L'ARMONIZZATORE.
Se nel disegno del
precedente capitolo sostituissimo al vocabolo orchestrazione il vocabolo
armonizzazione, fatte le debite modificazioni noi verremmo ad avere il
capitolo che ora debbo scrivere. Infatti, dato che nella considerazione
astratta degli elementi tecnici d'un'arte, in fondo in fondo, ciò che noi
contempliamo, è il valore estetico, la personalità, il contenuto lirico, etc -
di un autore o della serie degli autori; studiando l'armonizzazione p. es. di
Mozart, anche il più arido didatta d'armonia non saprebbe scinderla dal valore
espressivo che essa ha nella sua concreta coesistenza estetica con il
contenuto. Onde ciò che dissi intorno ad una possibile e per ora mancante
storia della orchestrazione, potrebbe ripetersi per una altrettanto possibile che
mancante storia dell'armonia. Non che storie di tale mezzo tecnico
dell'espressione musicale - chiamato, assai ingiustamente scienza, e confusa
così con l'acustica colla quale non ha pur minimamente a che fare - non
manchino. Anche la musica ha i suoi glottologi. Ma essi - gli armonisti - sono
più vicini ai catalogatori di voci per vocabolari, che a veri e propri
glottologi consci che la trasformazione del segno non va staccata dalla
trasformazione del contenuto.
Come la tecnica
strumentale, la tecnica armonica ha dunque una storia, che a rigore dovrebbe
prendere i suoi inizi... dal canto del celeberrimo primo abitatore del paradiso
terrestre, ammesso ch'egli cantasse. Ma noi ci rifaremo dai tempi molto più
vicini e osserveremo come, facendo per comodo nostro incominciare il cromatismo,
e cioè quell'astratta direzione armonica che oggi sembra predominare -
predominio che potrebbesi distruggere, distruggendo la convenzionalità
dell'astrazione - dal Monteverdi e dal Frescobaldi; questo cromatismo è oggi
giunto al suo massimo sviluppo, anzi alla sua corruzione. Infatti il cromatismo
passato attraverso quei punti d'arrivo che sono le opere di un Bach di un Haydn
e di un Mozart giunse al suo più perfetto equilibrio col suo presunto nemico il
diatonismo43 in Beethoven. Al solito dopo Beethoven
noi troviamo il consueto fenomeno di frantumazione in generale e di
biforcazione in particolare: e Riccardo Wagner crea una scuola armonica a sè
della quale oggi sono seguaci volente lo Strauss, nolente, ma impotente a una
ribellione non ispirata agli stessi principi che reggono l'odiato dispotismo,
il Debussy; e lo Schumann crea un'altra scuola armonica infinitamente più
prossima all'armonia beethoveniana. A questa scuola si avvicinano, incoscienti
e per la forza stessa delle cose, gli italiani, nonchè molti francesi.
Tra i contemporanei
Pietro Mascagni come armonizzatore appare quasi un diatonico. Infatti a
differenza di Strauss e di Debussy - io cito sempre questi due compositori
quali i più significativi della presente epoca di decadenza musicale - i quali
hanno spinto il cromatismo, l'uno fino all'assurdo, l'altro alla perdita quasi
completa (completa non è possibile umanamente) del senso tonale; unica grande
radice dell'armonia come intuizione estetica contrapposta all'anarchico
trastullarsi infecondo con i mezzi tecnici d'un'arte, divertimento prediletto
degli alessandrini e di tutti i decadenti in generale; il Mascagni è ancora a
quello stato di equilibrio quasi perfetto del cromatismo e del diatonismo, il
quale equilibrio in fondo non significa altro che una nitidezza, dirò così,
omerica dell'intuizione musicale. Occorre però, come già abbiam fatto per la
orchestrazione, distinguere nell'armonizzazione mascagnana una traccia
d'elementi spuri derivati in essa dall'eterna dominazione wagneriana; traccia
che la sua già largamente dimostrata incoscienza estetica o critica, come la si
voglia dire, ha impedito di eliminare dal suo bel limpido linguaggio italiano
che sarebbe da tale purificazione risultato più terso e consono al contenuto.
