I.
Il moderno principe
[Noterelle sulla
politica del Machiavelli.] Il carattere fondamentale del Principe
è quello di non essere una trattazione sistematica ma un
libro «vivente», in cui l'ideologia politica e la scienza
politica si fondono nella forma drammatica del «mito».
Tra l'utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza
politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua
concezione la forma fantastica e artistica, per cui l'elemento
dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che
rappresenta plasticamente e «antropomorficamente» il
simbolo della «volontà collettiva». Il processo di
formazione di una determinata volontà collettiva, per un
determinato fine politico, viene rappresentato non attraverso
disquisizioni e classificazioni pedantesche di principii e criteri di
un metodo d'azione, ma come qualità, tratti caratteristici,
doveri, necessità di una concreta persona, ciò che fa
operare la fantasia artistica di chi si vuol convincere e dà
una piú concreta forma alle passioni politiche. (Sarà
da cercare negli scrittori politici precedenti al Machiavelli se
esistono scritture configurate come il Principe. Anche la
chiusa del Principe è legata a questo carattere
«mitico» del libro: dopo aver rappresentato il
condottiero ideale, il Machiavelli con un passaggio di grande
efficacia artistica, invoca il condottiero reale che storicamente lo
impersoni: questa invocazione appassionata si riflette su tutto il
libro conferendogli appunto il carattere drammatico. Nei Prolegomeni
di L. Russo il Machiavelli è detto l'artista della
politica e una volta si trova anche l'espressione «mito»,
ma non precisamente nel senso su indicato).
Il Principe del
Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione
storica del «mito» sorelliano, cioè di una
ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né
come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia
concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per
suscitarne e organizzarne la volontà collettiva. Il carattere
utopistico del Principe è nel fatto che il «principe»
non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo
italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura
astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale;
ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell'intero volumetto,
con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano
vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe, «realmente
esistente». Nell'intero volumetto Machiavelli tratta di come
deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del
nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logico,
con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si
fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo
«genericamente» inteso, ma col popolo che il Machiavelli
ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e
si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che
tutto il lavoro «logico» non sia che un'autoriflessione
del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza
popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato,
immediato. La passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa
«affetto», febbre, fanatismo d'azione. Ecco perché
l'epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di
«appiccicato» dall'esterno, di retorico, ma deve essere
spiegato come elemento necessario dell'opera, anzi come
quell'elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l'opera e ne
fa come un «manifesto politico».
Si può studiare come
il Sorel, dalla concezione dell'ideologia-mito non sia giunto alla
comprensione del partito politico, ma si sia arrestato alla
concezione del sindacato professionale. È vero che per il
Sorel il «mito» non trovava la sua espressione maggiore
nel sindacato, come organizzazione di una volontà collettiva,
ma nell'azione pratica del sindacato e di una volontà
collettiva già operante, azione pratica, la cui realizzazione
massima avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè
un'«attività passiva» per cosí dire, di
carattere cioè negativo e preliminare (il carattere positivo è
dato solo dall'accordo raggiunto nelle volontà associate) di
una attività che non prevede una propria fase «attiva e
costruttiva». Nel Sorel dunque si combattevano due necessità:
quella del mito e quella della critica del mito in quanto «ogni
piano prestabilito è utopistico e reazionario». La
soluzione era abbandonata all'impulso dell'irrazionale,
dell'«arbitrario» (nel senso bergsoniano di «impulso
vitale») ossia della «spontaneità». (Sarebbe
da notare qui una contraddizione implicita nel modo con cui il Croce
pone il suo problema di storia e antistoria con altri modi di pensare
del Croce: la sua avversione dei «partiti politici» e il
suo modo di porre la quistione della «prevedibilità»
dei fatti sociali, cfr. Conversazioni Critiche, Serie prima,
pp. 150-52, recensione del libro di Ludovico Limentani, La
previsione dei fatti sociali, Torino, Bocca, 1907; se i fatti
sociali sono imprevedibili e lo stesso concetto di previsione è
un puro suono, l'irrazionale non può non dominare e ogni
organizzazione di uomini è antistoria, è un
«pregiudizio»: non resta che risolvere volta per volta, e
con criteri immediati, i singoli problemi pratici posti dallo
svolgimento storico – cfr. articolo di Croce, Il partito
come giudizio e come pregiudizio in Cultura e Vita morale –
e l'opportunismo è la sola linea politica possibile). Può
un mito però essere «non-costruttivo», può
immaginarsi, nell'ordine di intuizioni del Sorel, che sia produttivo
di effettualità uno strumento che lascia la volontà
collettiva nella sua fase primitiva ed elementare del suo mero
formarsi, per distinzione (per «scissione») sia pure con
violenza, cioè distruggendo i rapporti morali e giuridici
esistenti? Ma questa volontà collettiva, cosí formata
elementarmente, non cesserà subito di esistere,
sparpagliandosi in una infinità di volontà singole che
per la fase positiva seguono direzioni diverse e contrastanti? Oltre
alla quistione che non può esistere distruzione, negazione
senza una implicita costruzione, affermazione, e non in senso
«metafisico», ma praticamente, cioè politicamente,
come programma di partito. In questo caso si vede che si suppone
dietro la spontaneità un puro meccanicismo, dietro la libertà
(arbitrio-slancio vitale) un massimo di determinismo, dietro
l'idealismo un materialismo assoluto.
Il moderno principe, il
mito-principe non può essere una persona reale, un individuo
concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società
complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una
volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente
nell'azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo
storico ed è il partito politico, la prima cellula in cui si
riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a
divenire universali e totali. Nel mondo moderno solo un'azione
storico-politica immediata e imminente, caratterizzata dalla
necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può
incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la rapidità
non può essere resa necessaria che da un grande pericolo
imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente
l'arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso
critico e la corrosività ironica che possono distruggere il
carattere «carismatico» del condottiero (ciò che è
avvenuto nell'avventura di Boulanger). Ma un'azione immediata di tal
genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto
respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo
restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla
fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali (come
era il caso nel Principe del Machiavelli, in cui l'aspetto di
restaurazione era solo un elemento retorico, cioè legato al
concetto letterario dell'Italia discendente di Roma e che doveva
restaurare l'ordine e la potenza di Roma), di tipo «difensivo»
e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una
volontà collettiva, già esistente, si sia snervata,
dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non
decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla, e
non già che una volontà collettiva sia da creare ex
novo, originalmente e da indirizzare verso mete concrete sí e
razionali, ma di una concretezza e razionalità non ancora
verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e
universalmente conosciuta.
Il carattere «astratto»
della concezione sorelliana del «mito» appare
dall'avversione (che assume la forma passionale di una repugnanza
etica) per i giacobini che certamente furono una «incarnazione
categorica» del Principe di Machiavelli. Il moderno Principe
deve avere una parte dedicata al giacobinismo (nel
significato integrale che questa nozione ha avuto storicamente e deve
avere concettualmente), come esemplificazione di come si sia formata
in concreto e abbia operato una volontà collettiva che almeno
per alcuni aspetti fu creazione ex novo, originale. E occorre che sia
definita la volontà collettiva e la volontà politica in
generale nel senso moderno, la volontà come coscienza operosa
della necessità storica, come protagonista di un reale ed
effettuale dramma storico.
Una delle prime parti
dovrebbe appunto essere dedicata alla «volontà
collettiva», impostando cosí la quistione: quando si può
dire che esistano le condizioni perché possa suscitarsi e
svilupparsi una volontà collettiva nazionale-popolare? Quindi
un'analisi storica (economica) della struttura sociale del paese dato
e una rappresentazione «drammatica» dei tentativi fatti
attraverso i secoli per suscitare questa volontà e le ragioni
dei successivi fallimenti. Perché in Italia non si ebbe la
monarchia assoluta al tempo di Machiavelli? Bisogna risalire fino
all'Impero Romano (questione della lingua, degli intellettuali ecc.),
comprendere la funzione dei Comuni medioevali, il significato del
Cattolicismo ecc.: occorre insomma fare uno schizzo di tutta la
storia italiana, sintetico ma esatto.
La ragione dei successivi
fallimenti dei tentativi di creare una volontà collettiva
nazionale-popolare è da ricercarsi nell'esistenza di
determinati gruppi sociali, che si formano dalla dissoluzione della
borghesia comunale, nel particolare carattere di altri gruppi che
riflettono la funzione internazionale dell'Italia come sede della
Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero ecc. Questa funzione e
la posizione conseguente determina una situazione interna che si può
chiamare «economico-corporativa», cioè,
politicamente, la peggiore delle forme di società feudale, la
forma meno progressiva e piú stagnante: mancò sempre, e
non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la
forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la
volontà collettiva nazionale-popolare e ha fondato gli Stati
moderni. Esistono finalmente le condizioni per questa volontà,
ossia quale è il rapporto attuale tra queste condizioni e le
forze opposte? Tradizionalmente le forze opposte sono state
l'aristocrazia terriera e piú generalmente la proprietà
terriera nel suo complesso, col suo tratto caratteristico italiano
che è una speciale «borghesia rurale», eredità
di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe,
della borghesia comunale (le cento città, le città del
silenzio). Le condizioni positive sono da ricercare nell'esistenza di
gruppi sociali urbani, convenientemente sviluppati nel campo della
produzione industriale e che abbiano raggiunto un determinato livello
di cultura storico-politica. Ogni formazione di volontà
collettiva nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse
dei contadini coltivatori non irrompono simultaneamente nella
vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la
riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella
Rivoluzione francese, in questa comprensione è da identificare
un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (piú o meno
fecondo) della sua concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la
storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per
impedire la formazione di una volontà collettiva di questo
genere, per mantenere il potere «economico-corporativo»
in un sistema internazionale di equilibrio passivo.
Una parte importante del
moderno Principe dovrà essere dedicata alla quistione di una
riforma intellettuale e morale, cioè alla quistione religiosa
o di una concezione del mondo. Anche in questo campo troviamo nella
tradizione assenza di giacobinismo e paura del giacobinismo (l'ultima
espressione filosofica di tale paura è l'atteggiamento
maltusiano di B. Croce verso la religione). Il moderno Principe deve
e non può non essere il banditore e l'organizzatore di una
riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare
il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva
nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e
totale di civiltà moderna.
Questi due punti
fondamentali – formazione di una volontà collettiva
nazionale-popolare di cui il moderno Principe è nello stesso
tempo l'organizzatore e l'espressione attiva e operante, e riforma
intellettuale e morale – dovrebbero costituire la struttura del
lavoro. I punti concreti di programma devono essere incorporati nella
prima parte, cioè dovrebbero «drammaticamente»,
risultare dal discorso, non essere una fredda e pedantesca
esposizione di raziocini.
Può esserci riforma
culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della
società, senza una precedente riforma economica e un mutamento
nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una
riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un
programma di riforma economica, anzi il programma di riforma
economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni
riforma intellettuale e morale. Il moderno Principe, sviluppandosi,
sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in
quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene
concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in
quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e
serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe
prende il posto, nelle coscienze, della divinità o
dell'imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e
di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti
di costume.
Oltre che dal modello
esemplare delle grandi monarchie assolute di Francia e Spagna, il
Machiavelli fu mosso alla sua concezione politica della necessità
di uno Stato unitario italiano dal ricordo del passato di Roma.
Occorre far risaltare però che non perciò il
Machiavelli è da confondere con la tradizione
letteraria-retorica. Intanto perché questo elemento non è
esclusivo e neanche dominante, e la necessità di un grande
Stato nazionale non è dedotta da esso; e poi anche perché
lo stesso richiamo a Roma è meno astratto di quanto paia, se
collocato puntualmente nel clima dell'Umanesimo e del Rinascimento.
Nel libro VII dell'Arte della guerra si legge: «questa
provincia (l'Italia) pare nata per risuscitare le cose morte, come si
è visto della poesia, della pittura e della scultura»,
perché dunque non ritroverebbe la virtú militare? ecc.
Saranno da raggruppare gli altri accenni del genere per stabilirne
l'esatto carattere.
[La scienza della
politica.] La innovazione fondamentale introdotta dalla filosofia
della praxis nella scienza della politica e della storia è la
dimostrazione che non esiste una astratta «natura umana»
fissa e immutabile (concetto che deriva certo dal pensiero religioso
e dalla trascendenza) ma che la natura umana è l'insieme dei
rapporti sociali storicamente determinati, cioè un fatto
storico accertabile, entro certi limiti, coi metodi della filologia e
della critica. Pertanto la scienza politica deve essere concepita nel
suo contenuto concreto (e anche nella sua formulazione logica) come
un organismo in sviluppo. È da osservare tuttavia che
l'impostazione data dal Machiavelli alla quistione della politica (e
cioè l'affermazione implicita nei suoi scritti che la politica
è una attività autonoma che [ha] suoi principii e leggi
diversi da quelli della morale e della religione, proposizione che ha
una grande portata filosofica perché implicitamente innova la
concezione della morale e della religione, cioè innova tutta
la concezione del mondo) è ancora discussa e contraddetta
oggi, non è riuscita a diventare «senso comune».
Cosa significa ciò? Significa solo che la rivoluzione
intellettuale e morale i cui elementi sono contenuti in nuce nel
pensiero del Machiavelli non si è ancora attuata, non è
diventata forma pubblica e manifesta della cultura nazionale? Oppure
ha un mero significato politico attuale, serve a indicare il distacco
esistente tra governanti e governati, a indicare che esistono due
colture, quella dei governanti e quella dei governati, e che la
classe dirigente, come la Chiesa, ha un suo atteggiamento verso i
semplici dettato dalla necessità di non staccarsi da loro da
una parte, e dall'altra di mantenerli nella convinzione che il
Machiavelli è niente altro che un'apparizione diabolica? Si
pone cosí il problema del significato che il Machiavelli ha
avuto nel tempo suo e dei fini che egli si proponeva scrivendo i suoi
libri e specialmente il Principe. La dottrina del Machiavelli
non era, al tempo suo, una cosa puramente «libresca», un
monopolio di pensatori isolati, un libro segreto che circola tra
iniziati. Lo stile del Machiavelli non è quello di un
trattatista sistematico, come ne avevano e il Medio Evo e
l'Umanesimo, tutt'altro: è stile di uomo d'azione, di chi
vuole spingere all'azione, è stile da «manifesto»
di partito. L'interpretazione «moralistica» data dal
Foscolo è certo sbagliata, tuttavia è vero che il
Machiavelli ha svelato qualcosa e non solo teorizzato il
reale; ma quale era il fine dello svelare? Un fine moralistico o
politico? Si suol dire che le norme del Machiavelli per l'attività
politica «si applicano, ma non si dicono»; i grandi
politici, si dice, cominciano con maledire Machiavelli, col
dichiararsi antimachiavellici, appunto per poterne applicare le norme
«santamente». Non sarebbe stato il Machiavelli poco
machiavellico, uno di quelli che «sanno il gioco» e
stoltamente lo insegnano, mentre il machiavellismo volgare insegna a
fare il contrario? L'affermazione del Croce che essendo il
machiavellismo una scienza, serve tanto ai reazionari quanto ai
democratici, come l'arte della scherma serve ai gentiluomini e ai
briganti, a difendersi e ad assassinare, e che in tal senso occorre
intendere il giudizio del Foscolo, è vera astrattamente. Il
Machiavelli stesso nota che le cose che egli scrive sono applicate e
sono sempre state applicate dai piú grandi uomini della
storia; non pare perciò che egli voglia suggerire a chi già
sa, né il suo stile è quello di una disinteressata
attività scientifica (cfr. in una delle pagine precedenti
quanto è scritto a proposito del significato dell'invocazione
finale del Principe e dell'ufficio che essa può
compiere per riguardo all'intera operetta), né può
pensarsi che egli sia giunto alle sue tesi di scienza politica per
via di speculazione filosofica, ciò che in questa materia
particolare avrebbe un po' del miracoloso al tempo suo, se anche oggi
trova tanto contrasto e opposizione. Si può quindi supporre
che il Machiavelli abbia in vista «chi non sa», che egli
intenda fare l'educazione politica di «chi non sa»,
educazione politica non negativa, di odiatori di tiranni, come
parrebbe intendere il Foscolo, ma positiva, di chi deve riconoscere
necessari determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché
vuole determinati fini. Chi è nato nella tradizione degli
uomini di governo, per tutto il complesso dell'educazione che assorbe
dall'ambiente famigliare, in cui predominano gli interessi dinastici
o patrimoniali, acquista quasi automaticamente i caratteri del
politico realista. Chi dunque «non sa»? La classe
rivoluzionaria del tempo, il «popolo» e la «nazione»
italiana, la democrazia cittadina che esprime dal suo seno i
Savonarola e i Pier Soderini e non i Castruccio e i Valentino. Si può
ritenere che il Machiavelli voglia persuadere queste forze della
necessità di avere un «capo» che sappia ciò
che vuole e come ottenere ciò che vuole, e di accettarlo con
entusiasmo anche se le sue azioni possono essere o parere in
contrasto con l'ideologia diffusa del tempo, la religione.
Questa posizione della
politica del Machiavelli si ripete per la filosofia della praxis: si
ripete la necessità di essere «antimachiavellici»,
sviluppando una teoria e una tecnica della politica che possono
servire alle due parti in lotta, quantunque esse si pensa finiranno
col servire specialmente alla parte che «non sapeva»,
perché in essa è ritenuta esistere la forza progressiva
della storia e infatti si ottiene subito un risultato: di spezzare
l'unità basata sull'ideologia tradizionale, senza la cui
rottura la forza nuova non potrebbe acquistare coscienza della
propria personalità indipendente. Il machiavellismo è
servito a migliorare la tecnica politica tradizionale dei gruppi
dirigenti conservatori, cosí come la politica della filosofia
della praxis; ciò non deve mascherare il suo carattere
essenzialmente rivoluzionario, che è sentito anche oggi e
spiega tutto l'antimachiavellismo, da quello dei gesuiti a quello
pietistico di P. Villari.
[La politica come
scienza autonoma.] La quistione iniziale da porre e da risolvere
in una trattazione sul Machiavelli è la quistione della
politica come scienza autonoma, cioè del posto che la scienza
politica occupa o deve occupare in una concezione del mondo
sistematica (coerente e conseguente) – in una filosofia della
praxis –. Il progresso fatto fare dal Croce, a questo
proposito, agli studi sul Machiavelli e sulla scienza politica,
consiste precipuamente (come in altri campi dell'attività
critica crociana) nella dissoluzione di una serie di problemi falsi,
inesistenti o male impostati. Il Croce si è fondato sulla sua
distinzione dei momenti dello Spirito e sull'affermazione di un
momento della pratica, di uno spirito pratico, autonomo e
indipendente, sebbene legato circolarmente all'intera realtà
per la dialettica dei distinti. In una filosofia della prassi la
distinzione non sarà certo tra i momenti dello Spirito
assoluto, ma tra i gradi della soprastruttura e si tratterà
pertanto di stabilire la posizione dialettica dell'attività
politica (e della scienza corrispondente) come determinato grado
superstrutturale: si potrà dire, come primo accenno e
approssimazione, che l'attività politica è appunto il
primo momento o primo grado, il momento in cui la superstruttura è
ancora nella fase immediata di mera affermazione volontaria,
indistinta ed elementare.
