VI.
Le
Maschere e l'Amica.
Le Maschere dovevano essere
nell'intenzione del librettista e del musicista una esumazione dei personaggi
dell'antica commedia d'arte. Esumazione piena di significati poetici e
musicali. Da parte del librettista era come una proposta di abbandonare «i
nuovi e strani eroi» per tornare alla semplice e buona ingenuità della maschera
settecentesca. Da parte del musicista era, oltre al far suo il proposito del
librettista, abbandonarsi a tutta la sua spontanea italianità tornando alle
forme classiche dell'opera buffa.
Il proponimento poteva
anche esser bello; sebbene sia saggio notare che tutti questi ritorni
all'antico sono pericolosissimi29: giacchè, pur
tralasciando il fatto che è molto dubbio un accordo intero tra il desiderio
d'un artista (che, al modo che l'intende il Mascagni, è, in fondo in fondo, un
servo del pubblico) di tornare al passato e l'anima del pubblico estranea ormai
a questo passato; occorre per infondere una vita novella nei cadaveri che
l'arte nel suo cammino infrenabile lascia dietro di sè, una ragione profonda
nell'artista stesso che si accinge a tale resurrezione. Occorre che l'artista
si trovi in un'opposizione violenta con i sentimenti e le convinzioni
dell'ambiente che lo circonda; occorre che l'artista si senta più contemporaneo
dei morti che dei vivi; occorre insomma che egli sia dotato di un senso storico
squisito. Con questo non voglio dire che da fraintendimenti storici non sien
nate opere insigni, ma bisogna vedere di quanto le condizioni dell'ambiente
favorivano l'errore di ricostruzione.
Ora, oggi non siam più
nel 400 in
cui si potessero vestire nei quadri personaggi orientali con abiti occidentali.
Oggi che un musicista come Wagner ci ha mostrato quanto bene anche con la
musica potesse esser rievocato, con squisita precisione di senso storico, un
tempo estraneo e lontano al Wagner e ai suoi contemporanei - in realtà,
s'incolpa i musicisti moderni di wagnerismo; ma quanti hanno osato seguire le
orme wagneriane nella sua mirabile coscienziosità di erudito! In altre parole:
in un tempo, qual'è il nostro, in cui ogni uomo veramente colto è cittadino non
solo di tutto il mondo, ma di tutta la storia a memoria d'uomo conosciuta; per
una rievocazione settecentesca, quali dovrebbero esser le Maschere si
esige ben altra preparazione lenta e paziente che quella che ha servito alla
composizione delle Maschere30. Infatti, possiamo
affermare che tanto il librettista quanto il compositore hanno avuto un'idea
che, come tutte le idee di questo mondo, potrebbe essere stata buona; ma
l'hanno attuata servendosi di reminiscenze raffazzonate alla meglio qua e là,
così come venivano alla memoria. Si tratta insomma d'una resurrezione delle
gaie e graziose maschere italiane fatta a orecchio, dilettantescamente: anzi in
alcuni punti suggerisce l'immagine che i dilettanti, i quali composero
quest'opera buffa voluminosissima, non fossero altri che degli studenti o dei
collegiali che, rubacchiando qua e là versi e motivi, avessero formato un buffonesco
pasticcio per qualche rappresentazione di beneficenza nel teatrino del collegio
o in qualche teatro ceduto gentilmente per l'occasione.
La questione è che
Pietro Mascagni ha, come ormai deve apparir chiaro da quanto è scritto fin qui,
un'italianità affatto spontanea. Egli non ci può dare un'opera di reazione ai
nuovi e strani eroi immigrati dall'estero nell'arte italiana, in quanto che
anche di fronte a questi nuovi e strani eroi - Iris, Amica, Ratcliff
etc. - egli è rimasto indifferente, anzi assolutamente italiano; sicchè essi, i
nuovi e strani eroi, metamorfosati dalla sua musica, acquistarono in grazia del
Mascagni stesso pieno, sebben discutibile, diritto di cittadinanza italiana.