Infatti, per prendere un
esempio, chiunque paragoni l'armonia della Monferrina dell'Amica;
armonia nella sua chiarezza adamantina non inferiore al nitidissimo confluire
di attrazioni tonali attraverso spontanee rettilinee divergenze di accordi
diatonici e di non meno spontanee leggiadrissime curve di cromatismi sottili e
squisitamente condotti - proprietà eccellente dello stile armonico mozartiano;
all'armonia tronfia pesante e confusa dell'intermezzo sinfonico che divide il
primo atto dal secondo nella stessa opera, vedrà a sufficienza quanto sia
aliena la vera natura musicale del Mascagni dall'obliquo cromatismo
moderno. A parte l'esagerazione wagneriana del commento sproporzionato
all'azione; armonicamente tale intermezzo, con le sue goffe e banali
successioni di terze maggiori e quinte aumentate, e l'ansante incalzare di
faticose polifonie, che invano tentano placarsi in qualche episodio di enfatico
misticismo armonico, non sembra neppur scritto dall'autore dell'intermezzo
della Cavalleria del Fritz del Ratcliff e delle danze
nelle Maschere e della massima parte dell'Iris, l'opera che anche
sotto questo aspetto resta al disopra di tutto ciò che finora ha scritto
Mascagni. Infatti ciò che armonicamente era in germe nella Cavalleria e
nell'Amico Fritz44 di originalmente continuante alcune
delle più schiette tradizioni della semplicità e chiarezza armonica italiana,
nell'Iris prende una forma definitiva e, a suo modo, possente. Certo
l'armonizzazione totale dell'Iris è inquinata dal wagnerismo degli
episodi dei fiori, dell'aurora, del sole nell'inno al sole e quindi di
gran parte dell'ultim'atto, sebbene il wagnerismo dell'Iris sia
infinitamente più simpatico di quello dell'Amica, penetrando in esso
quasi il calore della fantasia alacre che riscalda giocondamente tutto lo
spartito. Ma l'armonia dell'episodio delle lavandare, del teatrino, di quasi
tutto il second'atto in cui rifulge la squisitezza armonica dell'aria della
piovra e, nell'ultim'atto, del brano dei cenciaioli, è preziosa quanto la
italianamente elegante armonia dell'Otello verdiano, alla quale si
ricollegano le correnti non wagneriane derivate da Beethoven, che anche
armonicamente è, come dissi già, più mediterraneo che nordico e in particolare,
la corrente schumanniana, lo Schumann essendo certo uno degli armonizzatori più
sapienti e eleganti che abbia mai avuto la musica.
Ma per un altro aspetto
l'armonia dell'Iris è importante. Ho già detto che nel Mascagni - e
dovrei dire: nella parte vitale dell'opera mascagnana - trionfa un latino
equilibrio tra il diatonismo e il cromatismo. Se non che se il cromatismo per
sua natura è, per così dire, immutabile, non potendo mai modificarsi la scala
cromatica, essendo ormai quasi direi impietrita nella tastiera degli strumenti,
il diatonismo può continuamente cangiare, potendosi a piacere - certo non ad
arbitrio - mutare nella serie cromatica dei semitoni la posizione dei toni
formanti una scala diatonica. Così se le vecchie scale diatoniche erano: do,
re, mi, fa, sol, la, si, e do,
re, mi b, fa, sol, la b, si, è
naturale che, le scale diatoniche oggi in cui l'orecchio è stato reso più
sottile ed acuto dal cromatismo, si moltiplichino in un modo prima
insospettato. In altre parole dal caotico oceano del cromatismo frenetico della
musica modernissima, sta per emergere un nuovo diatonismo, non limitato a due
scale solamente, come avvenne da Bach a Wagner, ma aperto a innumerevoli
novissime combinazioni. Il senso tonale trasformato se non perfezionato dovrà
condurre di nuovo la musica a un ordine, complesso sì, ma limpido e ben
equilibrato, contro al quale sembrano adoprarsi pazzescamente le oziose
ricerche armoniche di tanta musica modernissima. Se la vecchia determinazione
«melodia» può ancora avere un significato, non contrapposto insulsamente ad armonia,
ma da questa rampollante, è precisamente in relazione col nuovo diatonismo,
come del resto anche prima era in relazione con l'antico diatonismo; e cioè
melodia vorrà dire linea sonora passante per i toni (meglio i gradi) dei nuovi
modi diatonici emergenti dal disfacimento del cromatismo post-wagneriano.