In che senso si può
identificare la politica e la storia e quindi tutta la vita e la
politica. Come perciò tutto il sistema delle superstrutture
possa concepirsi come distinzioni della politica e quindi si
giustifichi l'introduzione del concetto di distinzione in una
filosofia della prassi. Ma si può parlare di dialettica dei
distinti e come si può intendere il concetto di circolo fra i
gradi della superstruttura? Concetto di «blocco storico»,
cioè unità tra la natura e lo spirito (struttura e
superstruttura) unità dei contrari e dei distinti.
Il criterio di distinzione
si può introdurre anche nella struttura? Come sarà da
intendere la struttura: come nel sistema dei rapporti sociali si
potrà distinguere l'elemento «tecnica», «lavoro»,
«classe» ecc. intesi storicamente e non
«metafisicamente». Critica della posizione del Croce per
cui, ai fini della polemica, la struttura diventa un «dio
ascoso», un «noumeno», in contrapposizione alle
«apparenze» della superstruttura. «Apparenze»
in senso metaforico e in senso positivo. Perché «storicamente»
e come linguaggio si è parlato di «apparenze».
È interessante
fissare come il Croce, da questa concezione generale, abbia tratto la
sua particolare dottrina dell'errore e della origine pratica
dell'errore. Per il Croce l'errore ha origine in una «passione»
immediata, cioè di carattere individuale o di gruppo; ma che
cosa produrrà la «passione» di portata storica piú
vasta, la passione come «categoria»? La passione
interesse immediato che è origine dell'«errore» è
il momento che nelle Glosse al Feuerbach viene chiamato
«schmutzig-jüdisch»: ma come la passione-interesse
«schmutzig-jüdisch» determina l'errore immediato,
cosí la passione del piú vasto gruppo sociale determina
l'«errore» filosofico (intermedio l'errore-ideologia, di
cui il Croce tratta a parte): l'importante in questa serie: egoismo
(errore immediato) - ideologia - filosofia è il termine comune
«errore» legato ai diversi gradi di passione, e che sarà
da intendere non nel significato moralistico o dottrinario ma nel
senso puramente «storico» e dialettico di «ciò
che è storicamente caduco e degno di cadere», nel senso
della «non definitività» di ogni filosofia, della
«morte-vita», «essere-non essere», cioè
del termine dialettico da superare nello svolgimento.
Il termine di «apparente»,
«apparenza», significa proprio questo e niente altro che
questo ed è da giustificare contro il dogmatismo: è
l'affermazione della caducità di ogni sistema ideologico,
accanto all'affermazione di una validità storica di ogni
sistema, e di una necessità di esso («nel terreno
ideologico l'uomo acquista coscienza dei rapporti sociali»:
dire ciò non è affermare la necessità e la
validità delle «apparenze»?)
La concezione del Croce,
della politica-passione, esclude i partiti, perché non si può
pensare a una «passione» organizzata e permanente: la
passione permanente è una condizione di orgasmo e di spasimo,
che determina inettitudine all'operare. Esclude i partiti ed esclude
ogni «piano» d'azione concertato preventivamente.
Tuttavia i partiti esistono e piani d'azione vengono elaborati,
applicati, e spesso realizzati in misura notevolissima; c'è
adunque nella concezione del Croce un «vizio». Né
vale dire che se i partiti esistono, ciò non ha grande
importanza «teorica», perché al momento
dell'azione il «partito» che opera non è la stessa
cosa del partito che esisteva prima; in parte ciò può
esser vero, tuttavia tra i due «partiti» le coincidenze
sono tante che in realtà si può dire trattarsi dello
stesso organismo. Ma la concezione, per esser valida, dovrebbe
potersi applicare anche alla «guerra» e quindi spiegare
il fatto degli eserciti permanenti, delle accademie militari, dei
corpi di ufficiali. Anche la guerra in atto è «passione»,
la piú intensa e febbrile, è un momento della vita
politica, è la continuazione, in altre forme, di una
determinata politica; bisogna dunque spiegare come la «passione»
possa diventare «dovere» morale e non dovere di morale
politica, ma di etica.
Sui «piani politici»
che sono connessi ai partiti come formazioni permanenti, ricordare
ciò che Moltke diceva dei piani militari; che essi non possono
essere elaborati e fissati in precedenza in tutti i loro dettagli, ma
solo nel loro nucleo e disegno centrale, perché le
particolarità dell'azione dipendono in una certa misura dalle
mosse dell'avversario. La passione si manifesta appunto nei
particolari, ma non pare che il principio di Moltke sia tale da
giustificare la concezione del Croce: rimarrebbe in ogni caso da
spiegare il genere di «passione» dello Stato Maggiore che
ha elaborato il piano a mente fredda e «spassionatamente».
Se il concetto crociano della passione come momento della politica
si urta nella difficoltà di spiegare e giustificare le
formazioni politiche permanenti come i partiti e ancor piú gli
eserciti nazionali e gli Stati maggiori, poiché non si può
concepire una passione organizzata permanentemente senza che essa
diventi razionalità e riflessione ponderata, cioè non
piú passione, la soluzione non può trovarsi se non
nella identificazione di politica ed economia; la politica è
azione permanente e dà nascita a organizzazioni permanenti in
quanto appunto si identifica con l'economia. Ma essa anche se ne
distingue e perciò può parlarsi separatamente di
economia e di politica e può parlarsi di «passione
politica» come di impulso immediato all'azione che nasce sul
terreno «permanente e organico» della vita economica, ma
lo supera, facendo entrare in gioco sentimenti e aspirazioni nella
cui atmosfera incandescente lo stesso calcolo della vita umana
individuale ubbidisce a leggi diverse da quelle del tornaconto
individuale ecc.
Accanto ai meriti della
moderna «machiavellistica» derivata dal Croce, occorre
segnalare anche le «esagerazioni» e le deviazioni cui ha
dato luogo. Si è formata l'abitudine di considerare troppo il
Machiavelli come il «politico in generale», come lo
«scienziato della politica», attuale in tutti i tempi.
Bisogna considerare maggiormente il Machiavelli come espressione
necessaria del suo tempo e come strettamente legato alle condizioni e
alle esigenze del tempo suo che risultano: 1) dalle lotte interne
della repubblica fiorentina e dalla particolare struttura dello Stato
che non sapeva liberarsi dai residui comunali-municipali, cioè
da una forma divenuta inceppante di feudalismo; 2) dalle lotte tra
gli Stati italiani per un equilibrio nell'ambito italiano, che era
ostacolato dall'esistenza del papato e dagli altri residui feudali,
municipalistici della forma statale cittadina e non territoriale; 3)
dalle lotte degli Stati italiani piú o meno solidali per un
equilibrio europeo, ossia dalle contraddizioni tra le necessità
di un equilibrio interno italiano e le esigenze degli Stati europei
in lotta per l'egemonia. Su Machiavelli opera l'esempio della Francia
e della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale
territoriale; il Machiavelli fa un «paragone ellittico»
(per usare l'espressione crociana) e desume le regole per uno Stato
forte in generale e italiano in particolare. Machiavelli è
uomo tutto della sua epoca e la sua scienza politica rappresenta la
filosofia del tempo che tende all'organizzazione delle monarchie
nazionali assolute, la forma politica che permette e facilita un
ulteriore sviluppo delle forze produttive borghesi. In Machiavelli si
può scoprire in nuce la separazione dei poteri e il
parlamentarismo (il regime rappresentativo): la sua «ferocia»
è rivolta contro i residui del mondo feudale, non contro le
classi progressive. Il Principe deve porre termine all'anarchia
feudale e ciò fa il Valentino in Romagna, appoggiandosi sulle
classi produttive, mercanti e contadini. Dato il carattere
militare-dittatoriale del capo dello Stato, come si richiede in un
periodo di lotta per la fondazione e il consolidamento di un nuovo
potere, l'indicazione di classe contenuta nell'Arte della guerra
si deve intendere anche per la struttura generale statale: se le
classi urbane vogliono porre fine al disordine interno e all'anarchia
esterna devono appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una
forza armata sicura e fedele di tipo assolutamente diverso dalle
compagnie di ventura. Si può dire che la concezione
essenzialmente politica è cosí dominante nel
Machiavelli che gli fa commettere gli errori di carattere militare:
egli pensa specialmente alle fanterie, le cui masse possono essere
arruolate con un'azione politica e perciò misconosce il
significato dell'artiglieria. Il Russo (nei Prolegomeni a
Machiavelli) nota giustamente che l'Arte della guerra integra
il Principe, ma non trae tutte le conclusioni della sua
osservazione. Anche nell'Arte della guerra il Machiavelli deve
essere considerato come un politico che deve occuparsi di arte
militare; il suo unilateralismo (con altre «curiosità»
come la teoria della falange, che danno luogo a facili spiritosaggini
come quella piú diffusa ricavata dal Bandello) è
dipendente dal fatto che non nella quistione tecnico-militare è
il centro del suo interesse e del suo pensiero, ma egli ne tratta
solo in quanto è necessario per la sua costruzione politica.
Ma non solo l'Arte della
guerra deve essere connessa al Principe, sibbene anche le
Istorie fiorentine, che devono servire appunto come un'analisi
delle condizioni reali italiane ed europee da cui scaturiscono le
esigenze immediate contenute nel Principe.
Da una concezione del
Machiavelli piú aderente ai tempi deriva subordinatamente una
valutazione piú storicistica dei cosí detti
«antimachiavellici», o almeno dei piú «ingenui»
tra essi. Non si tratta, in realtà, di antimachiavellici, ma
di politici che esprimono esigenze del tempo loro o di condizioni
diverse da quelle che operavano sul Machiavelli; la forma polemica è
pura accidentalità letteraria. L'esempio tipico di questi
«antimachiavellici» mi pare da ricercare in Jean Bodin
(1530-96) che fu deputato agli Stati Generali di Blois del 1576 e vi
fece rifiutare dal Terzo Stato i sussidi domandati per la guerra
civile. (Opere del Bodin: Methodus ad facilem historiarum
cognitionem (1566) dove indica l'influenza del clima sulla forma
degli Stati, accenna a un'idea di progresso, ecc.; La Republique
(1576) dove esprime le opinioni del Terzo Stato sulla monarchia
assoluta e i suoi rapporti col popolo; Hentaplomores (inedito
fino all'epoca moderna) in cui confronta tutte le religioni e le
giustifica come espressioni diverse della religione naturale, sola
ragionevole, e tutte egualmente degne di rispetto e di tolleranza).
Durante le guerre civili in
Francia, il Bodin è l'esponente del terzo partito, detto dei
«politici», che si pone dal punto di vista dell'interesse
nazionale, cioè di un equilibrio interno delle classi in cui
l'egemonia appartiene al Terzo Stato attraverso il Monarca. Mi pare
evidente che classificare il Bodin fra gli «antimachiavellici»
sia quistione assolutamente estrinseca e superficiale. Il Bodin fonda
la scienza politica in Francia in un terreno molto piú
avanzato e complesso di quello che l'Italia aveva offerto al
Machiavelli. Per il Bodin non si tratta di fondare lo Stato
unitario-territoriale (nazionale) cioè di ritornare all'epoca
di Luigi XI, ma di equilibrare le forze sociali in lotta nell'interno
di questo Stato già forte e radicato; non il momento della
forza interessa il Bodin, ma quello del consenso. Col Bodin si tende
a sviluppare la monarchia assoluta: il Terzo Stato è talmente
cosciente della sua forza e della sua dignità, conosce cosí
bene che la fortuna della Monarchia assoluta è legata alla
propria fortuna e al proprio sviluppo, che pone delle condizioni
per il suo consenso, presenta delle esigenze, tende a limitare
l'assolutismo. In Francia il Machiavelli serviva già alla
reazione, perché poteva servire a giustificare che si
mantenesse perpetuamente il mondo in «culla» (secondo
l'espressione di Bertrando Spaventa), quindi bisognava essere
«polemicamente» antimachiavellici. È da notare che
nell'Italia studiata dal Machiavelli non esistevano istituzioni
rappresentative già sviluppate e significative per la vita
nazionale come quelle degli Stati Generali in Francia. Quando
modernamente si osserva tendenziosamente che le istituzioni
parlamentari in Italia sono state importate dall'estero, non si tiene
conto che ciò riflette solo una condizione di arretratezza e
di stagnazione della storia italiana politica sociale dal '500 al
'700, condizione che era dovuta in gran parte alla preponderanza dei
rapporti internazionali su quelli interni, paralizzati e assiderati.
Che la struttura statale italiana, per le preponderanze straniere,
sia rimasta alla fase semifeudale di un oggetto di «suzeraineté»
straniera, è forse «originalità» nazionale
distrutta dall'importazione delle forme parlamentari che invece danno
una forma al processo di liberazione nazionale? e al passaggio allo
Stato territoriale moderno (indipendente e nazionale)? Del resto
istituzioni rappresentative sono esistite, specialmente nel
Mezzogiorno e in Sicilia, ma con carattere molto piú ristretto
che in Francia, per il poco sviluppo in queste regioni del Terzo
Stato, cosa per cui i Parlamenti erano strumenti per mantenere
l'anarchia dei baroni contro i tentativi innovatori della monarchia,
che doveva appoggiarsi ai «lazzari» in assenza di una
borghesia. Ricordare lo studio di Antonio Panella sugli
Antimachiavellici pubblicato nel «Marzocco» del
1927 (o anche '26? in undici articoli): vedere come vi è
giudicato il Bodin in confronto al Machiavelli e come [è]
posto in generale il problema dell'antimachiavellismo.
Che il programma o la
tendenza di collegare la città alla campagna potesse avere nel
Machiavelli solo un'espressione militare si capisce riflettendo che
il giacobinismo francese sarebbe inesplicabile senza il presupposto
della cultura fisiocratica, con la sua dimostrazione dell'importanza
economica e sociale del coltivatore diretto. Le teorie economiche del
Machiavelli sono state studiate da Gino Arias (negli «Annali
d'Economia» dell'Università Bocconi) ma è da
domandarsi se il Machiavelli abbia avuto teorie economiche: si
tratterà di vedere se il linguaggio essenzialmente politico
del Machiavelli può tradursi in termini economici e a quale
sistema economico possa ridursi. Vedere se il Machiavelli che viveva
nel periodo mercantilista abbia politicamente preceduto i tempi e
anticipato qualche esigenza che ha poi trovato espressione nei
fisiocratici.
Anche Rousseau sarebbe
stato possibile senza la cultura fisiocratica? Non mi pare giusto
affermare che i fisiocratici abbiano rappresentato meri interessi
agricoli e che solo con l'economia classica si affermino gli
interessi del capitalismo urbano. I fisiocratici rappresentano la
rottura col mercantilismo e col regime delle corporazioni e sono una
fase per giungere all'economia classica, ma mi pare appunto per ciò
che essi rappresentino una società avvenire ben piú
complessa di quella contro cui combattono e anche di quella che
risulta immediatamente dalle loro affermazioni: il loro linguaggio è
troppo legato al tempo ed esprime il contrasto immediato tra città
e campagna, ma lascia prevedere un allargamento del capitalismo
all'agricoltura. La formula del lasciar fare lasciar passare, cioè
della libertà industriale e d'iniziativa, non è certo
legata a interessi agrari.
Elementi di politica.
Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i
primi elementi, le cose piú elementari; d'altronde, essi,
ripetendosi infinite volte, diventano i pilastri della politica e di
qualsivoglia azione collettiva. Primo elemento è che esistono
davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza
e l'arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile
(in certe condizioni generali). Le origini di questo fatto sono un
problema a sé, che dovrà essere studiato a sé
(per lo meno potrà e dovrà essere studiato come
attenuare e far sparire il fatto, mutando certe condizioni
identificabili come operose in questo senso), ma rimane il fatto che
esistono dirigenti e diretti, governanti e governati. Dato questo
fatto sarà da vedere come si può dirigere nel modo piú
efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo
migliore i dirigenti (e in questo piú precisamente consiste la
prima sezione della scienza e arte politica), e come d'altra parte si
conoscono le linee di minore resistenza o razionali per avere
l'obbedienza dei diretti o governati.
Nel formare i dirigenti è
fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e
governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la
necessità dell'esistenza di questa divisione sparisca? cioè
si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o
si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe
condizioni? Occorre tener chiaro tuttavia che la divisione di
governati e governanti, seppure in ultima analisi risalga a una
divisione di gruppi sociali, tuttavia esiste, date le cose cosí
come sono, anche nel seno dello stesso gruppo, anche socialmente
omogeneo; in un certo senso si può dire che essa divisione è
una creazione della divisione del lavoro, è un fatto tecnico.
Su questa coesistenza di motivi speculano coloro che vedono in tutto
solo «tecnica», necessità «tecnica»
ecc. per non proporsi il problema fondamentale.
Dato che anche nello stesso
gruppo esiste la divisione tra governanti e governati, occorre
fissare alcuni principii inderogabili, ed è anzi su questo
terreno che avvengono gli «errori» piú gravi, che
cioè si manifestano le incapacità piú criminali,
ma piú difficili a raddrizzare. Si crede che essendo posto il
principio dallo stesso gruppo, l'obbedienza debba essere automatica,
debba avvenire senza bisogno di una dimostrazione di «necessità»
e razionalità non solo, ma sia indiscutibile (qualcuno pensa
e, ciò che è peggio, opera secondo questo pensiero, che
l'obbedienza «verrà» senza essere domandata, senza
che la via da seguire sia indicata). Cosí è difficile
estirpare dai dirigenti il «cadornismo», cioè la
persuasione che una cosa sarà fatta perché il dirigente
ritiene giusto e razionale che sia fatta: se non viene fatta, «la
colpa» viene riversata su chi «avrebbe dovuto» ecc.
Cosí è difficile estirpare la abitudine criminale di
trascurare di evitare i sacrifizi inutili. Eppure il senso comune
mostra che la maggior parte dei disastri collettivi (politici)
avvengono perché non si è cercato di evitare il
sacrifizio inutile, o si è mostrato di non tener conto del
sacrifizio altrui e si è giocato con la pelle altrui. Ognuno
ha sentito raccontare da ufficiali del fronte come realmente i
soldati arrischiassero la vita quando ciò era necessario, ma
come invece si ribellassero quando si vedevano trascurati. Per
esempio: una compagnia era capace di digiunare molti giorni perché
vedeva che i viveri non potevano giungere per forza maggiore, ma si
ammutinava se un pasto solo era saltato per la trascuratezza o il
burocratismo ecc.