Per correggere un difetto bisogna, anzitutto, averne intera e lucida coscienza.
E il Mascagni ha tanta poca coscienza della initalianità di certi suoi
personaggi, che, ripeto, aveva fatto come Verdi, aveva chiamato quasi tutti i
suoi eroi dall'estero, se non addirittura dall'Estremo Oriente.
A Giosuè31
Carducci, per ridestare la morta poesia italiana non malata a dir vero di
troppo amore per la grande poesia d'oltr'alpe, ma se mai distrutta da una
specie di vizio solitario per furor di se stessa, era bisognata un'intera vita
di dignitoso dolore, onde finalmente riacquistar piena coscienza e dell'errore
dell'ambiente letterario in cui egli viveva, e dei mezzi necessari alla sua
nuova grand'arte italica. Dai Juvenilia alle ultime odi è tutta una
serie ascensionale di tentativi più o meno felici che l'Omero dell'Italia
risorta dovette fare per svincolarsi dalla retorica e salire alla gran luce
paterna di Virgilio e di Dante. Finchè nelle Odi barbare, nel cui titolo
appare il solito dignitoso dubbio di non esser riuscito a riconquistare la pura
italianità per tanti anni cercata, ecco che Giosuè Carducci, trasfigurato come
un profeta, può intonare sicuro il nuovo Carme secolare, l'ode Nell'annuale
della fondazione di Roma.
Ora qual'ansia di
ritornare alle più schiette sorgive italiane, all'italianità non
melodrammatica, vana e retorica, come la letteratura da cui il Carducci seppe
liberarsi integrandola nel suo immenso mondo poetico-storico, ma sacra come la
pace bronzea dei grandi miti romani, nobilita l'opera del Mascagni? Egli nè
ebbe fin dall'inizio del suo cammino, nè ritrovò cammin facendo, l'ideale d'un
arte austeramente italiana, per cui dovesse combattere le forme ibride, ed
aspirasse al ritorno d'una grandezza italica nella musica forse mai come nella
poesia e nelle arti plastiche esistita, ma soltanto per un momento desiderata e
cercata. Eppure la italianità del Mascagni io stesso mi sono adoprato a
dimostrare, nonchè a cercare di rendere più tersa e più ammirevole. Ma nel
risolvimento di questa apparente contradizione io trovo una conferma della
natura popolaresca del Mascagni. Italiano è egli, anzi italiano più d'ogni
altro compositore nostrano in questo momento. Ma la sua è italianità
irriflessa, incosciente, e quindi incapace per la sua incoscienza stessa di
trarre dall'ambiente l'urto necessario onde trovare sicuramente le grandi vie
che riconducono alle culle della nostra razza e al genio che ad esse presiede.
Così al Mascagni era
impossibile ridestare quella coscienza profonda dell'italianità che intraluce
nelle formidabili creazioni di Dante, di Virgilio, di Carducci. Così le
Maschere, opera inutilissima, sarebbe indegna ancora d'un'analisi, non
potendo la critica abbassarsi alla considerazione d'un'opera in cui si sfiorano
irriverentemente i problemi più sacri dell'arte italiana, e quindi della vita
della nostra nazione, se quest'irriverenza stessa in fondo in fondo non fosse
affatto irritante, ma ingenua e adorabile come certe inconsideratezze degli
animi molto giovani, e se in quest'operetta da collegiale non ci fossero alcuni
gioielli d'una purezza assolutamente italiana. Ho già detto, e non è male
ripetere, che è pur troppo caratteristico del melodramma italiano ottocentesco
il non curare affatto l'insieme dell'opera, ma le singole parti, anzi soltanto
alcune delle singole parti, e ho già detto come nelle opere più sbagliate e
incoerenti del Verdi del Bellini del Donizzetti del Rossini del Mercadante la
critica deve fare una scelta rigorosa ma non implacabile dei pezzi che,
estranei all'insieme, continuano, quasi con un egoismo indifferente, la
tradizione del linguaggio musicale italiano. Questa scelta va pur fatta nelle Maschere,
e noi siamo qui per salvare onestamente dalla condanna dello spartito la
sinfonia il duetto d'amore e le due danze del 2° atto, ben esigua quantità date
le proporzioni gigantesche della partitura, ma di tal qualità, che sarebbe
ingiustizia estetica trascurare.