Ora nel Mascagni il
diatonismo della Cavalleria, del Fritz e del Ratcliff appartiene
al vecchio tipo bachiano-wagneriano, mentre il diatonismo dell'Iris,
nella massima parte almeno, appartiene al novissimo o se non altro lo presente,
lo preannunzia (3° atto dell'Iris; canzone del cenciaiuolo e qua e là
per tutta l'opera). Certo in Mascagni neppur di questo bisogno è coscienza
esplicita, ma, al solito, quasi direi un sospetto, un desiderio confuso. Ma
questo fatto è veramente - a chi lo sappia scoprire e interpretare - una delle
maggiori riprove dell'italianità sebbene bastarda, del Mascagni. Che sempre è
stato questo vecchio nostro genio latino che ha precorso tutti, se non nella
risoluzione piena, almeno nell'ingenua impostatura dei più difficili problemi
estetici (e non estetici!). Non ostante la mancanza perpetua di libertà, che
come una triste ombra ancora del passato si proietta sul popolo italiano, è
sempre questo da cui partono i baleni delle nuove aurore nell'ansietà delle
tenebre invadenti. Il nuovo diatonismo45, l'ordine nel caos
cromatico, la salda base dell'intuizione musicale, il rinnovamento del senso
tonale, è forse uno dei problemi dalla cui risoluzione maggiormente dipendono
le sorti della musica europea. Chè, in verità, troppo sterili ed oziosi sono i
tentativi degli impressionisti musicali francesi, i quali oltre al
partirsi da un errore estetico; oltre al non superare affatto il wagnerismo
delle cui formule descrittive l'impressionismo è l'estrema emanazione; oltre al
trasformare in musica il contenuto morale della poesia e della pittura dei così
detti decadenti, e quindi al non rinnovare affatto il contenuto storico della loro
arte, secondo quella perpetua legge per cui i musicisti si contentano sempre
dei resti del banchetto già consumato dai despoti della cultura europea - qui
in Italia abbiamo il d'Annunzio, che comincia tardivamente a riempire di sè
anche la musica - ; non raggiungono miglior risultato e più concreto del dare
per intuizione artistica ciò che non è che inconcludente trastullo di
combinazioni armoniche, a cui venga imposto arbitrariamente un significato
descrittivo. Onde non è senza un certo orgoglio sereno che io proclamo apparire
in Mascagni i segni d'una rinascita, il presentimento d'una nuova melodicità
latina e, cioè, di un nuovo diatonismo. Se non che questo pregio, che una volta
di più si può e si deve concedere agli Italiani, e cioè quello di precorrere
per certa nazionale spontaneità del nostro genio, deve appunto procurarci un
orgoglio sereno, non fanatico e cieco: infatti io ripeterò le parole del
Foscolo: «o Italiani! qual popolo più di noi può lodarsi dei benefizi della
natura? ma chi più di noi (nè dissimulerò ciò che sembrami vero, quando
l'occasione mi comanda di palesarlo) chi più di noi trascura e profonde quei
benefizi? A che vi querelate se i germi dell'italiano sapere sono coltivati
dagli stranieri che ve li usurpano?». E, a terminare, citerò le parole d'un
altro grande italiano, Bertrando Spaventa, le quali, per essere scritte sulle
condizioni d'un'attività che gl'italiani ebbero in comune con i tedeschi - la
filosofia - ; le sorti della filosofia italiana e della tedesca essendo intrecciate
in modo analogo alle sorti della musica italiana e della tedesca; possono esser
citate tanto per la filosofia che per la musica. «Che se noi, egli scrive,
vogliamo ancora e possiamo avere un privilegio, questo è quello di precorrere
ed effettuare un più largo indirizzo... Ma ciò a un patto; e questo è di non
rigettare tutto quel che si è fatto da un gran pezzo fuori d'Italia o meglio
che in Italia, ma studiarlo, comprenderlo, appropriarcelo; e solo così, entrati
in più largo orizzonte, conosciuto meglio noi medesimi e ritemprata la nostra
vita nella perpetua corrente della vita universale, fare un gran passo innanzi
non nel vuoto, ma con la piena coscienza delle nostre forze, del nostro
compito, del compito comune». Parole che fanno fremere come una sinfonia di
Beethoven.
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