Questo principio si estende
a tutte le azioni che domandano sacrifizio. Per cui sempre, dopo ogni
rovescio, occorre prima di tutto ricercare le responsabilità
dei dirigenti e ciò in senso stretto (per esempio: un fronte è
costituito di piú sezioni e ogni sezione ha i suoi dirigenti:
è possibile che di una sconfitta siano piú responsabili
i dirigenti di una sezione che di un'altra, ma si tratta di piú
e meno, non di esclusione di responsabilità per alcuno, mai).
Posto il principio che
esistono diretti e dirigenti, governati e governanti, è vero
che i partiti sono finora il modo piú adeguato per elaborare i
dirigenti e la capacità di direzione (i «partiti»
possono presentarsi sotto i nomi piú diversi, anche quello di
anti-partito e di «negazione dei partiti»; in realtà
anche i cosí detti «individualisti» sono uomini di
partito, solo che vorrebbero essere «capipartito» per
grazia di dio o dell'imbecillità di chi li segue).
Svolgimento del concetto
generale che è contenuto nell'espressione «spirito
statale». Questa espressione ha un significato ben preciso,
storicamente determinato. Ma si pone il problema: esiste qualcosa [di
simile] a ciò che si chiama «spirito statale» in
ogni movimento serio, cioè che non sia l'espressione
arbitraria di individualismi, piú o meno giustificati? Intanto
lo «spirito statale» presuppone la «continuità»
sia verso il passato, ossia verso la tradizione, sia verso
l'avvenire, cioè presuppone che ogni atto sia il momento di un
processo complesso, che è già iniziato e che
continuerà. La responsabilità di questo processo, di
essere attori di questo processo, di essere solidali con forze
«ignote» materialmente, ma che pur si sentono operanti e
attive e di cui si tiene conto, come se fossero «materiali»
e presenti corporalmente, si chiama appunto in certi casi «spirito
statale». È evidente che tale coscienza della «durata»
deve essere concreta e non astratta, cioè, in certo senso, non
deve oltrepassare certi limiti; mettiamo che i piú piccoli
limiti siano una generazione precedente e una generazione futura, ciò
che non è dir poco, poiché le generazioni si conteranno
per ognuna non trenta anni prima e trenta anni dopo di oggi, ma
organicamente, in senso storico, ciò che per il passato almeno
è facile da comprendere: ci sentiamo solidali con gli uomini
che oggi sono vecchissimi e che per noi rappresentano il «passato»
che ancora vive fra noi, che occorre conoscere, con cui occorre fare
i conti, che è uno degli elementi del presente e delle
premesse del futuro. E coi bambini, con le generazioni nascenti e
crescenti, di cui siamo responsabili. (Altro è il «culto»
della «tradizione» che ha un valore tendenzioso, implica
una scelta e un fine determinato, cioè è a base di una
ideologia). Eppure, se si può dire che uno «spirito
statale» cosí inteso è in tutti, occorre volta a
volta combattere contro deformazioni di esso e deviazioni da esso.
«Il gesto per il gesto», la lotta per la lotta ecc. e
specialmente l'individualismo gretto e piccino, che poi è un
capriccioso soddisfare impulsi momentanei ecc. (In realtà il
punto è sempre quello dell'«apoliticismo» italiano
che assume queste varie forme pittoresche e bizzarre).
L'individualismo è
solo apoliticismo animalesco; il settarismo è «apoliticismo»
e se [ben] si osserva, infatti, il settarismo è una forma di
«clientela» personale, mentre manca lo spirito di
partito, che è l'elemento fondamentale dello «spirito
statale». La dimostrazione che lo spirito di partito è
l'elemento fondamentale dello spirito statale è uno degli
assunti piú cospicui da sostenere e di maggiore importanza; e
viceversa che l'«individualismo» è un elemento
animalesco, «ammirato dai forestieri» come gli atti degli
abitanti di un giardino zoologico.
[Il partito politico.]
Continua del «Nuovo Principe». Si è detto che
protagonista del Nuovo Principe non potrebbe essere nell'epoca
moderna un eroe personale, ma il partito politico, cioè volta
per volta e nei diversi rapporti interni delle diverse nazioni, quel
determinato partito che intende (ed è razionalmente e
storicamente fondato a questo fine) fondare un nuovo tipo di Stato. È
da osservare come nei regimi che si pongono come totalitari, la
funzione tradizionale dell'istituto della corona è in realtà
assunta dal partito determinato, che anzi è totalitario
appunto perché assolve a tale funzione. Sebbene ogni partito
sia espressione di un gruppo sociale, e di un solo gruppo sociale,
tuttavia determinati partiti appunto rappresentano un solo gruppo
sociale, in certe condizioni date, in quanto esercitano una funzione
di equilibrio e di arbitrato tra gli interessi del proprio gruppo e
gli altri gruppi, e procurano che lo sviluppo del gruppo
rappresentato avvenga col consenso e con l'aiuto dei gruppi alleati,
se non addirittura dei gruppi decisamente avversari. La formula
costituzionale del re o del presidente di repubblica che «regna
e non governa» è la formula giuridica che esprime questa
funzione di arbitrato; la preoccupazione dei partiti costituzionali
di non «scoprire» la corona o il presidente, le formule
sulla non responsabilità, per gli atti governativi, del capo
dello Stato, ma sulla responsabilità ministeriale, sono la
casistica del principio generale di tutela della concezione
dell'unità statale, del consenso dei governati all'azione
statale, qualunque sia il personale immediato di governo e il suo
partito.
Col partito totalitario
queste formule perdono di significato e sono quindi diminuite le
istituzioni che funzionavano nel senso di tali formule; ma la
funzione stessa è incorporata dal partito, che esalterà
il concetto astratto di «Stato» e cercherà con
vari modi di dare l'impressione che la funzione «di forza
imparziale» è attiva ed efficace.
È l'azione politica
(in senso stretto) necessaria perché si possa parlare di
«partito politico»? Si può osservare che nel mondo
moderno in molti paesi i partiti organici e fondamentali, per
necessità di lotta o per altra causa, si sono frazionati in
frazioni, ognuna delle quali assume il nome di Partito e anche di
Partito indipendente. Spesso perciò lo Stato Maggiore
intellettuale del Partito organico non appartiene a nessuna di tali
frazioni ma opera come se fosse una forza direttrice a sé
stante, superiore ai partiti e talvolta è anche creduto tale
dal pubblico. Questa funzione si può studiare con maggiore
precisione se si parte dal punto di vista che un giornale (o un
gruppo di giornali), una rivista (o un gruppo di riviste), sono
anch'essi «partiti» o «frazioni di partito» o
«funzione di determinati partiti». Si pensi alla funzione
del «Times» in Inghilterra, a quella che ebbe il
«Corriere della Sera» in Italia, e anche alla funzione
della cosí detta «stampa d'informazione»,
sedicente «apolitica», e perfino alla stampa sportiva e a
quella tecnica. Del resto il fenomeno offre aspetti interessanti nei
paesi dove esiste un partito unico e totalitario di Governo: perché
tale Partito non ha piú funzioni schiettamente politiche ma
solo tecniche di propaganda, di polizia, di influsso morale e
culturale. La funzione politica è indiretta: poiché se
non esistono altri partiti legali, esistono sempre altri partiti di
fatto o tendenze incoercibili legalmente, contro i quali si polemizza
e si lotta come in una partita di mosca cieca. In ogni caso è
certo che in tali partiti le funzioni culturali predominano, dando
luogo a un linguaggio politico di gergo: cioè le quistioni
politiche si rivestono di forme culturali e come tali diventano
irrisolvibili.
Ma un partito tradizionale
ha un carattere essenziale «indiretto», cioè si
presenta esplicitamente come puramente «educativo» (lucus
ecc.), moralistico, di cultura (sic): ed è il movimento
libertario: anche la cosidetta azione diretta («terroristica»)
è concepita come «propaganda» con l'esempio: da
ciò si può ancora rafforzare il giudizio che il
movimento libertario non è autonomo, ma vive al margine degli
altri partiti, «per educarli», e si può parlare di
un «libertarismo» inerente a ogni partito organico. (Cosa
sono i «libertari intellettuali o cerebrali» se non un
aspetto di tale «marginalismo» nei riguardi dei grandi
partiti dei gruppi sociali dominanti?) La stessa «setta degli
economisti» era un aspetto storico di questo fenomeno.
Si presentano pertanto due
forme di «partito» che pare faccia astrazione (come tale)
dall'azione politica immediata: quello costituito da una élite
di uomini di cultura, che hanno la funzione di dirigere dal punto di
vista della cultura, dell'ideologia generale, un grande movimento di
partiti affini (che sono in realtà frazioni di uno stesso
partito organico) e, nel periodo piú recente, partito non di
élite, ma di masse, che come masse non hanno altra funzione
politica che quella di una fedeltà generica, di tipo militare,
a un centro politico visibile o invisibile (spesso il centro visibile
è il meccanismo di comando di forze che non desiderano
mostrarsi in piena luce ma operare solo indirettamente per interposta
persona e per «interposta ideologia»). La massa è
semplicemente di «manovra» e viene «occupata»
con prediche morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici di
attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e
miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate.
Sul concetto di partito
politico. Quando si vuol scrivere la storia di un partito
politico, in realtà occorre affrontare tutta una serie di
problemi molto meno semplici di quanto creda, per es., Roberto
Michels che pure è ritenuto uno specialista in materia. Cosa
sarà la storia di un partito? Sarà la mera narrazione
della vita interna di una organizzazione politica? come essa nasce, i
primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche
attraverso cui si forma il suo programma e la sua concezione del
mondo e della vita? Si tratterebbe in tal caso, della storia di
ristretti gruppi intellettuali e talvolta della biografia politica di
una singola individualità. La cornice del quadro dovrà,
adunque, essere piú vasta e comprensiva. Si dovrà fare
la storia di una determinata massa di uomini che avrà seguito
i promotori, li avrà sorretti con la sua fiducia, con la sua
lealtà, con la sua disciplina o li avrà criticati
«realisticamente» disperdendosi o rimanendo passiva di
fronte a talune iniziative. Ma questa massa sarà costituita
solo dagli aderenti al partito? Sarà sufficiente seguire i
congressi, le votazioni, ecc., cioè tutto l'insieme di
attività e di modi di esistenza con cui una massa di partito
manifesta la sua volontà? Evidentemente occorrerà tener
conto del gruppo sociale di cui il partito dato è espressione
e parte piú avanzata: la storia di un partito, cioè,
non potrà non essere la storia di un determinato gruppo
sociale. Ma questo gruppo non è isolato; ha amici, affini,
avversari, nemici. Solo dal complesso quadro di tutto l'insieme
sociale e statale (e spesso anche con interferenze internazionali)
risulterà la storia di un determinato partito, per cui si può
dire che scrivere la storia di un partito significa niente altro che
scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista
monografico, per porne in risalto un aspetto caratteristico. Un
partito avrà avuto maggiore o minore significato e peso, nella
misura appunto in cui la sua particolare attività avrà
pesato piú o meno nella determinazione della storia di un
paese.
Ecco quindi che dal modo di
scrivere la storia di un partito risulta quale concetto si abbia di
ciò che è un partito o debba essere. Il settario si
esalterà nei fatterelli interni, che avranno per lui un
significato esoterico e lo riempiranno di mistico entusiasmo; lo
storico, pur dando a ogni cosa l'importanza che ha nel quadro
generale, poserà l'accento soprattutto sull'efficienza reale
del partito, sulla sua forza determinante, positiva e negativa,
nell'aver contribuito a creare un evento e anche nell'aver impedito
che altri eventi si compissero.
Quando si può
dire che un partito sia formato e non possa essere distrutto con
mezzi normali. Il punto di sapere quando un partito sia formato,
cioè abbia un compito preciso e permanente, dà luogo a
molte discussioni e spesso anche luogo, purtroppo, a una forma di
boria che non è meno ridicola e pericolosa che la «boria
delle nazioni» di cui parla il Vico. È vero che si può
dire che un partito non è mai compiuto e formato, nel senso
che ogni sviluppo crea nuovi compiti e mansioni e nel senso che per
certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e
formati quando non esistono piú, cioè quando la loro
esistenza è diventata storicamente inutile. Cosí,
poiché ogni partito non è che una nomenclatura di
classe, è evidente che per il partito che si propone di
annullare la divisione in classi, la sua perfezione e compiutezza
consiste nel non esistere piú perché non esistono
classi e quindi loro espressioni. Ma qui si vuole accennare a un
particolare momento di questo processo di sviluppo, al momento
successivo a quello in cui un fatto può esistere e può
non esistere, nel senso che la necessità della sua esistenza
non è ancora divenuta «perentoria», ma dipende in
«gran parte» dall'esistenza di persone di straordinario
potere volitivo e di straordinaria volontà. Quando un partito
diventa «necessario» storicamente? Quando le condizioni
del suo «trionfo», del suo immancabile diventar Stato
sono almeno in via di formazione e lasciano prevedere normalmente i
loro ulteriori sviluppi. Ma quando si può dire, in tali
condizioni, che un partito non può essere distrutto con mezzi
normali? Per rispondere occorre sviluppare un ragionamento: perché
esista un partito è necessario che confluiscano tre elementi
fondamentali (cioè tre gruppi di elementi). 1) Un elemento
diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è
offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito
creativo ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non
esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non
esisterebbe neanche «solamente» con essi. Essi sono una
forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza, disciplina,
ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si
annullerebbero in un pulviscolo impotente. Non si nega che ognuno di
questi elementi possa diventare una delle forze coesive, ma di essi
si parla appunto nel momento che non lo sono e non sono in condizioni
di esserlo, o se lo sono lo sono solo in una cerchia ristretta,
politicamente inefficiente e senza conseguenza. 2) L'elemento coesivo
principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare
efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé
conterebbero zero o poco piú; questo elemento è dotato
di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e
anche (anzi forse per questo, inventiva, se si intende inventiva in
una certa direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive,
certe premesse anche): è anche vero che da solo questo
elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe piú
che non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza
esercito, ma in realtà è piú facile formare un
esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito già
esistente è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre
l'esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d'accordo tra loro,
con fini comuni non tarda a formare un esercito anche dove non
esiste. 3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo
elemento, che li metta a contatto, non solo «fisico» ma
morale e intellettuale. Nella realtà, per ogni partito
esistono delle «proporzioni definite» tra questi tre
elementi e si raggiunge il massimo di efficienza quando tali
«proporzioni definite» sono realizzate.
Date queste considerazioni,
si può dire che un partito non può essere distrutto con
mezzi normali, quando, esistendo necessariamente il secondo elemento,
la cui nascita è legata all'esistenza delle condizioni
materiali oggettive (e se questo secondo elemento non esiste, ogni
ragionamento è vacuo) sia pure allo stato disperso e vagante,
non possono non formarsi gli altri due, cioè il primo che
necessariamente forma il terzo come sua continuazione e mezzo di
esprimersi. Occorre che perché ciò avvenga si sia
formata la convinzione ferrea che una determinata soluzione dei
problemi vitali sia necessaria. Senza questa convinzione non si
formerà il secondo elemento, la cui distruzione è la
piú facile per lo scarso suo numero, ma è necessario
che questo secondo elemento, se distrutto, abbia lasciato come
eredità un fermento da cui riformarsi. E dove questo fermento
sussisterà meglio e potrà meglio formarsi che nel primo
e nel terzo elemento, che, evidentemente, sono i piú omogenei
col secondo? L'attività del secondo elemento per costituire
questo elemento è perciò fondamentale: il criterio di
giudizio di questo secondo elemento sarà da cercare: 1) in ciò
che realmente fa; 2) in ciò che prepara nell'ipotesi di una
sua distruzione. Tra i due fatti è difficile dire quale sia
piú importante. Poiché nella lotta si deve sempre
prevedere la sconfitta, la preparazione dei propri successori è
un elemento altrettanto importante di ciò che si fa per
vincere.
A proposito della «boria»
del partito, si può dire che essa è peggiore della
boria delle nazioni di cui parla Vico. Perché? Perché
una nazione non può non esistere e nel fatto che esiste è
sempre possibile, sia pure con la buona volontà e sollecitando
i testi, trovare che l'esistenza è piena di destino e di
significato. Invece un partito può non esistere per forza
propria. Non occorre mai dimenticare che nella lotta fra le
nazioni, ognuna di esse ha interesse che l'altra sia indebolita dalle
lotte interne e che i partiti sono appunto gli elementi delle lotte
interne. Per i partiti dunque, è sempre possibile la domanda
se essi esistano per forza propria, come propria necessità, o
esistano invece solo per interesse altrui (e infatti nelle polemiche
questo punto non è mai dimenticato, anzi è motivo
d'insistenza anche, specialmente quando la risposta non è
dubbia, ciò che significa che ha presa e lascia dubbi).
Naturalmente, chi si lasciasse dilaniare da questo dubbio, sarebbe
uno sciocco. Politicamente la quistione ha una rilevanza solo
momentanea. Nella storia del cosí detto principio di
nazionalità, gli interventi stranieri a favore dei partiti
nazionali che turbavano l'ordine interno degli Stati antagonisti sono
innumerevoli, tanto che quando si parla per esempio della politica
«orientale» di Cavour si domanda se si trattava di una
«politica» cioè di una linea d'azione permanente,
o di uno stratagemma del momento per indebolire l'Austria in vista
del '59 e del '66. Cosí nei movimenti mazziniani dei primi del
1870 (esempio, fatto Barsanti) si vede l'intervento di Bismark, che
in vista della guerra con la Francia e del pericolo di un'alleanza
italo-francese, pensava, con conflitti interni, a indebolire
l'Italia. Cosí nei fatti del giugno 1914 alcuni vedono
l'intervento dello Stato Maggiore austriaco in vista della successiva
guerra. Come si vede, la casistica è numerosa e occorre avere
idee chiare in proposito. Ammesso che qualunque cosa si faccia, si fa
sempre il gioco di qualcuno, l'importante è di cercare in
tutti i modi di fare bene il proprio gioco, cioè di vincere
nettamente. In ogni modo occorre disprezzare la «boria»
del partito e alla boria sostituire i fatti concreti. Chi ai fatti
concreti sostituisce la boria, o fa la politica della boria, è
da sospettare di poca serietà senz'altro. Non occorre
aggiungere che per i partiti occorre evitare anche l'apparenza
«giustificata» che si faccia il gioco di qualcuno,
specialmente se il qualcuno è uno Stato straniero: che poi si
speculi, nessuno può evitare che non avvenga.