Chè, a dir vero, se il
Mascagni avesse continuata l'opera con lo stesso tono con cui l'aveva
incominciata nella sinfonia, le Maschere sarebbero riuscite una cosa
assai bella. Questa sinfonia infatti vuol riprendere e riprende lo stile delle
sinfonie rossiniane o mozartiane, o come più piaccia denominarle. Cosa in fondo
non difficile a un musicista che molto ami la nostra musica antica. Però quello
che dà una grazia simpatica a questa leggiadra sinfonia, è che i temi i
contrappunti che servono a colmare il vecchio schema della sinfonia da opera
buffa, son tutti profondamente mascagnani.
Così è delizioso il modo
con cui alla pomposità del cominciamento rossiniano succedono gli episodi
melodici e contrappuntistici di contenuto affatto moderno. Bella
particolarmente riesce nell'episodio a ottavi ribattuti - more rossiniano
- l'armonia acidulamente moderna con cui il disegno s'inalza e s'abbassa. E
dolcissimo è il cantabile che intercala per tre volte, una delle quali
melanconicamente in minore, gli scherzosi movimenti a crome. Che però questa
sinfonia fosse purtroppo più fatta per un gioco piacevole e ben riuscito, che
per una profonda intenzione di ripristinare le forme classiche secondo un
raffinato metodo il quale avrebbe dovuto del pari essere applicato a tutta
l'opera, lo dimostra il fatto che il maestro non ha saputo andar più oltre
della sinfonia, il resto dell'opera non essendo moderato dalla grazia dei
modelli che hanno ispirato la sinfonia.
Sono pure intonatissime
le due danze: la pavana e la furlana. La prima è un lento
movimento di gavotta a cui a suo tempo si sposano settecentescamente due
sentimentali strofe del tenore. La grazia del ritmo, la delicatezza della
melodia, la semplicità dei mezzi, fanno di questa danza un altro gioiello che
il Mascagni ha donato alla nostra musica. Quest'arte della danza non barocca,
non pervertita da intenzioni letterario-decadenti, ma schietta e fresca, è un
segreto della musica italiana e francese e andrebbe conservato con gelosia. Il
Mascagni ha per la danza semplice, amabile, senza sottintesi sadici o artifizi
volgari, una vera disposizione. Si ricordi il leggiadrissimo preludio del 4°
atto del Ratcliff descrivente la danza nuziale: si ricordi la danza
delle guechas sebbene infinitamente inferiori alla danza nuziale del Ratcliff;
e si ricordi più di tutto la meravigliosa monferrina dell'Amica, in cui
sembra aleggiare lo spirito ingenuo ed elegante di Mozart.
La furlana è un
gaio movimento di tarantella più comune e meno eletta nel suo svolgimento, ma
pur sempre preziosa per l'italianissimo brio che la ritma.
Mi resta a parlare del
duetto, sebbene di questa opera interamente fallita bisognerebbe notare ancora
il dolcissimo cantabile di Rosaura e Florindo nel pezzo concertato che
chiude il 1° atto.
Ma questo cantabile è
una vera gemma sciupata dal contorno volgare e insipiente che la avviluppa
quasi indistricabilmente.
Nè la prima parte del
duetto in questione è molto al disopra di questo pezzo concertato, e non ne
avrei certo parlato se la melodia che ne forma la 2a parte: - Colma
di fiori incanti - è il mondo, eterna patria - e il prato ancora talamo - è di
liberi amanti - non fosse un brano di musica dove il Mascagni raggiunge forse
la più pura espressione del suo sentimento predominante se non addirittura
l'unico: l'amore. Ho già detto che in Mascagni c'è quasi una estrema fioritura
dell'erotismo sensuale e melanconico del 700. Questo rifiorimento, che per
essere spontaneo, non ha a che vedere con la resurrezione riflessa della
maschera italiana - resurrezione, come già osservammo, negata alla troppa
ingenuità mascagnana - trova in questa melodia una espressione insuperabile.
