mare che pur è stato il benigno custode dell'adolescenza
del maestro e a cui pur questi deve tanta salute di sangue e d'ispirazione, non
gli ha dettato nessuna immagine viva. Come nel libretto il mare è un incolore
luogo comune, così nella fusione del libretto e della musica esso rimane una
vecchissima immagine ritmica e sonora, quale avrebbe potuto avere, sebben più
fine, uno dei nostri buoni vecchi operisti sordi e ciechi a qualunque voce ed
aspetto della natura. Neppure nel coro marinaresco del 2° atto, dove il maestro
avrebbe potuto almeno darci qualche accento impregnato di sale come le tamerici
salse della spiaggia dell'Antignano, egli sa ritenersi dal cadere in una
fraseologia da borghese canzonetta napoletana. «Cantate la più bella
marinaresca» esclama il coro; ma, ahimè, le note sembrano intendere proprio il
contrario.
Ma quello che dà più
malessere in quest'opera insignificante, ne è la vecchiezza delle modulazioni,
l'insipidezza dell'armonia. C'è la falsa eloquenza dell'agile improvvisator di
preludi pianistici per mettere in tono un coretto d'educande. Si osservino poi
i recitativi. Essi non sono come nella Cavalleria e nel Fritz
quasi la forma musicale che sorgendo ed espandendosi investe e beve
le parole, assimilandosele. Essi son fatti come musicando pezzetto per
pezzetto, parola per parola il libretto, onde resultano sconclusionati ed
incerti. Gli spunti melodici poi riescono odiosi per la ricerca quasi a tentoni
della frase che non vuol venire. L'autoretorica vi trionfa: son come frammenti
di intuizioni precedenti legati alla meglio. Se mai il Silvano può avere
un valore, sarà quello di aver dimostrato al Mascagni tutto il suo dovere di
rinnovarsi. Ormai le belle formule melodiche della Cavalleria, gli universali
fantastici del suo stile giovanile, non gli dicono più nulla, sono
strizzati fino ad aver versato tutto il loro succo. Bisogna ch'egli cessi di
strascicare dietro a sè i cadaveri d'una fraseologia che un giorno fu viva;
bisogna che immergendosi in un silenzio fecondo, ritrovi nel suo segreto la sua
limpida vena, che non s'è seccata, ma solo, non coltivata gelosamente, s'è
perduta nel suolo.
Al soggetto sconciamente
realistico del Silvano, segue con un nuovo sbalzo, un soggetto di squisita
poesia: Zanetto o «Le passant» di F. Coppée. La dolce e intima
scena che ne forma il contenuto a dir vero non era molto consona alla natura
esteriore del Mascagni. Occorreva prima di tutto un librettista che non
sbertucciasse il delizioso episodio con versi che non significano nulla - Cuore,
c'è il dolore, tra il profumo e lo splendore - , e in
secondo luogo occorreva un musicista di arte molto più evoluta e sinuosa di
quello che non sia l'ingenuo e rozzo linguaggio mascagnano. Certo, se
confrontiamo lo Zanetto al Silvano, ci accorgiamo subito che il
fascino sentimentale del soggetto ha suscitato qualche fantasma vero nella
inerte immaginazione del maestro. Il preludio, sebbene così poco intonato alla
signorilità umoristica che dovrebbe avere un madrigale sussurrato in lontananza
- siamo nel Rinascimento, a Firenze - ; la canzone di Zanetto sebbene così poco
elegantemente trovadorica; l'appassionata e bell'aria «non andar da Silvia»,
sebbene anch'essa troppo plebea per sgorgare dall'anima d'una grande cortigiana
fiorentina; sono brani di musica che invano si cercherebbe nel Silvano.
Ma nel complesso l'opera è viziosa; il recitativo ne è povero, convenzionale,
spesso pesante. Si aggiunga, a momenti, un cantabile indegno della penna
d'uno scrittorucolo di romanze a base di sentimentalità da Scena illustrata.
So che lo Zanetto ha esercitato un certo fascino sugli studenti
intellettuali del tempo. Ma credo che essi, se non eran dei babbei, fossero più
vellicati nella loro sentimentalità dall'idea del soggetto, che dall'attuazione
mascagnana di quest'idea. La verità è che quest'idea non fu saputa incarnare.
Convengo però che tra i libretti mascagnani lo Zanetto è l'unico che,
accanto alla Cavalleria e a parte del Ratcliff, può significare
qualcosa di poetico.
Mi resterebbe, avanti di
passare all'Iris, di parlare del Poema leopardiano. Ma io chiedo
venia ai lettori se per rispetto alla innocente gioventù della fresca melodia
mascagnana, e per rispetto alla dignità della mia critica, io getto un velo
pietoso su questo fallo di gioventù del Mascagni. Ho già troppo
robustamente lineato il profilo di quest'arte, perchè ne debba ancora
dimostrare l'indifferenza adolescentesca davanti alle altezze più pure e più
formidabili dello spirito umano. Mascagni e Leopardi sono due spiriti che,
avvicinati, fanno provare la vertigine; appartengono quasi a due mondi diversi.
Credo che sarebbe un giochetto puerile dimostrare una cosa a cui tutti credono:
che Mascagni non può capire nè quindi cantare Giacomo Leopardi. È possibile che
Riccardo Strauss decadente fin nella midolla delle ossa, senta tutto il
decadentismo raffinato ed astuto che già s'annida nel nietzschiano «Also sprach
Zarathustra». Ma è impossibile che un fanciullo, un monello livornese possa
comprendere il pensiero di Leopardi. Tutt'al più farà, come ha fatto
Mascagni, un compito diligente sul tipo di quelli dal tema: ditemi che
sentimenti vi suggerisce la tomba di Torquato Tasso, o qualche altra tomba o
destino umano di cui si sia impadronita senza remissione la retorica scolastica.
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