Partiti politici e
funzioni di polizia. È difficile escludere che qualsiasi
partito politico (dei gruppi dominanti, ma anche di gruppi
subalterni) non adempia anche una funzione di polizia, cioè di
tutela di un certo ordine politico e legale. Se questo fosse
dimostrato tassativamente, la quistione dovrebbe essere posta in
altri termini: e cioè, sui modi e gli indirizzi con cui una
tale funzione viene esercitata. Il senso è repressivo o
diffusivo, cioè è di carattere reazionario o
progressivo? Il partito dato esercita la sua funzione di polizia per
conservare un ordine esteriore, estrinseco, pastoia delle forze vive
della storia, o la esercita nel senso che tende a portare il popolo a
un nuovo livello di civiltà di cui l'ordine politico e legale
è un'espressione programmatica? Infatti, una legge trova chi
la infrange: 1) tra gli elementi sociali reazionari che la legge ha
spodestato; 2) tra gli elementi progressivi che la legge comprime; 3)
tra gli elementi che non hanno raggiunto il livello di civiltà
che la legge può rappresentare. La funzione di polizia di un
partito può dunque essere progressiva e regressiva: è
progressiva quando essa tende a tenere nell'orbita della legalità
le forze reazionarie spodestate e a sollevare al livello della nuova
legalità le masse arretrate. È regressiva quando tende
a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità
sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca. Del resto il
funzionamento del Partito dato fornisce criteri discriminanti: quando
il partito è progressivo esso funziona «democraticamente»
(nel senso di un centralismo democratico), quando il partito è
regressivo esso funziona «burocraticamente» (nel senso di
un centralismo burocratico). Il Partito in questo secondo caso è
puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un
organo di polizia e il suo nome di Partito politico è una pura
metafora di carattere mitologico.
[Industriali e agrari.]
Si pone il problema se i grandi industriali abbiano un partito
politico permanente proprio. La risposta mi pare debba essere
negativa. I grandi industriali si servono volta a volta di tutti i
partiti esistenti, ma non hanno un partito proprio. Essi non sono
perciò «agnostici» o «apolitici» in
qualsiasi modo: il loro interesse è un determinato equilibrio,
che ottengono appunto rafforzando coi loro mezzi, volta a volta,
questo o quello dei partiti del vario scacchiere politico (con
eccezione, si intende, del solo partito antagonista, il cui
rafforzamento non può essere aiutato neppure per mossa
tattica). È certo però che se ciò avviene nella
vita «normale», nei casi estremi, che poi sono quelli che
contano (come la guerra nella vita nazionale), il partito dei grandi
industriali è quello degli agrari, i quali hanno invece un
proprio partito permanente.
Si può vedere
l'esemplificazione di questa nota in Inghilterra, dove il partito
conservatore si è mangiato il partito liberale, che pure
tradizionalmente appariva come il partito degli industriali. La
situazione inglese, con le sue grandi Trade Unions spiega questo
fatto. In Inghilterra non esiste formalmente un partito antagonista
agli industriali in grande stile, è vero, ma esistono le
organizzazioni operaie di massa, ed è stato osservato come
esse, in certi momenti, quelli decisivi, si trasformino
costituzionalmente dal basso in alto spezzando l'involucro
burocratico (es. nel 1919 e nel 1926). D'altronde esistono interessi
permanenti stretti tra agrari e industriali (specialmente ora che il
protezionismo è diventato generale, agrario e industriale) ed
è innegabile che gli agrari sono «politicamente»
molto meglio organizzatori degli industriali, attirano piú gli
intellettuali, sono piú «permanenti» nelle loro
direttive ecc. La sorte dei partiti «industriali»
tradizionali, come quello «liberale-radicale» inglese e
quello radicale francese (che però si differenziò
sempre molto dal primo) è interessante (cosí quello
«radicale italiano» di buona memoria): che cosa
rappresentavano essi? Un nesso di classi grandi e piccole, non una
sola grande classe; perciò il loro vario divenire e sparire;
la truppa di «manovra» era data dalla classe piccola, che
si trovò in condizioni sempre diverse nel nesso fino a
trasformarsi completamente. Oggi dà la truppa ai «partiti
demagogici» e si comprende.
In generale si può
dire che in questa storia dei partiti, la comparazione tra i vari
paesi è delle piú istruttive e decisive per trovare
l'origine delle cause di trasformazione. Ciò anche nelle
polemiche tra partiti dei paesi «tradizionalisti» dove
cioè sono rappresentati «scampoli» di tutto il
«catalogo» storico.
Concezioni del mondo e
atteggiamenti pratici totalitari e parziali. Un criterio
primordiale di giudizio sia per le concezioni del mondo, sia e
specialmente per gli atteggiamenti pratici è questo: la
concezione del mondo o l'atteggiamento pratico può essere
concepito «isolato, indipendente» con tutta la
responsabilità della vita collettiva su di sé, o ciò
è impossibile e la concezione del mondo e l'atteggiamento
pratico può solo essere concepito come «integrazione»,
perfezionamento, contrappeso ecc. di un'altra concezione del mondo e
atteggiamento pratico? Se si riflette, si vede che questo criterio è
decisivo per un giudizio ideale sui moti ideali e sui moti pratici e
si vede anche che esso ha una portata pratica non piccola. Uno degli
idoli piú comuni è quello di credere che tutto ciò
che esiste è «naturale» esista, non può a
meno di esistere e che i propri tentativi di riforma, per male che
vadano, non interromperanno la vita, perché le forze
tradizionali continueranno ad operare e appunto continueranno la
vita. In questo modo di pensare c'è del giusto, certamente, e
guai se cosí non fosse, tuttavia questo modo di pensare oltre
certi limiti diventa pericoloso (certi casi della politica del
peggio) e in ogni modo, come si è detto, sussiste il criterio
di giudizio filosofico, politico e storico. È certo che, se si
osserva in fondo, certi moti concepiscono se stessi come marginali;
presuppongono cioè un moto principale in cui innestarsi per
riformare certi presunti o veri mali, cioè certi moti sono
puramente riformistici. Questo principio ha importanza politica
perché la verità teorica che ogni classe ha un solo
partito è dimostrata, nelle svolte decisive, dal fatto che
aggruppamenti varii, ognuno dei quali si presentava come partito
«indipendente», si riuniscono e bloccano in unità.
La molteplicità esistente prima era solo di carattere
«riformistico», cioè riguardava questioni
parziali, in un certo senso era una divisione del lavoro politico
(utile, nei suoi limiti); ma ogni parte presupponeva l'altra, tanto
che nei momenti decisivi, cioè appunto quando le quistioni
principali sono state messe in gioco, l'unità si è
formata, il blocco si è verificato. Da ciò la
conclusione che nella costruzione dei partiti, occorre basarsi su un
carattere «monolitico» e non su quistioni secondarie,
quindi attenta osservazione che ci sia omogeneità tra
dirigenti e diretti, tra capi e massa. Se nei momenti decisivi, i
capi passano al loro «vero partito» le masse rimangono in
tronco, inerti e senza efficacia.
Si può dire che
nessun moto reale acquista coscienza della sua totalitarietà
d'un colpo, ma solo per esperienze successive, cioè quando
s'accorge, dai fatti, che niente di ciò che è, è
naturale (nel senso bislacco della parola) ma esiste perché ci
sono certe condizioni, la cui sparizione non rimane senza
conseguenze. Cosí il moto si perfeziona, perde i caratteri di
arbitrarietà, di «simbiosi», diventa davvero
indipendente, nel senso che per avere certe conseguenze crea le
premesse necessarie e anzi sulla creazione di queste premesse impegna
tutte le sue forze.
Alcuni aspetti teorici e
pratici dell'«economismo». Economismo –
movimento teorico per il libero scambio – sindacalismo teorico.
È da vedere in che misura il sindacalismo teorico abbia avuto
origine dalla filosofia della praxis e in quanto dalle dottrine
economiche del libero scambio, cioè, in ultima analisi, dal
liberalismo. E perciò è da vedere se l'economismo,
nella sua forma piú compiuta, non sia una filiazione diretta
del liberalismo e abbia avuto, anche alle origini, ben pochi rapporti
colla filosofia della praxis, rapporti in ogni modo solo estrinseci e
puramente verbali. Da questo punto di vista è da vedere la
polemica Einaudi-Croce, determinata dalla prefazione nuova (del 1917)
al volume sul Materialismo storico: la esigenza, prospettata
dall'Einaudi, di tener conto della letteratura di storia economica
suscitata dall'economia classica inglese, può essere
soddisfatta in questo senso, che una tale letteratura, per una
contaminazione superficiale con la filosofia della praxis, ha
originato l'economismo; perciò quando l'Einaudi critica (in
modo, a dir vero, impreciso) alcune degenerazioni economistiche, non
fa altro che tirare sassi in piccionaia. Il nesso tra ideologie
libero-scambiste e sindacalismo teorico è specialmente
evidente in Italia, dove sono note l'ammirazione per Pareto dei
sindacalisti come Lanzillo e C. Il significato di queste due tendenze
è però molto diverso: il primo è proprio di un
gruppo sociale dominante e dirigente, il secondo di un gruppo ancora
subalterno, che non ha ancora acquistato coscienza della sua forza e
delle sue possibilità e modi di sviluppo e non sa perciò
uscire dalla fase di primitivismo. L'impostazione del movimento del
libero scambio si basa su un errore teorico di cui non è
difficile identificare l'origine pratica: sulla distinzione cioè
tra società politica e società civile, che da
distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata
come distinzione organica. Cosí si afferma che l'attività
economica è propria della società civile e che lo Stato
non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella
realtà effettuale società civile e Stato si
identificano, è da fissare che anche il liberismo è una
«regolamentazione» di carattere statale, introdotto e
mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di
volontà consapevole dei propri fini e non l'espressione
spontanea, automatica del fatto economico. Pertanto il liberismo è
un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il
personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato
stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale.
Diverso è il caso del sindacalismo teorico, in quanto si
riferisce a un gruppo subalterno, al quale con questa teoria si
impedisce di diventare mai dominante, di svilupparsi oltre la fase
economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia
etico-politica nella società civile e dominante nello Stato.
Per ciò che riguarda il liberismo si ha il caso di una
frazione del gruppo dirigente che vuole modificare non la struttura
dello Stato, ma solo l'indirizzo di governo, che vuole riformare la
legislazione commerciale e solo indirettamente industriale (poiché
è innegabile che il protezionismo, specialmente nei paesi a
mercato povero e ristretto, limita la libertà di iniziativa
industriale e favorisce morbosamente il nascere dei monopoli): si
tratta di rotazione dei partiti dirigenti al governo, non di
fondazione e organizzazione di una nuova società politica e
tanto meno di un nuovo tipo di società civile. Nel movimento
del sindacalismo teorico la quistione si presenta piú
complessa: è innegabile che in esso l'indipendenza e
l'autonomia del gruppo subalterno che si dice di esprimere sono
invece sacrificate all'egemonia intellettuale del gruppo dominante,
poiché appunto il sindacalismo teorico non è che un
aspetto del liberismo, giustificato con alcune affermazioni mutilate,
e pertanto banalizzate, della filosofia della praxis. Perché e
come avviene questo «sacrifizio»? Si esclude la
trasformazione del gruppo subordinato in dominante, o perché
il problema non è neppure prospettato (fabianesimo, De Man,
parte notevole del laburismo) o perché è presentato in
forme incongrue e inefficienti (tendenze socialdemocratiche in
generale) o perché si afferma il salto immediato dal regime
dei gruppi a quello della perfetta eguaglianza e dell'economia
sindacale.
È per lo meno strano
l'atteggiamento dell'economismo verso le espressioni di volontà,
di azione e di iniziativa politica e intellettuale, come se queste
non fossero una emanazione organica di necessità economiche e
anzi la sola espressione efficiente dell'economia; cosí è
incongruo che l'impostazione concreta della quistione egemonica sia
interpretata come un fatto che subordina il gruppo egemone. Il fatto
dell'egemonia presuppone indubbiamente che sia tenuto conto degli
interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l'egemonia verrà
esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso, che cioè
il gruppo dirigente faccia dei sacrifizi di ordine
economico-corporativo, ma è anche indubbio che tali sacrifizi
e tale compromesso non possono riguardare l'essenziale, poiché
se l'egemonia è etico-politica, non può non essere
anche economica, non può non avere il suo fondamento nella
funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo
decisivo dell'attività economica.
L'economismo si presenta
sotto molte altre forme oltre che il liberismo e il sindacalismo
teorico. Gli appartengono tutte le forme di astensionismo elettorale
(esempio tipico l'astensionismo dei clericali italiani dopo il 1870,
dopo il 1900 sempre piú attenuato, fino al 1919 e alla
formazione del Partito popolare: la distinzione organica che i
clericali facevano tra Italia reale e Italia legale era una
riproduzione della distinzione tra mondo economico e mondo
politico-legale), che sono molte, nel senso che può esserci
semi-astensionismo, un quarto ecc. All'astensionismo è legata
la formula del «tanto peggio, tanto meglio» e anche la
formula della cosí detta «intransigenza»
parlamentare di alcune frazioni di deputati. Non sempre l'economismo
è contrario all'azione politica e al partito politico, che
viene però considerato mero organismo educativo di tipo
sindacale.
Un punto di riferimento per
lo studio dell'economismo e per comprendere i rapporti tra struttura
e superstrutture è quel passaggio della Miseria della
Filosofia dove si dice che una fase importante nello sviluppo di
un gruppo sociale è quella in cui i singoli componenti di un
sindacato non lottano solo piú per i loro interessi economici,
ma per la difesa e lo sviluppo dell'organizzazione stessa (vedere la
affermazione esatta; la Miseria della Filosofia è
un momento essenziale nella formazione della filosofia della praxis;
essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi
su Feuerbach, mentre la Sacra Famiglia è una fase
intermedia indistinta e di origine occasionale, come appare dai brani
dedicati al Proudhon e specialmente al materialismo francese. Il
brano sul materialismo francese è piú che altro un
capitolo di storia della cultura e non un brano teoretico, come
spesso viene interpretato, e come storia della cultura è
ammirevole. Ricordare l'osservazione che la critica contenuta nella
Miseria della Filosofia contro Proudhon e la sua
interpretazione della dialettica hegeliana può essere estesa
al Gioberti e allo hegelismo dei liberali moderati italiani in
genere. Il parallelo Proudhon-Gioberti, nonostante rappresentino fasi
storico-politiche non omogenee, anzi appunto per questo, può
essere interessante e fecondo). È da ricordare insieme
l'affermazione di Engels che l'economia solo in «ultima
analisi» è la molla della storia (nelle due lettere
sulla filosofia della praxis pubblicate anche in italiano) da
collegarsi direttamente al passo della prefazione della Critica
dell'Economia politica, dove si dice che gli uomini diventano
consapevoli dei conflitti che si verificano nel mondo economico sul
terreno delle ideologie.
In varie occasioni è
affermato in queste note che la filosofia della praxis è molto
piú diffusa di quanto non si voglia concedere. L'affermazione
è esatta se si intende che è diffuso l'economismo
storico, come il prof. Loria chiama ora le sue concezioni piú
o meno sgangherate, e che pertanto l'ambiente culturale è
completamente mutato dal tempo in cui la filosofia della praxis
iniziò le sue lotte; si potrebbe dire, con terminologia
crociana, che la piú grande eresia sorta nel seno della
«religione della libertà» ha anch'essa, come la
religione ortodossa, subito una degenerazione, si è diffusa
come «superstizione», cioè è entrata in
combinazione col liberismo e ha prodotto l'economismo. È da
vedere però se, mentre la religione ortodossa si è
ormai imbozzacchita, la superstizione eretica non abbia sempre
mantenuto un fermento che la farà rinascere come religione
superiore, se cioè le scorie di superstizione non siano
facilmente liquidabili.
Alcuni punti caratteristici
dell'economismo storico: 1) nella ricerca dei nessi storici non si
distingue ciò che è «relativamente permanente»
da ciò che è fluttuazione occasionale e si intende per
fatto economico l'interesse personale e di piccolo gruppo, in senso
immediato e «sordidamente giudaico». Non si tiene conto
cioè delle formazioni di classe economica, con tutti i
rapporti inerenti, ma si assume l'interesse gretto e usurario,
specialmente quando coincide con forme delittuose contemplate dai
codici criminali; 2) la dottrina per cui lo svolgimento economico
viene ridotto al susseguirsi dei cangiamenti tecnici negli strumenti
di lavoro. Il prof. Loria ha fatto un'esposizione brillantissima di
questa dottrina applicata nell'articolo sull'influsso sociale
dell'aeroplano, pubblicato nella «Rassegna contemporanea»
del 1912; 3) la dottrina per cui lo svolgimento economico e storico
viene fatto dipendere immediatamente dai mutamenti di un qualche
elemento importante della produzione, la scoperta di una nuova
materia prima, di un nuovo combustibile ecc., che portano con sé
l'applicazione di nuovi metodi nella costruzione e nell'azionamento
delle macchine. In questi ultimi tempi c'è tutta una
letteratura sul petrolio: si può vedere come tipico un
articolo di Antonino Laviosa nella «Nuova Antologia» del
1929. La scoperta di nuovi combustibili e di nuove energie motrici,
come di nuove materie prime da trasformare, hanno certo grande
importanza, perché può mutare la posizione dei singoli
Stati, ma non determina il moto storico ecc.
Avviene spesso che si
combatte l'economismo storico, credendo di combattere il materialismo
storico. È questo il caso, per esempio, di un articolo
dell'«Avenir» di Parigi del 10 ottobre 1930 (riportato
nella «Rassegna Settimanale della Stampa Estera» del 21
ottobre 1930, pp. 2303-4) e che si riporta come tipico: «Ci si
dice da molto tempo, ma sopratutto dopo la guerra, che le quistioni
d'interesse dominano i popoli e portano avanti il mondo. Sono i
marxisti che hanno inventato questa tesi, sotto l'appellativo un po'
dottrinario di "materialismo storico". Nel marxismo puro,
gli uomini presi in massa non obbediscono alle passioni, ma alle
necessità economiche. La politica è una passione. La
Patria è una passione. Queste due idee esigenti non godono
nella storia che una funzione di apparenza perché in realtà
la vita dei popoli, nel corso dei secoli, si spiega con un gioco
cangiante e sempre rinnovato di cause di ordine materiale. L'economia
è tutto. Molti filosofi ed economisti "borghesi"
hanno ripreso questo ritornello. Essi assumono una certa aria da
spiegarci col corso del grano, dei petroli o del caucciú, la
grande politica internazionale. Essi si ingegnano a dimostrarci che
tutta la diplomazia è comandata da quistioni di tariffe
doganali e di prezzi di costo. Queste spiegazioni sono molto in auge.