Una certa dignità di linea di ritmo di armonizzazione, una specie di puerilità
leziosa che ci rende adorabili Florindo e Rosaura, i canori amanti rosei e
paffuti che si sbaciucchiano come due colombi, avvicinano questa del Mascagni
alle più dolci arie del 600 e dell'800. Forse al Mascagni non sarà concesso più
di cantare con tanta voluttuosa castigatezza di modulazioni di melismi e
di ritmo.
Con la castigatezza di
questo duetto e con la semplicità scherzevole delle danze e della sinfonia
contrastano violentemente le pesanti polifonie orchestrali e gli esagerati
strillanti recitativi dell'Amica. Quest'opera era stata attesa rispetto
all'Iris, come il Ratcliff rispetto alla Cavalleria e,
cioè, come qualcosa di definitivo, di affermativo, nell'opera del Mascagni, che
tutti, anche i critici più facili e proclivi alle lodi senza senso comune,
sentivano mancare, quasi direi, d'equilibrio estetico. Ma infinitamente
inferiore al Ratcliff, l'Amica non aggiunge nulla alle cose già
dette dal Mascagni, se non se ne eccettui lo sforzo di dirle più forte e più
pomposamente. Giacchè l'autoretorica dell'Amica differisce
dall'autoretorica del Silvano, per esser questa quasi direi
un'autoretorica accettata ingenuamente, quella una autoretorica, mi si perdoni
il bisticcio, doppia e cioè voluta nascondere con lo sfoggio della bravura
tecnica. Gli spunti melodici dell'Amica sono infatti, come quelli del Silvano,
tutto quel che di trito di vecchio di stanco poteva produrre la fantasia del
Mascagni in un momento di aridità. Ma a questa specie di retorica iniziale
s'aggiunge una seconda retorica nello svolgimento di essi spunti.
Si prenda, ad esempio,
nel 2° atto tutto lo squarcio finale dell'opera - l'a solo d'Amica e la
sua morte. L'orchestra rugge una frase di nessun valore. Onde di suoni si
modellano su linee d'architettura sonora di nessuna novità. Ma quale sfoggio di
colori pesanti, wagneriani! Un cromatismo insopportabile, un'esasperazione
continua dei sentimenti, in fondo anch'essi di nessun valore drammatico, dei
personaggi, rendono il continuo ammassarsi delle parti strumentali ridicolo più
che brutto. E il ridicolo raggiunge il colmo, quando Amica, che come tutte le
ragazze, sian pure alpigiane, non peserà più, se ben portante, di 90 chili,
precipita giù dalla roccia nel torrente con tal fragore di schlaginstrumente,
da far credere che ruzzoli giù per la montagna non una giovinetta ma un
battaglione intero d'artiglieria e, se più sembri opportuno essendo la scena
sulle Alpi, l'armata ricca di cariaggi e d'elefanti, d'Annibal dirò.
Nell'Amica noi
non riconosciamo più Mascagni. La sua cara e fresca sentimentalità s'è
convertita in quella forma di teatral volgarità di sentimento che, come
osservai nella prima parte di questo lavoro, forma la delizia della vita
intellettuale della plebe e dei piccoli borghesi. Diciamo francamente che
nessuna cosa al mondo, sotto questo aspetto, meritava l'onore di essere spedita
all'esposizione del cattivo gusto come l'aria: più presso al ciel - più
lontan dalla terra, aria che fa fremere di ribellione alle mamme e ai babbi
i buoni fidanzati al cui sospirato matrimonio l'accorgimento pratico dei
parenti oppone la magrezza dello stipendio guadagnato alle vie ferrate.
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