Esse hanno una piccola apparenza scientifica e procedono da una
specie di scetticismo superiore che vorrebbe passare per una eleganza
suprema. La passione in politica estera? Il sentimento in materia
nazionale? Suvvia! Questa roba è buona per la gente comune. I
grandi spiriti, gli iniziati sanno che tutto è dominato dal
dare e dall'avere. Ora questa è una pseudo-verità
assoluta. È completamente falso che i popoli non si lasciano
guidare che da considerazioni di interesse ed è completamente
vero che essi obbediscono [piú che mai al sentimento. Il
materialismo storico è una buona scemenza. Le nazioni
obbediscono] sopratutto a delle considerazioni dettate da un
desiderio e da una fede ardente di prestigio. Chi non comprende
questo non comprende nulla». La continuazione dell'articolo
(intitolato La mania del prestigio) esemplifica con la
politica tedesca e italiana, che sarebbe di «prestigio» e
non dettata da interessi materiali. L'articolo racchiude in breve una
gran parte degli spunti piú banali di polemica contro la
filosofia della praxis, ma in realtà la polemica è
contro l'economismo sgangherato di tipo loriano. D'altronde lo
scrittore non è molto ferrato in argomento anche per altri
rispetti: egli non capisce che le «passioni» possono
essere niente altro che un sinonimo degli interessi economici e che è
difficile sostenere essere l'attività politica uno stato
permanente di esasperazione passionale e di spasimo; proprio la
politica francese è presentata come una «razionalità»
sistematica e coerente, cioè depurata di ogni elemento
passionale ecc.
Nella sua forma piú
diffusa di superstizione economistica, la filosofia della praxis
perde una gran parte della sua espansività culturale nella
sfera superiore del gruppo intellettuale, per quanta ne acquista tra
le masse popolari e tra gli intellettuali di mezza tacca, che non
intendono affaticarsi il cervello ma vogliono apparire furbissimi
ecc. Come scrisse Engels, fa molto comodo a molti credere di poter
avere, a poco prezzo e con nessuna fatica, in saccoccia, tutta la
storia e tutta la sapienza politica e filosofica concentrata in
qualche formuletta. Avendo dimenticato che la tesi secondo cui gli
uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno
delle ideologie non è di carattere psicologico o moralistico,
ma ha un carattere organico gnoseologico, si è creata la forma
mentis di considerare la politica e quindi la storia come un continuo
marché de dupes, un gioco di illusionismi e di
prestidigitazione. L'attività «critica» si è
ridotta a svelare trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in
tasca agli uomini rappresentativi.
Si è cosí
dimenticato che essendo o presumendo di essere anche l'«economismo»
un canone obbiettivo di interpretazione (obbiettivo-scientifico), la
ricerca nel senso degli interessi immediati dovrebbe esser valida per
tutti gli aspetti della storia, per gli uomini che rappresentano la
«tesi» come per quelli che rappresentano l'«antitesi».
Si è dimenticato inoltre un'altra proposizione della filosofia
della praxis: quella che le «credenze popolari» o le
credenze del tipo delle credenze popolari hanno la validità
delle forze materiali.
Gli errori di
interpretazione nel senso delle ricerche degli interessi
«sordidamente giudaici» sono stati talvolta grossolani e
comici e hanno cosí reagito negativamente sul prestigio della
dottrina originaria. Occorre perciò combattere l'economismo
non solo nella teoria della storiografia, ma anche e specialmente
nella teoria e nella pratica politica. In questo campo la lotta può
e deve essere condotta sviluppando il concetto di egemonia, cosí
come è stata condotta praticamente nello sviluppo della teoria
del partito politico e nello sviluppo pratico della vita di
determinati partiti politici (la lotta contro la teoria della cosí
detta rivoluzione permanente, cui si contrapponeva il concetto di
dittatura democratico-rivoluzionaria, importanza avuta dal sostegno
dato alle ideologie costituentiste ecc.). Si potrebbe fare una
ricerca sui giudizi emessi a mano a mano che si sviluppavano certi
movimenti politici, prendendo come tipo il movimento boulangista (dal
1886 al 1890 circa), o il processo Dreyfus o addirittura il colpo di
Stato del 2 dicembre (un'analisi del libro classico sul 2 dicembre,
per studiare quale importanza relativa vi si dà al fattore
economico immediato e quale posto invece vi abbia lo studio concreto
delle «ideologie»). Di fronte a questo evento,
l'economismo si pone la domanda: a chi giova immediatamente
l'iniziativa in quistione? e risponde con un ragionamento tanto
semplicistico quanto paralogistico. Giova immediatamente a una certa
frazione del gruppo dominante e per non sbagliare questa scelta cade
su quella frazione che evidentemente ha una funzione progressiva e di
controllo sull'insieme delle forze economiche. Si può esser
sicuri di non sbagliare, perché necessariamente, se il
movimento preso in esame andrà al potere, prima o poi la
frazione progressiva del gruppo dominante finirà col
controllare il nuovo governo e col farsene uno strumento per
rivolgere a proprio benefizio l'apparato statale. Si tratta adunque
di una infallibilità molto a buon mercato e che non solo non
ha significato teorico, ma ha scarsissima portata politica ed
efficacia pratica: in generale non produce altro che prediche
moralistiche e quistioni personali interminabili.
Quando un movimento di tipo
boulangista si produce, l'analisi dovrebbe realisticamente essere
condotta secondo questa linea: 1) contenuto sociale della massa che
aderisce al movimento; 2) questa massa che funzione aveva
nell'equilibrio di forze che va trasformandosi come il nuovo
movimento dimostra col suo stesso nascere? 3) le rivendicazioni che i
dirigenti presentano e che trovano consenso quale significato hanno
politicamente e socialmente? a quali esigenze effettive
corrispondono? 4) esame della conformità dei mezzi al fine
proposto; 5) solo in ultima analisi e presentata in forma politica e
non moralistica si prospetta l'ipotesi che tale movimento
necessariamente verrà snaturato e servirà a ben altri
fini da quelli che le moltitudini seguaci se ne attendono. Invece
questa ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun
elemento concreto (che cioè appaia tale con l'evidenza del
senso comune e non per una analisi «scientifica»
esoterica) esiste ancora per suffragarla, cosí che essa appare
come un'accusa moralistica di doppiezza e di malafede o di poca
furberia, di stupidaggine (per i seguaci). La lotta politica cosí
diventa una serie di fatti personali tra chi la sa lunga, avendo il
diavolo nell'ampolla, e chi è preso in giro dai propri
dirigenti e non vuole convincersene per la sua inguaribile buaggine.
D'altronde, finché
questi movimenti non hanno raggiunto il potere, si può sempre
pensare che essi falliscano e alcuni infatti sono falliti (il
boulangismo stesso, che è fallito come tale ed è poi
stato schiacciato definitivamente col movimento dreyfusardo, il
movimento di Giorgio Valois, quello del Generale Gajda); la ricerca
deve quindi dirigersi all'identificazione degli elementi di forza, ma
anche degli elementi di debolezza che essi contengono nel loro
intimo: l'ipotesi «economistica» afferma un elemento
immediato di forza, cioè la disponibilità di un certo
apporto finanziario diretto o indiretto (un grande giornale che
appoggi il movimento è anche esso un apporto finanziario
indiretto) e basta. Troppo poco.
Anche in questo caso
l'analisi dei diversi gradi di rapporto delle forze non può
culminare che nella sfera dell'egemonia e dei rapporti
etico-politici.
Un elemento da aggiungere al paragrafo dell'economismo, come
esemplificazione delle teorie cosí dette dell'intransigenza, è
quello della rigida avversione di principio ai cosí detti
compromessi, che ha come manifestazione subordinata quella che si può
chiamare la «paura dei pericoli». Che l'avversione di
principio ai compromessi sia strettamente legata all'economismo è
chiaro, in quanto la concezione su cui si fonda questa avversione non
può essere altro che la convinzione ferrea che esistano per lo
sviluppo storico leggi obbiettive dello stesso carattere delle leggi
naturali, con in piú la persuasione di un finalismo
fatalistico di carattere simile a quello religioso: poiché le
condizioni favorevoli dovranno fatalmente verificarsi e da esse
saranno determinati, in modo alquanto misterioso, avvenimenti
palingenetici, risulta l'inutilità non solo, ma il danno di
ogni iniziativa volontaria tendente a predisporre queste situazioni
secondo un piano. Accanto a queste convinzioni fatalistiche sta
tuttavia la tendenza ad affidarsi «in seguito» ciecamente
e scriteriatamente alla virtú regolatrice delle armi, ciò
che però non è completamente senza una logica e una
coerenza, poiché si pensa che l'intervento della volontà
è utile per la distruzione, non per la ricostruzione (già
in atto nel momento stesso della distruzione). La distruzione viene
concepita meccanicamente non come distruzione-ricostruzione. In tali
modi di pensare non si tiene conto del fattore «tempo» e
non si tiene conto, in ultima analisi, della stessa «economia»
nel senso che non si capisce come i fatti ideologici di massa sono
sempre in arretrato sui fenomeni economici di massa e come pertanto
in certi momenti la spinta automatica dovuta al fattore economico è
rallentata, impastoiata o anche spezzata momentaneamente da elementi
ideologici tradizionali, che perciò deve esserci lotta
cosciente e predisposta per far «comprendere» le esigenze
della posizione economica di massa che possono essere in contrasto
con le direttive dei capi tradizionali. Una iniziativa politica
appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta
economica dalle pastoie della politica tradizionale, per mutare cioè
la direzione politica di certe forze che è necessario
assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni
interne, blocco storico economico-politico, e poiché due forze
«simili» non possono fondersi in organismo nuovo che
attraverso una serie di compromessi o con la forza delle armi,
alleandole su un piano di alleanza o subordinando l'una all'altra con
la coercizione, la quistione è se si ha questa forza e se sia
«produttivo» impiegarla. Se l'unione di due forze è
necessaria per vincere una terza, il ricorso alle armi e alla
coercizione (dato che se ne abbia la disponibilità) è
una pura ipotesi metodica e l'unica possibilità concreta è
il compromesso, poiché la forza può essere impiegata
contro i nemici, non contro una parte di se stessi che si vuole
rapidamente assimilare e di cui occorre la «buona volontà»
e l'entusiasmo.
[Previsione e
prospettiva.] Altro punto da fissare e da svolgere è
quello della «doppia prospettiva» nell'azione politica e
nella vita statale. Vari gradi in cui può presentarsi la
doppia prospettiva, dai piú elementari ai piú
complessi, ma che possono ridursi teoricamente a due gradi
fondamentali, corrispondenti alla doppia natura del Centauro
machiavellico, ferina ed umana, della forza e del consenso,
dell'autorità e dell'egemonia, della violenza e della civiltà,
del momento individuale e di quello universale (della «Chiesa»
e dello «Stato»), dell'agitazione e della propaganda,
della tattica e della strategia ecc. Alcuni hanno ridotto la teoria
della «doppia prospettiva» a qualcosa di meschino e di
banale, a niente altro cioè che a due forme di «immediatezza»
che si succedono meccanicamente nel tempo con maggiore o minore
«prossimità». Può invece avvenire che
quanto piú la prima «prospettiva» è
«immediatissima», elementarissima, tanto piú la
seconda debba essere «lontana» (non nel tempo, ma come
rapporto dialettico) complessa, elevata, cioè può
avvenire come nella vita umana, che quanto piú un individuo è
costretto a difendere la propria esistenza fisica immediata, tanto
piú sostiene e si pone dal punto di vista di tutti i complessi
e piú elevati valori della civiltà e dell'umanità.
Sul concetto di previsione
o prospettiva. È certo che prevedere significa solo veder bene
il presente e il passato in quanto movimento: veder bene, cioè
identificare con esattezza gli elementi fondamentali e permanenti del
processo. Ma è assurdo pensare a una previsione puramente
«oggettiva». Chi fa la previsione in realtà ha un
«programma» da far trionfare e la previsione è
appunto un elemento di tale trionfo. Ciò non significa che la
previsione debba sempre essere arbitraria e gratuita o puramente
tendenziosa. Si può anzi dire che solo nella misura in cui
l'aspetto oggettivo della previsione è connesso con un
programma esso aspetto acquista oggettività: 1) perché
solo la passione aguzza l'intelletto e coopera a rendere piú
chiara l'intuizione; 2) perché essendo la realtà il
risultato di una applicazione della volontà umana alla società
delle cose (del macchinista alla macchina), prescindere da ogni
elemento volontario o calcolare solo l'intervento delle altrui
volontà come elemento oggettivo del gioco generale mutila la
realtà stessa. Solo chi fortemente vuole identifica gli
elementi necessari alla realizzazione della sua volontà.
Perciò ritenere che una determinata concezione del mondo e
della vita abbia in se stessa una superiorità di capacità
di previsione è un errore di grossolana fatuità e
superficialità. Certo una concezione del mondo è
implicita in ogni previsione e pertanto che essa sia una sconnessione
di atti arbitrari del pensiero o una rigorosa e coerente visione non
è senza importanza, ma l'importanza appunto l'acquista nel
cervello vivente di chi fa la previsione e la vivifica con la sua
forte volontà. Ciò si vede dalle previsioni fatte dai
cosí detti «spassionati»: esse abbondano di
oziosità, di minuzie sottili, di eleganze congetturali. Solo
l'esistenza nel «previsore» di un programma da realizzare
fa sí che egli si attenga all'essenziale, a quegli elementi
che essendo «organizzabili», suscettibili di essere
diretti o deviati, in realtà sono essi soli prevedibili. Ciò
va contro il comune modo di considerare la quistione. Si pensa
generalmente che ogni atto di previsione presuppone la determinazione
di leggi di regolarità del tipo di quelle delle scienze
naturali. Ma siccome queste leggi non esistono nel senso assoluto o
meccanico che si suppone, non si tiene conto delle altrui volontà
e non si «prevede» la loro applicazione. Pertanto si
costruisce su una ipotesi arbitraria e non sulla realtà.
Il «troppo» (e
quindi superficiale e meccanico) realismo politico porta spesso ad
affermare che l'uomo di Stato deve operare solo nell'ambito della
«realtà effettuale», non interessarsi del «dover
essere», ma solo dell'«essere». Ciò
significherebbe che l'uomo di Stato non deve avere prospettive oltre
la lunghezza del proprio naso. Questo errore ha condotto Paolo Treves
a trovare nel Guicciardini e non nel Machiavelli il «vero
politico». Bisogna distinguere oltre che tra «diplomatico»
e «politico», anche tra scienziato della politica e
politico in atto. Il diplomatico non può non muoversi solo
nella realtà effettuale, perché la sua attività
specifica non è quella di creare nuovi equilibri, ma di
conservare entro certi quadri giuridici un equilibrio esistente. Cosí
anche lo scienziato deve muoversi solo nella realtà effettuale
in quanto mero scienziato. Ma il Machiavelli non è un mero
scienziato; egli è un uomo di parte, di passioni poderose, un
politico in atto, che vuol creare nuovi rapporti di forze e perciò
non può non occuparsi del «dover essere», certo
non inteso in senso moralistico. La quistione non è quindi da
porre in questi termini, è piú complessa: si tratta
cioè di vedere se il «dover essere» è un
atto arbitrario o necessario, è volontà concreta, o
velleità, desiderio, amore con le nuvole. Il politico in atto
è un creatore, un suscitatore, ma né crea dal nulla, né
si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni. Si fonda sulla
realtà effettuale, ma cos'è questa realtà
effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile o non
piuttosto un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di
equilibrio? Applicare la volontà alla creazione di un nuovo
equilibrio delle forze realmente esistenti ed operanti, fondandosi su
quella determinata forza che si ritiene progressiva, e potenziandola
per farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà
effettuale ma per dominarla e superarla (o contribuire a ciò).
Il «dover essere» è quindi concretezza, anzi è
la sola interpretazione realistica e storicistica della realtà,
è sola storia in atto e filosofia in atto, sola politica.
L'opposizione Savonarola-Machiavelli non è l'opposizione tra
essere e dover essere (tutto il paragrafo del Russo su questo punto è
pura belletristica) ma tra due dover essere, quello astratto e fumoso
del Savonarola e quello realistico del Machiavelli, realistico anche
se non diventato realtà immediata, poiché non si può
attendere che un individuo o un libro mutino la realtà ma solo
la interpretino e indichino la linea possibile dell'azione. Il limite
e l'angustia del Machiavelli consistono solo nell'essere egli stato
una «persona privata», uno scrittore e non il capo di uno
Stato o di un esercito, che è pure una singola persona, ma
avente a sua disposizione le forze di uno Stato o di un esercito e
non solo eserciti di parole. Né perciò si può
dire che il Machiavelli sia stato anche egli un «profeta
disarmato»: sarebbe fare dello spirito a troppo buon mercato.
Il Machiavelli non dice mai di pensare o di proporsi egli stesso di
mutare la realtà, ma solo e concretamente di mostrare come
avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere efficienti.
[Analisi delle
situazioni. Rapporti di forza.] Le note scritte a proposito dello
studio delle situazioni e di ciò che occorre intendere per
«rapporti di forza». Lo studio di come occorre analizzare
le «situazioni», cioè di come occorre stabilire i
diversi gradi di rapporto di forze può prestarsi a una
esposizione elementare di scienza ed arte politica, intesa come un
insieme di canoni pratici di ricerca e di osservazioni particolari
utili per risvegliare l'interesse per la realtà effettuale e
suscitare intuizioni politiche piú rigorose e vigorose.
Insieme è da porre l'esposizione di ciò che occorre
intendere in politica per strategia e tattica, per «piano»
strategico, per propaganda e agitazione, per organica, o scienza
dell'organizzazione e dell'amministrazione in politica. Gli elementi
di osservazione empirica che di solito sono esposti alla rinfusa nei
trattati di scienza politica (si può prendere come esemplare
l'opera di G. Mosca: Elementi di scienza politica) dovrebbero,
in quanto non sono quistioni astratte o campate in aria, trovar posto
nei vari gradi del rapporto di forze, a cominciare dai rapporti delle
forze internazionali (in cui troverebbero posto le note scritte su
ciò che è una grande potenza, sugli aggruppamenti di
Stati in sistemi egemonici e quindi sul concetto di indipendenza e
sovranità per ciò che riguarda le potenze piccole e
medie) per passare ai rapporti obbiettivi sociali, cioè al
grado di sviluppo delle forze produttive, ai rapporti di forza
politica e di partito (sistemi egemonici nell'interno dello Stato) e
ai rapporti politici immediati (ossia potenzialmente militari).
I rapporti internazionali
precedono o seguono (logicamente) i rapporti sociali fondamentali?
Seguono indubbiamente. Ogni innovazione organica nella struttura
modifica organicamente i rapporti assoluti e relativi nel
campo internazionale, attraverso le sue espressioni tecnico-militari.
Anche la posizione geografica di uno Stato nazionale non precede ma
segue (logicamente) le innovazioni strutturali, pur reagendo su di
esse in una certa misura (nella misura appunto in cui le
superstrutture reagiscono sulla struttura, la politica sull'economia
ecc.). D'altronde i rapporti internazionali reagiscono passivamente e
attivamente sui rapporti politici (di egemonia dei partiti). Quanto
piú la vita economica immediata di una nazione è
subordinata ai rapporti internazionali, tanto piú un
determinato partito rappresenta questa situazione e la sfrutta per
impedire il sopravvento dei partiti avversari (ricordare il famoso
discorso di Nitti sulla rivoluzione italiana tecnicamente
impossibile!). Da questa serie di fatti si può giungere
alla conclusione che spesso il cosí detto «partito dello
straniero» non è proprio quello che come tale viene
volgarmente indicato, ma proprio il partito piú
nazionalistico, che, in realtà, piú che rappresentare
le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e
l'asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni
egemoniche (un accenno a questo elemento internazionale «repressivo»
delle energie interne si trova negli articoli pubblicati da G. Volpe
nel «Corriere della Sera» del 22 e 23 marzo 1932).
È il problema dei
rapporti tra struttura e superstrutture che bisogna impostare
esattamente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze
che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il
loro rapporto. Occorre muoversi nell'ambito di due principii: 1)
quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui
soluzione non esistano già le condizioni necessarie e
sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di
sviluppo; 2) e quello che nessuna società si dissolve e può
essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che
sono implicite nei suoi rapporti (controllare l'esatta enunciazione
di questi principii).
«Una formazione
sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze
produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi piú
alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che
le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state
covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò
l'umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può
risolvere; se si osserva con piú accuratezza si troverà
sempre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali
della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo
del loro divenire» (Introduzione a Critica dell'Economia
Politica).
Dalla riflessione su questi
due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una serie
di altri principii di metodologia storica. Intanto nello studio di
una struttura occorre distinguere i movimenti organici (relativamente
permanenti) da i movimenti che si possono chiamare di congiuntura (e
si presentano come occasionali, immediati, quasi accidentali). I
fenomeni di congiuntura sono certo dipendenti anch'essi da movimenti
organici, ma il loro significato non è di vasta portata
storica: essi danno luogo a una critica politica spicciola, del
giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le
personalità responsabili immediatamente del potere. I fenomeni
organici danno luogo alla critica storico-sociale, che investe i
grandi aggruppamenti, di là dalle persone immediatamente
responsabili e di là dal personale dirigente. Nello studiare
un periodo storico appare la grande importanza di questa distinzione.
Si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per decine di anni.
Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono
rivelate (sono venute a maturità) contraddizioni insanabili e
che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e
difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro
certi limiti e di superare. Questi sforzi incessanti e perseveranti
(poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di
essere superata) formano il terreno dell'«occasionale»
sul quale si organizzano le forze antagonistiche che tendono a
dimostrare (dimostrazione che in ultima analisi riesce solo ed è
«vera» se diventa nuova realtà, se le forze
antagonistiche trionfano, ma immediatamente si svolge in una serie di
polemiche ideologiche, religiose, filosofiche, politiche, giuridiche
ecc., la cui concretezza è valutabile dalla misura in cui
riescono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle
forze sociali) che esistono già le condizioni necessarie e
sufficienti perché determinati compiti possano e quindi
debbano essere risolti storicamente (debbano, perché ogni
venir meno al dovere storico aumenta il disordine necessario e
prepara piú gravi catastrofi).
L'errore in cui si cade
spesso nelle analisi storico-politiche consiste nel non saper trovare
il giusto rapporto tra ciò che è organico e ciò
che è occasionale: si riesce cosí o ad esporre come
immediatamente operanti cause che invece sono operanti mediatamente,
o ad affermare che le cause immediate sono le sole cause efficienti;
nell'un caso si ha l'eccesso di «economismo» o di
dottrinarismo pedantesco, dall'altro l'eccesso di «ideologismo»,
nell'un caso si sopravalutano le cause meccaniche; nell'altro si
esalta l'elemento volontaristico e individuale. (La distinzione tra
«movimenti» e fatti organici e movimenti e fatti di
«congiuntura» o occasionali deve essere applicata a tutti
i tipi di situazione, non solo a quelle in cui si verifica uno
svolgimento regressivo o di crisi acuta, ma a quelle in cui si
verifica uno svolgimento progressivo o di prosperità e a
quelle in cui si verifica una stagnazione delle forze produttive). Il
nesso dialettico tra i due ordini di movimento e quindi di ricerca
difficilmente viene stabilito esattamente e se l'errore è
grave nella storiografia, ancor piú grave diventa nell'arte
politica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di
costruire quella presente e avvenire: i proprii desideri e le proprie
passioni deteriori e immediate sono la causa dell'errore, in quanto
essi sostituiscono l'analisi obbiettiva e imparziale e ciò
avviene non come «mezzo» consapevole per stimolare
all'azione ma come autoinganno. La biscia, anche in questo caso,
morde il ciarlatano ossia il demagogo è la prima vittima della
sua demagogia.
Il non aver considerato il
momento immediato dei «rapporti di forza» è
connesso a residui della concezione liberale volgare, di cui il
sindacalismo è una manifestazione che credeva di essere piú
avanzata in quanto faceva realmente un passo indietro. Infatti la
concezione liberale volgare dando importanza al rapporto delle forze
politiche organizzate nelle diverse forme di partito (lettori di
giornali, elezioni parlamentari e locali, organizzazione di massa dei
partiti e dei sindacati in senso stretto) era piú avanzata del
sindacalismo che dava importanza primordiale al rapporto fondamentale
economico-sociale e solo a questo. La concezione liberale volgare
teneva conto implicito anche di tale rapporto (come appare da tanti
segni) ma insisteva di piú sul rapporto delle forze politiche
che era un'espressione dell'altro e in realtà lo conteneva.
Questi residui della concezione liberale volgare si possono
rintracciare in tutta una serie di trattazioni che si dicono connesse
alla filosofia della prassi e hanno dato luogo a forme infantili di
ottimismo e di scempiaggine.
Questi criteri metodologici
possono acquistare visibilmente e didatticamente tutto il loro
significato se applicati all'esame di fatti storici concreti. Si
potrebbe farlo utilmente per gli avvenimenti che si svolsero in
Francia dal 1789 al 1870. Mi pare che per maggior chiarezza
dell'esposizione sia proprio necessario abbracciare tutto questo
periodo. Infatti solo nel 1870-71, col tentativo comunalistico si
esauriscono storicamente tutti i germi nati nel 1789 cioè non
solo la nuova classe che lotta per il potere sconfigge i
rappresentanti della vecchia società che non vuole confessarsi
decisamente superata, ma sconfigge anche i gruppi nuovissimi che
sostengono già superata la nuova struttura sorta dal
rivolgimento iniziatosi nel 1789 e dimostra cosí di essere
vitale e in confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo.
Inoltre, col 1870-71, perde efficacia l'insieme di principii di
strategia e tattica politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati
ideologicamente intorno al '48 (quelli che si riassumono nella
formula della «rivoluzione permanente»: sarebbe
interessante studiare quanto di tale formula è passata nella
strategia mazziniana – per es. per l'insurrezione di Milano del
1853 – e se è avvenuto consapevolmente o meno). Un
elemento che mostra la giustezza di questo punto di vista è il
fatto che gli storici non sono per nulla concordi (ed è
impossibile che lo siano) nel fissare i limiti di quel gruppo di
avvenimenti che costituisce la rivoluzione francese. Per alcuni (per
es. il Salvemini) la rivoluzione è compiuta a Valmy: la
Francia ha creato un nuovo Stato e ha saputo organizzare la forza
politico-militare che ne afferma e ne difende la sovranità
territoriale. Per altri la Rivoluzione continua fino al Termidoro,
anzi essi parlano di piú rivoluzioni (il 10 agosto sarebbe una
rivoluzione a sé ecc.; cfr. la Rivoluzione francese
di A. Mathiez nella collezione Colin). Il modo di interpretare il
Termidoro e l'opera di Napoleone offre le piú aspre
contradizioni: si tratta di rivoluzione o di controrivoluzione? ecc.
Per altri la storia della Rivoluzione continua fino al 1830, 1848,
1870 e persino fino alla guerra mondiale del 1914.
In tutti questi modi di
vedere c'è una parte di verità. Realmente le
contraddizioni interne della struttura sociale francese che si
sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo
con la terza repubblica e la Francia ha 60 anni di vita politica
equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre piú
lunghe: '89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870. È appunto lo
studio di queste «ondate» a diversa oscillazione che
permette di ricostruire i rapporti tra struttura e superstruttura da
una parte e dall'altra tra lo svolgersi del movimento organico e
quello del movimento di congiuntura della struttura. Si può
dire intanto che la mediazione dialettica tra i due principii
metodologici enunziati all'inizio di questa nota si può
trovare nella formula politicostorica di rivoluzione permanente.
Un aspetto dello stesso
problema è la quistione cosí detta dei rapporti di
forza. Si legge spesso nelle narrazioni storiche l'espressione
generica: rapporti di forza favorevoli, sfavorevoli a questa o a
quella tendenza. Cosí, astrattamente, questa formulazione non
spiega nulla o quasi nulla, perché non si fa che ripetere il
fatto che si deve spiegare presentandolo una volta come fatto e una
volta come legge astratta e come spiegazione. L'errore teorico
consiste dunque nel dare un canone di ricerca e di interpretazione
come «causa storica».
Intanto nel «rapporto
di forza» occorre distinguere diversi momenti o gradi, che
fondamentalmente sono questi:
1) Un rapporto di forze
sociali strettamente legato alla struttura, obbiettivo, indipendente
dalla volontà degli uomini, che può essere misurato coi
sistemi delle scienze esatte o fisiche. Sulla base del grado di
sviluppo delle forze materiali di produzione si hanno i
raggruppamenti sociali, ognuno dei quali rappresenta una funzione e
ha una posizione data nella produzione stessa. Questo rapporto è
quello che è, una realtà ribelle: nessuno può
modificare il numero delle aziende e dei suoi addetti, il numero
delle città con la data popolazione urbana ecc. Questo
schieramento fondamentale permette di studiare se nella società
esistono le condizioni necessarie e sufficienti per una sua
trasformazione, permette cioè di controllare il grado di
realismo e di attuabilità delle diverse ideologie che sono
nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle contraddizioni che
esso ha generato durante il suo sviluppo.
2) Un momento successivo è
il rapporto delle forze politiche, cioè la valutazione del
grado di omogeneità, di autocoscienza e di organizzazione
raggiunto dai vari gruppi sociali. Questo momento può essere a
sua volta analizzato e distinto in vari gradi, che corrispondono ai
diversi momenti della coscienza politica collettiva, cosí come
si sono manifestati finora nella storia. Il primo e piú
elementare è quello economico-corporativo: un commerciante
sente di dover essere solidale con un altro commerciante, un
fabbricante con un altro fabbricante, ecc., ma il commerciante non si
sente ancora solidale col fabbricante; è cioè sentita
l'unità omogenea, e il dovere di organizzarla, del gruppo
professionale, ma non ancora del gruppo sociale piú vasto. Un
secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza
della solidarietà di interessi fra tutti i membri del gruppo
sociale, ma ancora nel campo meramente economico. Già in
questo momento si pone la quistione dello Stato, ma solo nel terreno
di raggiungere una eguaglianza politico-giuridica coi gruppi
dominanti, poiché si rivendica il diritto di partecipare alla
legislazione e all'amministrazione e magari di modificarle, di
riformarle, ma nei quadri fondamentali esistenti. Un terzo momento è
quello in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi
corporativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la
cerchia corporativa, di gruppo meramente economico, e possono e
debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordinati. Questa è
la fase piú schiettamente politica, che segna il netto
passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse,
è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente
diventano «partito», vengono a confronto ed entrano in
lotta fino a che una sola di esse o almeno una sola combinazione di
esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l'area
sociale, determinando oltre che l'unicità dei fini economici e
politici, anche l'unità intellettuale e morale, ponendo tutte
le quistioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo
ma su un piano «universale» e creando cosí
l'egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi
subordinati. Lo Stato è concepito sí come organismo
proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli
alla massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e
questa espansione sono concepiti e presentati come la forza motrice
di una espansione universale, di uno sviluppo di tutte le energie
«nazionali», cioè il gruppo dominante viene
coordinato concretamente con gli interessi generali dei gruppi
subordinati e la vita statale viene concepita come un continuo
formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell'ambito della legge)
tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi
subordinati, equilibri in cui gli interessi del gruppo dominante
prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto
interesse economico-corporativo. Nella storia reale questi momenti si
implicano reciprocamente, per cosí dire orizzontalmente e
verticalmente, cioè secondo le attività
economico-sociali (orizzontali) e secondo i territori
(verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente: ognuna di
queste combinazioni può essere rappresentata da una propria
espressione organizzata economica e politica. Ancora bisogna tener
conto che a questi rapporti interni di uno Stato-nazione si
intrecciano i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni
originali e storicamente concrete. Una ideologia, nata in un paese
piú sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati,
incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per
es., è sempre stata una fonte di tali combinazioni
ideologico-politiche nazionali e internazionali, e con la religione
le altre formazioni internazionali, la massoneria, il Rotary Club,
gli ebrei, la diplomazia di carriera che suggeriscono espedienti
politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in
determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale
che opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali
concentrate; ma religione, massoneria, Rotary, ebrei ecc., possono
rientrare nella categoria sociale degli «intellettuali»,
la cui funzione, su scala internazionale, è quella di mediare
gli estremi, di «socializzare» i ritrovati tecnici che
fanno funzionare ogni attività di direzione, di escogitare
compromessi e vie d'uscita tra le soluzioni estreme). Questo rapporto
tra forze internazionali e forze nazionali è ancora complicato
dall'esistenza nell'interno di ogni Stato di parecchie sezioni
territoriali di diversa struttura e di diverso rapporto di forza in
tutti i gradi (cosí la Vandea era alleata con le forze
internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell'unità
territoriale francese; cosí Lione nella Rivoluzione Francese
rappresentava un nodo particolare di rapporti ecc.).
3) Il terzo momento è
quello del rapporto delle forze militari, immediatamente decisivo
volta per volta. (Lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il
primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo). Ma anche
esso non è qualcosa di indistinto e di identificabile
immediatamente in forma schematica; si possono anche in esso
distinguere due gradi: quello militare in senso stretto o
tecnico-militare e il grado che si può chiamare
politico-militare. Nello sviluppo della storia questi due gradi si
sono presentati in una grande varietà di combinazioni. Un
esempio tipico che può servire come dimostrazione-limite, è
quello del rapporto di oppressione militare di uno Stato su una
nazione che cerca di raggiungere la sua indipendenza statale. Il
rapporto non è puramente militare, ma politico-militare e
infatti un tale tipo di oppressione sarebbe inspiegabile senza lo
stato di disgregazione sociale del popolo oppresso e la passività
della sua maggioranza; pertanto l'indipendenza non potrà
essere raggiunta con forze puramente militari, ma militari e
politico-militari. Se la nazione oppressa, infatti, per iniziare la
lotta d'indipendenza, dovesse attendere che lo Stato egemone le
permetta di organizzare un proprio esercito nel senso stretto e
tecnico della parola, avrebbe da attendere un pezzo (può
avvenire che la rivendicazione di avere un proprio esercito sia
soddisfatta dalla nazione egemone, ma ciò significa che già
una gran parte della lotta è stata combattuta e vinta sul
terreno politico-militare). La nazione oppressa opporrà dunque
inizialmente alla forza militare egemone una forza che è solo
«politico-militare», cioè opporrà una forma
di azione politica che abbia la virtú di determinare riflessi
di carattere militare nel senso: 1) che abbia efficacia di disgregare
intimamente l'efficienza bellica della nazione egemone; 2) che
costringa la forza militare egemone a diluirsi e disperdersi in un
grande territorio, annullandone gran parte dell'efficienza bellica.
Nel Risorgimento italiano si può notare l'assenza disastrosa
di una direzione politico-militare specialmente nel Partito d'Azione
(per congenita incapacità), ma anche nel partito
piemontese-moderato sia prima che dopo il 1848 non certo per
incapacità ma per «maltusianismo economico-politico»,
cioè perché non si volle neanche accennare alla
possibilità di una riforma agraria e perché non si
voleva la convocazione di una assemblea nazionale costituente, ma si
tendeva solo a che la monarchia piemontese, senza condizioni o
limitazioni di origine popolare, si estendesse a tutta Italia, con la
pura sanzione di plebisciti regionali.
Altra quistione connessa
alle precedenti è quella di vedere se le crisi storiche
fondamentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche.
La risposta alla quistione è contenuta implicitamente nei
paragrafi precedenti, dove [sono] trattate quistioni che sono un
altro modo di presentare quella ora trattata, tuttavia è
sempre necessario, per ragioni didattiche, dato il pubblico
particolare, esaminare ogni modo di presentarsi di una stessa
quistione come fosse un problema indipendente e nuovo. Si può
escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate
producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno piú
favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e
risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l'ulteriore sviluppo
della vita statale. Del resto, tutte le affermazioni che riguardano i
periodi di crisi o di prosperità possono dar luogo a giudizi
unilaterali. Nel suo compendio di storia della Rivoluzione francese
(ed. Colin) il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale,
che aprioristicamente «trova» una crisi in coincidenza
con le grandi rotture di equilibri sociali, afferma che verso il 1789
la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui
non si può dire che la catastrofe dello Stato assoluto sia
dovuta a una crisi di immiserimento (cfr. l'affermazione esatta del
Mathiez). Occorre osservare che lo Stato era in preda a una mortale
crisi finanziaria e si poneva la quistione su quale dei tre ordini
sociali privilegiati dovevano cadere i sacrifizi e i pesi per
rimettere in sesto le finanze statali e regali. Inoltre: se la
posizione economica della borghesia era florida, certamente non era
buona la situazione delle classi popolari delle città e delle
campagne, specialmente di queste, tormentate da miseria endemica. In
ogni caso, la rottura dell'equilibrio delle forze non avvenne per
cause meccaniche immediate di immiserimento del gruppo sociale che
aveva interesse a rompere l'equilibrio e di fatto lo ruppe, ma
avvenne nel quadro di conflitti superiori al mondo economico
immediato, connessi al «prestigio» di classe (interessi
economici avvenire), ad una esasperazione del sentimento di
indipendenza, di autonomia e di potere. La quistione particolare del
malessere o benessere economico come causa di nuove realtà
storiche è un aspetto parziale della quistione dei rapporti di
forza nei loro vari gradi. Possono prodursi novità sia perché
una situazione di benessere è minacciata dal gretto egoismo di
un gruppo avversario, come perché il malessere è
diventato intollerabile e non si vede nella vecchia società
nessuna forza che sia capace di mitigarlo e di ristabilire una
normalità con mezzi legali. Si può dire pertanto che
tutti questi elementi sono la manifestazione concreta delle
fluttuazioni di congiuntura dell'insieme dei rapporti sociali di
forza, nel cui terreno avviene il passaggio di questi a rapporti
politici di forza per culminare nel rapporto militare decisivo. Se
manca questo processo di sviluppo da un momento all'altro, ed esso è
essenzialmente un processo che ha per attori gli uomini e la volontà
e capacità degli uomini, la situazione rimane inoperosa, e
possono darsi conclusioni contradditorie: la vecchia società
resiste e si assicura un periodo di «respiro»,
sterminando fisicamente l'élite avversaria e terrorizzando le
masse di riserva, oppure anche la distruzione reciproca delle forze
in conflitto con l'instaurazione della pace dei cimiteri, magari
sotto la vigilanza di una sentinella straniera.
Ma l'osservazione piú
importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti
di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono
essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di
storia del passato) ma acquistano un significato solo se servono a
giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà.
Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza
della volontà può essere applicata piú
fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate,
indicano come si può meglio impostare una campagna di
agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso
dalle moltitudini ecc. L'elemento decisivo di ogni situazione è
la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che
si può fare avanzare quando si giudica che una situazione è
favorevole (ed è favorevole solo in quanto una tale forza
esista e sia piena di ardore combattivo); perciò il compito
essenziale è quello di attendere sistematicamente e
pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre piú
omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza. Ciò
si vede nella storia militare e nella cura con cui in ogni tempo sono
stati predisposti gli eserciti ad iniziare una guerra in qualsiasi
momento. I grandi Stati sono stati grandi Stati appunto perché
erano in ogni momento preparati a inserirsi efficacemente nelle
congiunture internazionali favorevoli e queste erano tali perché
c'era la possibilità concreta di inserirsi efficacemente in
esse.
Osservazioni su alcuni
aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi
organica (da connettere con le note sulle situazioni e i rapporti
di forza). A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali
si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti
tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati
uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono
piú riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o
frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione
immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è
aperto alle soluzioni di forza, all'attività di potenze oscure
rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici. Come si
formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e
rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito
in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione
giornalistica) si riflette in tutto l'organismo statale, rafforzando
la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e
militare), dell'alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli
organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell'opinione
pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il
contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia
della classe dirigente, che avviene o perché la classe
dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui
ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse
(come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di
contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo
dalla passività politica a una certa attività e pongono
rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una
rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò
appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo
complesso.
La crisi crea situazioni
immediate pericolose, perché i diversi strati della
popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi
rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe
tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta
uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo
con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi
subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro
con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il
momento e se ne serve per schiacciare l'avversario e disperderne il
personale di direzione, che non può essere molto numeroso e
molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la
bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i
bisogni dell'intera classe è un fenomeno organico e normale,
anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto
di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo
sociale sotto un'unica direzione ritenuta sola capace di risolvere un
problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale.
Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del
capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui
fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l'immaturità
delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello
conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria
alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un
padrone (cfr. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte).
Questo ordine di fenomeni è
connesso a una delle quistioni piú importanti che riguardano
il partito politico, e cioè alla capacità del partito
di reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a
mummificarsi e a diventare anacronistico. I partiti nascono e si
costituiscono in organizzazione per dirigere la situazione in momenti
storicamente vitali per le loro classi; ma non sempre essi sanno
adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche, non sempre sanno
svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza
(e quindi posizione relativa delle loro classi) nel paese determinato
o nel campo internazionale. Nell'analizzare questi sviluppi dei
partiti occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa di partito;
la burocrazia e lo stato maggiore del partito. La burocrazia è
la forza consuetudinaria e conservatrice piú pericolosa; se
essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e
si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare
anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo
contenuto sociale e rimane come campato in aria. Si può vedere
cosa avviene a una serie di partiti tedeschi per l'espansione
dell'hitlerismo. I partiti francesi sono un campo ricco per tali
ricerche: essi sono tutti mummificati e anacronistici, documenti
storico-politici delle diverse fasi della storia passata francese, di
cui ripetono la terminologia invecchiata: la loro crisi può
diventare ancora piú catastrofica di quella dei partiti
tedeschi.
Nell'esaminare questo
ordine di avvenimenti di solito si trascura di fare un giusto posto
all'elemento burocratico, civile e militare, e non si tiene presente,
inoltre, che in tali analisi non devono rientrare solo gli elementi
militari e burocratici in atto, ma gli strati sociali da cui, nei
complessi statali dati, la burocrazia è tradizionalmente
reclutata. Un movimento politico può essere di carattere
militare anche se l'esercito come tale non vi partecipa apertamente;
un governo può essere di carattere militare anche se
l'esercito come tale non partecipa al governo. In determinate
situazioni può avvenire che convenga non «scoprire»
l'esercito, non farlo uscire dalla costituzionalità, non
portare la politica tra i soldati, come si dice, per mantenere
l'omogeneità tra ufficiali e soldati in un terreno di
apparente neutralità e superiorità sulle fazioni:
eppure è l'esercito, cioè lo Stato Maggiore e
l'ufficialità, che determina la nuova situazione e la domina.
D'altronde non è vero che l'esercito, secondo le costituzioni,
non deve mai fare della politica; l'esercito dovrebbe appunto
difendere la costituzione, cioè la forma legale dello Stato,
con le istituzioni connesse; perciò la cosí detta
neutralità significa solo appoggio alla parte retriva, ma
occorre, in tali situazioni, porre cosí la quistione per
impedire che nell'esercito si riproduca il dissenso del paese e
quindi sparisca il potere determinante dello Stato Maggiore per la
disgregazione dello strumento militare. Tutti questi elementi di
osservazione non sono certo assoluti, nei diversi momenti storici e
nei vari paesi essi hanno pesi molto diversi.
La prima ricerca da fare è
questa: esiste in un determinato paese uno strato sociale diffuso per
il quale la carriera burocratica, civile e militare, sia elemento
molto importante di vita economica e di affermazione politica
(partecipazione effettiva al potere, sia pure indirettamente, per
«ricatto»)? Nell'Europa moderna questo strato si può
identificare nella borghesia rurale media e piccola che è piú
o meno diffusa nei diversi paesi a seconda dello sviluppo delle forze
industriali da una parte e della riforma agraria dall'altra. Certo la
carriera burocratica (civile e militare) non è un monopolio di
questo strato sociale, tuttavia essa gli è particolarmente
adatta per la funzione sociale che questo strato svolge e per le
tendenze psicologiche che la funzione determina o favorisce, questi
due elementi danno all'insieme del gruppo sociale una certa
omogeneità ed energia di direttive, e quindi un valore
politico e una funzione spesso decisiva nell'insieme dell'organismo
sociale. Gli elementi di questo gruppo sono abituati a comandare
direttamente nuclei di uomini sia pure esigui e a comandare
«politicamente», non «economicamente»; cioè
nella loro arte di comando non c'è attitudine a ordinare le
«cose», a ordinare «uomini e cose» in un
tutto organico, come avviene nella produzione industriale, perché
questo gruppo non ha funzioni economiche nel senso moderno della
parola. Esso ha un reddito perché giuridicamente è
proprietario di una parte del suolo nazionale e la sua funzione
consiste nel contendere «politicamente» al contadino
coltivatore di migliorare la propria esistenza, perché ogni
miglioramento della posizione relativa del contadino sarebbe
catastrofica per la sua posizione sociale. La miseria cronica e il
lavoro prolungato del contadino, col conseguente abbrutimento, sono
per esso una necessità primordiale. Perciò spiega la
massima energia nella resistenza e nel contrattacco a ogni minimo
tentativo di organizzazione autonoma del lavoro contadino e a ogni
movimento culturale contadino che esca dai limiti della religione
ufficiale. Questo gruppo sociale trova i suoi limiti e le ragioni
della sua intima debolezza nella sua dispersione territoriale e nella
«inomogeneità» che è intimamente connessa a
tale dispersione; ciò spiega anche altre caratteristiche: la
volubilità, la molteplicità dei sistemi ideologici
seguiti, la stessa stranezza delle ideologie talvolta seguite. La
volontà è decisa verso un fine, ma essa è tarda
e ha bisogno, di solito, di un lungo processo per centralizzarsi
organizzativamente e politicamente. Il processo si accelera quando la
«volontà» specifica di questo gruppo coincide con
la volontà e gli interessi immediati della classe alta; non
solo il processo si accelera, ma si manifesta subito la «forza
militare» di questo strato, che talvolta, organizzatosi, detta
legge alla classe alta, almeno per ciò che riguarda la «forma»
della soluzione se non per il contenuto. Si vedono qui funzionare le
stesse leggi che sono state notate per i rapporti città-campagna
nei riguardi delle classi subalterne: la forza della città
automaticamente diventa forza della campagna, ma poiché in
campagna i conflitti assumono subito una forma acuta e «personale»,
per l'assenza di margini economici e per la normalmente piú
pesante compressione esercitata dall'alto in basso, cosí in
campagna i contrattacchi devono essere piú rapidi e decisi.
Questo gruppo capisce e vede che l'origine dei suoi guai è
nelle città, nella forza delle città e perciò
capisce di «dover» dettare la soluzione alle classi alte
urbane, affinché il focolaio principale sia spento, anche se
ciò alle classi alte urbane non conviene immediatamente o
perché troppo dispendioso o perché pericoloso a lungo
andare (queste classi vedono cicli piú ampi di sviluppo, in
cui è possibile manovrare e non solo l'interesse «fisico»
immediato). In questo senso deve intendersi la funzione direttiva di
questo strato e non in senso assoluto; tuttavia non è piccola
cosa.
Un riflesso di questo
gruppo si vede nell'attività ideologica degli intellettuali
conservatori, di destra. Il libro di Gaetano Mosca Teorica dei
governi e governo parlamentare (II ed. del 1925, I ed. del 1883)
è esemplare per questo rispetto; fin dal 1883 il Mosca era
terrorizzato da un possibile contatto tra città e campagna. Il
Mosca, per la sua posizione difensiva (di contrattacco) comprendeva
meglio nel 1883 la tecnica della politica delle classi subalterne di
quanto non la comprendessero, anche parecchi decenni dopo, i
rappresentanti di queste forze subalterne anche urbane.
(È da notare come
questo carattere «militare» del gruppo sociale in
quistione, che era tradizionalmente un riflesso spontaneo di certe
condizioni di esistenza, viene ora consapevolmente educato e
predisposto organicamente. In questo movimento consapevole rientrano
gli sforzi sistematici per far sorgere e per mantenere stabilmente
associazioni varie di militari in congedo e di ex-combattenti dei
vari corpi ed armi, specialmente di ufficiali, che sono legate agli
Stati Maggiori e possono essere mobilitate all'occorrenza senza
bisogno di mobilitare l'esercito di leva, che manterrebbe cosí
il suo carattere di riserva allarmata, rafforzata e immunizzata dalla
decomposizione politica da queste forze «private» che non
potranno non influire sul suo «morale», sostenendolo e
irrobustendolo. Si può dire che si verifica un movimento del
tipo «cosacco», non in formazioni scaglionate lungo i
confini di nazionalità, come avveniva per i cosacchi zaristi,
ma lungo i «confini» di gruppo sociale).
In tutta una serie di
paesi, pertanto, influenza dell'elemento militare nella vita statale
non significa solo influenza e peso dell'elemento tecnico militare,
ma influenza e peso dello strato sociale da cui l'elemento tecnico
militare (specialmente gli ufficiali subalterni) trae specialmente
origine. Questa serie di osservazioni sono indispensabili per
analizzare l'aspetto piú intimo di quella determinata forma
politica che si suole chiamare cesarismo o bonapartismo, per
distinguerla da altre forme in cui l'elemento tecnico militare, come
tale, predomina, in forme forse ancor piú appariscenti ed
esclusive. La Spagna e la Grecia offrono due esempi tipici, con
tratti simili e dissimili. Nella Spagna occorre tener conto di alcuni
particolari: grandezza e scarsa densità della popolazione
contadina. Tra il nobile latifondista e il contadino non esiste una
numerosa borghesia rurale, quindi scarsa importanza dell'ufficialità
subalterna come forza a sé (aveva invece una certa importanza
antagonistica l'ufficialità delle armi dotte, artiglieria e
genio, di origine borghese urbana, che si opponeva ai generali e
tentava di avere una politica propria). I governi militari sono
pertanto governi di «grandi» generali. Passività
delle masse contadine come cittadinanza e come truppa. Se
nell'esercito si verifica disgregazione politica, è in senso
verticale, non orizzontale, per la concorrenza delle cricche
dirigenti: la truppa si scinde per seguire i capi in lotta tra loro.
Il governo militare è una parentesi tra due governi
costituzionali; l'elemento militare è la riserva permanente
dell'ordine e della conservazione, è una forza politica
operante in «modo pubblico» quando la «legalità»
è in pericolo. Lo stesso avviene in Grecia con la differenza
che il territorio greco è sparpagliato in un sistema di isole
e che una parte della popolazione piú energica e attiva è
sempre sul mare, ciò che rende piú facile l'intrigo e
il complotto militare; il contadino greco è passivo come
quello spagnuolo, ma nel quadro della popolazione totale, il greco
piú energico ed attivo essendo marinaio e quasi sempre lontano
dal suo centro di vita politica, la passività generale deve
essere analizzata diversamente e la soluzione del problema non può
essere la stessa (le fucilazioni avvenute in Grecia anni fa dei
membri di un governo rovesciato, probabilmente sono da spiegarsi con
uno scatto di collera di questo elemento energico e attivo che volle
dare una sanguinosa lezione). Ciò che è specialmente da
osservare è che in Grecia e in Ispagna l'esperienza del
governo militare non ha creato una ideologia politica e sociale
permanente e formalmente organica, come avviene invece nei paesi
potenzialmente bonapartisti per cosí dire. Ma le condizioni
storiche generali dei due tipi sono le stesse: equilibrio dei gruppi
urbani in lotta, che impedisce il gioco della democrazia «normale»,
il parlamentarismo; è diverso però l'influsso della
campagna in questo equilibrio. Nei paesi come la Spagna, la campagna,
completamente passiva, permette ai generali della nobiltà
terriera di servirsi politicamente dell'esercito per ristabilire
l'equilibrio pericolante, cioè il sopravvento dei gruppi alti.
In altri paesi la campagna non è passiva, ma il suo movimento
non è politicamente coordinato a quello urbano: l'esercito
deve rimanere neutrale poiché è possibile che
altrimenti esso si disgreghi orizzontalmente (rimarrà neutrale
fino ad un certo punto, s'intende), ed entra invece in azione la
classe militare-burocratica che con mezzi militari soffoca il
movimento in campagna (immediatamente piú pericoloso), in
questa lotta trova una certa unificazione politica e ideologica,
trova alleati nelle classi medie urbane (medie in senso italiano)
rafforzate dagli studenti di origine rurale che stanno in città,
impone i suoi metodi politici alle classi alte, che devono farle
molte concessioni e permettere una determinata legislazione
favorevole; insomma riesce a permeare lo Stato dei suoi interessi
fino ad un certo punto e a sostituire una parte del personale
dirigente, continuando a mantenersi armata nel disarmo generale e
prospettando il pericolo di una guerra civile tra i propri armati e
l'esercito di leva se la classe alta mostra troppe velleità di
resistenza.
Queste osservazioni non
devono essere concepite come schemi rigidi, ma solo come criteri
pratici di interpretazione storica e politica. Nelle concrete analisi
di avvenimenti reali le forme storiche sono individuate e quasi
«uniche». Cesare rappresenta una combinazione di
circostanze reali molto diversa da quella rappresentata da Napoleone
I, come Primo De Rivera da quella di Zivkovic ecc.
Nell'analisi del terzo
grado o momento del sistema dei rapporti di forza esistenti in una
determinata situazione, si può ricorrere utilmente al concetto
che nella scienza militare è chiamato della «congiuntura
strategica» ossia, con piú precisione, del grado di
preparazione strategica del teatro della lotta, uno dei cui
principali elementi è dato dalle condizioni qualitative del
personale dirigente e delle forze attive che si possono chiamare di
prima linea (comprese in queste quelle d'assalto). Il grado di
preparazione strategica può dare la vittoria a forze
«apparentemente» (cioè quantitativamente)
inferiori a quelle dell'avversario. Si può dire che la
preparazione strategica tende a ridurre a zero i cosí detti
«fattori imponderabili», cioè le reazioni
immediate, di sorpresa, da parte, in un momento dato, delle forze
tradizionalmente inerti e passive. Tra gli elementi della
preparazione di una favorevole congiuntura strategica sono da porre
appunto quelli considerati nelle osservazioni su l'esistenza e
l'organizzazione di un ceto militare accanto all'organismo tecnico
dell'esercito nazionale.
Altri elementi si possono
elaborare da questo brano del discorso tenuto al Senato il 19 maggio
1932 dal ministro della guerra generale Gazzera (cfr. «Corriere
della Sera» del 20 maggio): «Il regime di disciplina del
nostro Esercito per virtú del Fascismo appare oggi una norma
direttiva che ha valore per tutta la Nazione. Altri eserciti hanno
avuto e tuttora conservano una disciplina formale e rigida. Noi
teniamo sempre presente il principio che l'Esercito è fatto
per la guerra e che a quella deve prepararsi; la disciplina di pace
deve essere quindi la stessa del tempo di guerra, che nel tempo di
pace deve trovare il suo fondamento spirituale. La nostra disciplina
si basa su uno spirito di coesione tra i capi e i gregari che è
frutto spontaneo del sistema seguito. Questo sistema ha resistito
magnificamente durante una lunga e durissima guerra fino alla
vittoria; è merito del Regime fascista di avere esteso a tutto
il popolo italiano una tradizione disciplinare cosí insigne.
Dalla disciplina dei singoli dipende l'esito della concezione
strategica e delle operazioni tattiche. La guerra ha insegnato molte
cose, e anche che vi è un distacco profondo tra la
preparazione di pace e la realtà della guerra. Certo è
che, qualunque sia la preparazione, le operazioni iniziali della
campagna pongono i belligeranti innanzi a problemi nuovi che danno
luogo a sorprese da una parte e dall'altra. Non bisogna trarne però
la conseguenza che non sia utile avere una concezione a priori e che
nessun insegnamento possa derivarsi dalla guerra passata. Se ne può
ricavare una dottrina di guerra che deve essere intesa con disciplina
intellettuale e come mezzo per promuovere modi di ragionamento non
discordi e uniformità di linguaggio tale da permettere a tutti
di comprendere e di farsi comprendere. Se, talvolta, l'unità
di dottrina ha minacciato di degenerare in schematismo, si è
subito reagito prontamente, imprimendo alla tattica, anche per i
progressi della tecnica, una rapida rinnovazione. Tale
regolamentazione quindi non è statica, non è
tradizionale, come taluno crede. La tradizione è considerata
solo come forza e i regolamenti sono sempre in corso di revisione non
per desiderio di cambiamento, ma per poterli adeguare alla realtà».
(Una esemplificazione di «preparazione della congiuntura
strategica» si può trovare nelle Memorie di
Churchill, dove parla della battaglia dello Yutland).
(A proposito del «ceto
militare» è interessante ciò che scrive T.
Tittoni nei Ricordi personali di politica interna, «Nuova
Antologia», 1° aprile - 16 aprile 1929. Racconta il Tittoni
di aver meditato sul fatto che per riunire la forza pubblica
necessaria a fronteggiare i tumulti scoppiati in una località,
occorreva sguarnire altre regioni: durante la settimana rossa del
giugno 1914, per reprimere i moti di Ancona si era sguarnita Ravenna,
dove poi il prefetto, privato della forza pubblica, dovette chiudersi
nella Prefettura abbandonando la città ai rivoltosi. «Piú
volte io ebbi a domandarmi, che cosa avrebbe potuto fare il Governo
se un movimento di rivolta fosse scoppiato contemporaneamente in
tutta la penisola». Tittoni propose al Governo l'arruolamento
dei «volontari dell'ordine », ex-combattenti inquadrati
da ufficiali in congedo. Il progetto di Tittoni parve degno di
considerazione, ma non ebbe seguito).
Il cesarismo.
Cesare, Napoleone I, Napoleone III, Cromwell, ecc. Compilare un
catalogo degli eventi storici che hanno culminato in una grande
personalità «eroica». Si può dire che il
cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si
equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo
che la continuazione della lotta non può concludersi che con
la distruzione reciproca. Quando la forza progressiva A lotta con la
forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B
vinca A, può avvenire anche che non vinca né A né
B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C intervenga
dall'esterno assoggettando ciò che resta di A e di B.
Nell'Italia dopo la morte del Magnifico è appunto successo
questo, come era successo nel mondo antico con le invasioni
barbariche.
Ma il cesarismo, se esprime
sempre la soluzione «arbitrale», affidata a una grande
personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata
da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica, non ha sempre
lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo
progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di
cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla
storia concreta e non da uno schema sociologico. È progressivo
il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a
trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi
della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a
trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi
compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una
portata e un significato diversi che non nel caso precedente. Cesare
e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e
Bismark di cesarismo regressivo. Si tratta di vedere se nella
dialettica «rivoluzione-restaurazione» è
l'elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché
è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e
non esistono restaurazioni «in toto». Del resto il
cesarismo è una formula polemica-ideologica e non un canone di
interpretazione storica. Si può avere soluzione cesarista
anche senza un Cesare, senza una grande personalità «eroica»
e rappresentativa. Il sistema parlamentare ha dato anch'esso un
meccanismo per tali soluzioni di compromesso. I governi «laburisti»
di Mac Donald erano soluzioni di tale specie in un certo grado, il
grado di cesarismo si intensificò quando fu formato il governo
con Mac Donald presidente e la maggioranza conservatrice. Cosí
in Italia nell'ottobre 1922, fino al distacco dei popolari e poi
gradatamente fino al 3 gennaio 1925 e ancora fino all'8 novembre 1926
si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni di
cesarismo si succedettero fino a una forma piú pura e
permanente, sebbene anch'essa non immobile e statica. Ogni governo di
coalizione è un grado iniziale di cesarismo, che può e
non può svilupparsi fino ai gradi piú significativi
(naturalmente l'opinione volgare è invece che i governi di
coalizione siano il piú «solido baluardo» contro
il cesarismo).
Nel mondo moderno, con le
sue grandi coalizioni di carattere economico-sindacale e politico di
partito, il meccanismo del fenomeno cesarista è molto diverso
da quello che fu fino a Napoleone III. Nel periodo fino a Napoleone
III le forze militari regolari o di linea erano un elemento decisivo
per l'avvento del cesarismo, che si verificava con colpi di Stato ben
precisi, con azioni militari ecc. Nel mondo moderno, le forze
sindacali e politiche, coi mezzi finanziari incalcolabili di cui
possono disporre piccoli gruppi di cittadini, complicano il problema.
I funzionari dei partiti e dei sindacati economici possono essere
corrotti o terrorizzati, senza bisogno di azione militare in grande
stile, tipo Cesare o 18 brumaio. Si riproduce in questo campo la
stessa situazione esaminata a proposito della formula
giacobina-quarantottesca della cosí detta «rivoluzione
permanente». La tecnica politica moderna è completamente
mutata dopo il '48, dopo l'espansione del parlamentarismo, del regime
associativo sindacale e di partito, del formarsi di vaste burocrazie
statali e «private» (politico-private, di partiti e
sindacali) e le trasformazioni avvenute nell'organizzazione della
polizia in senso largo, cioè non solo del servizio statale
destinato alla repressione della delinquenza, ma dell'insieme delle
forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio
politico ed economico delle classi dirigenti. In questo senso, interi
partiti «politici» e altre organizzazioni economiche o di
altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica,
di carattere investigativo e preventivo.
Lo schema generico delle
forze A e B in lotta con prospettiva catastrofica, cioè con la
prospettiva che non vinca né A né B nella lotta per
costituire (o ricostituire) un equilibrio organico, da cui nasce (può
nascere) il cesarismo, è appunto un'ipotesi generica, uno
schema sociologico (di comodo per l'arte politica). L'ipotesi può
essere resa sempre piú concreta, portata a un grado sempre
maggiore di approssimazione alla realtà storica concreta e ciò
può ottenersi precisando alcuni elementi fondamentali. Cosí,
parlando di A e di B si è solo detto che esse sono una forza
genericamente progressiva e una forza genericamente regressiva: si
può precisare di quale tipo di forze progressive e regressive
si tratta e ottenere cosí maggiori approssimazioni. Nel caso
di Cesare e di Napoleone I si può dire che A e B, pur essendo
distinte e contrastanti, non erano però tali da non poter
venire «assolutamente» ad una fusione ed assimilazione
reciproca dopo un processo molecolare, ciò che infatti
avvenne, almeno in una certa misura (sufficiente tuttavia ai fini
storico-politici della cessazione della lotta organica fondamentale e
quindi del superamento della fase catastrofica). Questo è un
elemento di maggiore approssimazione. Un altro elemento è il
seguente: la fase catastrofica può emergere per una deficienza
politica «momentanea» della forza dominante tradizionale
e non già per una deficienza organica necessariamente
insuperabile. Ciò si è verificato nel caso di Napoleone
III. La forza dominante in Francia dal 1815 al 1848 si era scissa
politicamente (faziosamente) in quattro frazioni: quella
legittimista, quella orleanista, quella bonapartista, quella
giacobino-repubblicana. Le lotte interne di fazione erano tali da
rendere possibile l'avanzata della forza antagonista B (progressista)
in forma «precoce»; tuttavia la forma sociale esistente
non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo, come
la storia successiva dimostrò abbondantemente. Napoleone III
rappresentò (a suo modo, secondo la statura dell'uomo, che non
era grande) queste possibilità latenti e immanenti: il suo
cesarismo dunque ha un colore particolare. È obbiettivamente
progressivo sebbene non come quello di Cesare e di Napoleone I. Il
cesarismo di Cesare e di Napoleone I è stato, per cosí
dire, di carattere quantitativo-qualitativo, ha cioè
rappresentato la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un
altro tipo, un passaggio in cui le innovazioni furono tante e tali da
rappresentare un completo rivolgimento. Il cesarismo di Napoleone III
fu solo e limitatamente quantitativo, non ci fu passaggio da un tipo
di Stato ad un altro tipo, ma solo «evoluzione» dello
stesso tipo, secondo una linea ininterrotta.
Nel mondo moderno i
fenomeni di cesarismo sono del tutto diversi, sia da quelli del tipo
progressivo Cesare-Napoleone I, come anche da quelli del tipo
Napoleone III, sebbene si avvicinino a quest'ultimo. Nel mondo
moderno l'equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra
forze che in ultima analisi potrebbero fondersi e unificarsi, sia
pure dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui
contrasto è insanabile storicamente e anzi si approfondisce
specialmente coll'avvento di forme cesaree. Tuttavia il cesarismo ha
anche nel mondo moderno un certo margine, piú o meno grande, a
seconda dei paesi e del loro peso relativo nella struttura mondiale,
perché una forma sociale ha «sempre» possibilità
marginali di ulteriore sviluppo e sistemazione organizzativa e
specialmente può contare sulla debolezza relativa della forza
progressiva antagonistica, per la natura e il modo di vita peculiare
di essa, debolezza che occorre mantenere: perciò si è
detto che il cesarismo moderno piú che militare è
poliziesco.
Cesarismo ed equilibrio
«catastrofico» delle forze
politico-sociali. Sarebbe un errore di metodo (un aspetto del
meccanicismo sociologico) ritenere che, nei fenomeni di cesarismo,
sia progressivo, sia regressivo, sia di carattere intermedio
episodico, tutto il nuovo fenomeno storico sia dovuto all'equilibrio
delle forze «fondamentali»; occorre anche vedere i
rapporti che intercorrono tra i gruppi principali (di vario genere,
sociale-economico e tecnico-economico) delle classi fondamentali e le
forze ausiliarie guidate o sottoposte all'influenza egemonica. Cosí
non si comprenderebbe il colpo di Stato del 2 dicembre senza studiare
la funzione dei gruppi militari e dei contadini francesi.
Un episodio storico molto
importante da questo punto di vista è il cosí detto
movimento per l'affare Dreyfus in Francia; anche esso rientra in
questa serie di osservazioni non perché abbia portato al
«cesarismo», anzi proprio per il contrario, perché
ha impedito l'avvento di un cesarismo che si stava preparando, di
carattere nettamente reazionario. Tuttavia il movimento Dreyfus è
caratteristico perché sono elementi dello stesso blocco
sociale dominante che sventano il cesarismo della parte piú
reazionaria del blocco stesso, appoggiandosi non ai contadini, alla
campagna, ma agli elementi subordinati della città guidati dal
riformismo socialista (però anche alla parte piú
avanzata del contadiname). Del tipo Dreyfus troviamo altri movimenti
storico-politici moderni, che non sono certo rivoluzioni, ma non sono
completamente reazioni, nel senso almeno che anche nel campo
dominante spezzano cristallizzazioni statali soffocanti, e immettono
nella vita dello Stato e nelle attività sociali un personale
diverso e piú numeroso di quello precedente: anche questi
movimenti possono avere un contenuto relativamente «progressivo»
in quanto indicano che nella vecchia società erano latenti
forze operose non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure
«forze marginali», ma non assolutamente progressive, in
quanto non possono «fare epoca». Sono rese storicamente
efficienti dalla debolezza costruttiva dell'antagonista, non da una
intima forza propria, e quindi sono legate a una situazione
determinata di equilibrio delle forze in lotta, ambedue incapaci nel
proprio campo a esprimere una volontà ricostruttiva in
proprio.
Lotta politica e guerra
militare. Nella guerra militare, raggiunto il fine strategico,
distruzione dell'esercito nemico e occupazione del suo territorio, si
ha la pace. È inoltre da osservare che perché la guerra
finisca, basta che il fine strategico sia raggiunto solo
potenzialmente: basta cioè che non ci sia dubbio che un
esercito non può piú combattere e che l'esercito
vittorioso «può» occupare il territorio nemico. La
lotta politica è enormemente piú complessa: in un certo
senso può essere paragonata alle guerre coloniali o alle
vecchie guerre di conquista, quando cioè l'esercito vittorioso
occupa o si propone di occupare stabilmente tutto o una parte del
territorio conquistato. Allora l'esercito vinto viene disarmato e
disperso, ma la lotta continua nel terreno politico e di
«preparazione» militare. Cosí la lotta politica
dell'India contro gli Inglesi (e in una certa misura della Germania
contro la Francia o dell'Ungheria contro la Piccola Intesa) conosce
tre forme di guerre: di movimento, di posizione e sotterranea. La
resistenza passiva di Gandhi è una guerra di posizione, che
diventa guerra di movimento in certi momenti e in altri guerra
sotterranea: il boicottaggio è guerra di posizione, gli
scioperi sono guerra di movimento, la preparazione clandestina di
armi e di elementi combattivi d'assalto è guerra sotterranea.
C'è una forma di arditismo, ma essa è impiegata con
molta ponderazione. Se gli Inglesi avessero la convinzione che si
prepara un grande movimento insurrezionale destinato ad annientare
l'attuale loro superiorità strategica (che consiste in un
certo senso nella loro possibilità di manovrare per linee
interne e di concentrare le loro forze nel punto «sporadicamente»
piú pericoloso) col soffocamento di massa, cioè
costringendoli a diluire le forze in un teatro bellico divenuto
simultaneamente generale, ad essi converrebbe provocare l'uscita
prematura delle forze combattenti indiane per identificarle e
decapitare il movimento generale. Cosí alla Francia
converrebbe che la destra nazionalista tedesca fosse coinvolta in un
colpo di stato avventuroso, che costringerebbe l'organizzazione
militare illegale sospettata a manifestarsi prematuramente,
permettendo un intervento, tempestivo dal punto di vista francese.
Ecco che in queste forme di lotta miste, a carattere militare
fondamentale e a carattere politico preponderante (ma ogni lotta
politica ha sempre un sostrato militare), l'impiego degli arditi
domanda uno sviluppo tattico originale, alla concezione del quale
l'esperienza di guerra può dare solo uno stimolo, non un
modello.
Una trattazione a parte
deve avere la quistione dei «comitagi» balcanici, che
sono legati a particolari condizioni dell'ambiente fisico-geografico
regionale, alla formazione delle classi rurali e anche all'efficienza
reale dei governi. Cosí è delle bande irlandesi, la cui
forma di guerra e di organizzazione era legata alla struttura sociale
irlandese. I comitagi, gli irlandesi, e le altre forme di guerra da
partigiani devono essere staccate dalla quistione dell'arditismo,
sebbene paiano avere con esso punti di contatto. Queste forme di
lotta sono proprie di minoranze deboli ma esasperate contro
maggioranze bene organizzate: mentre l'arditismo moderno presuppone
una grande riserva, immobilizzata per varie ragioni, ma
potenzialmente efficiente, che lo sostiene e lo alimenta con apporti
individuali.
Arte militare e arte
politica. Ancora degli arditi. I rapporti che esistettero nel
'17-18 tra le formazioni di arditi e l'esercito nel suo complesso
possono portare ed hanno portato già i dirigenti politici ad
erronee impostazioni di piani di lotta. Si dimentica: 1°) che gli
arditi sono semplici formazioni tattiche e presuppongono sí un
esercito poco efficiente, ma non completamente inerte: perché
se la disciplina e lo spirito militare si sono allentati fino a
consigliare una nuova disposizione tattica, essi esistono ancora in
una certa misura, cui appunto corrisponde la nuova formazione
tattica; altrimenti ci sarebbe stata, senz'altro, la disfatta e la
fuga; 2°) che non bisogna considerare l'arditismo come un segno
della combattività generale della massa militare, ma
viceversa, come un segno della sua passività e della sua
relativa demoralizzazione.
Ciò sia detto
mantenendo implicito il criterio generale che i paragoni tra l'arte
militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè
solo come stimoli al pensiero e come termini semplificativi ad
absurdum: infatti nella milizia politica manca la sanzione penale
implacabile per chi sbaglia o non obbedisce esattamente, manca il
giudizio marziale, oltre al fatto che lo schieramento politico non è
neanche lontanamente paragonabile allo schieramento militare. Nella
lotta politica oltre alla guerra di movimento e alla guerra d'assedio
o di posizione, esistono altre forme. Il vero arditismo, cioè
l'arditismo moderno, è proprio della guerra di posizione, cosí
come si è rivelata nel '14-18. Anche la guerra di movimento e
la guerra d'assedio dei periodi precedenti avevano i loro arditi, in
un certo senso: la cavalleria leggera e pesante, i bersaglieri ecc.,
le armi celeri in generale avevano in parte una funzione di arditi;
cosí nell'arte di organizzare le pattuglie era contenuto il
germe dell'arditismo moderno. Nella guerra d'assedio piú che
nella guerra di movimento era contenuto questo germe: servizio di
pattuglie piú estese e specialmente arte di organizzare
sortite improvvise e improvvisi assalti con elementi scelti.
Un altro elemento da tener
presente è questo: che nella lotta politica non bisogna
scimiottare i metodi di lotta delle classi dominanti, senza cadere in
facili imboscate. Nelle lotte attuali questo fenomeno si verifica
spesso: una organizzazione statale indebolita è come un
esercito infiacchito: entrano in campo gli arditi, cioè le
organizzazioni armate private, che hanno due compiti: usare
l'illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità,
come mezzo di riorganizzare lo Stato stesso. Credere che alla
attività privata illegale si possa contrapporre un'altra
attività simile, cioè combattere l'arditismo con
l'arditismo è una cosa sciocca; vuol dire credere che lo Stato
rimanga eternamente inerte, ciò che non avviene mai, a parte
le altre condizioni diverse. Il carattere di classe porta a una
differenza fondamentale: una classe che deve lavorare ogni giorno a
orario fisso non può avere organizzazioni d'assalto permanenti
e specializzate, come una classe che ha ampie disponibilità
finanziarie e non è legata, in tutti i suoi membri, a un
lavoro fisso. In qualsiasi ora del giorno e della notte, queste
organizzazioni, divenute professionali, possono vibrare colpi
decisivi e cogliere alla sprovvista. La tattica degli arditi non può
avere dunque per certe classi la stessa importanza che per altre; a
certe classi è necessaria, perché propria, la guerra di
movimento e di manovra, che nel caso della lotta politica, può
combinare un utile e forse indispensabile uso della tattica da
arditi. Ma fissarsi nel modello militare è da sciocchi: la
politica deve, anche qui, essere superiore alla parte militare e solo
la politica crea la possibilità della manovra e del movimento.
Da tutto ciò che si
è detto risulta che nel fenomeno dell'arditismo militare,
occorre distinguere tra funzione tecnica di arma speciale legata alla
moderna guerra di posizione e funzione politico-militare: come
funzione di arma speciale l'arditismo si è avuto in tutti gli
eserciti della guerra mondiale; come funzione politico-militare si è
avuta nei paesi politicamente non omogenei e indeboliti, quindi
aventi come espressione un esercito nazionale poco combattivo e uno
stato maggiore burocratizzato e fossilizzato nella carriera.
A proposito dei confronti
tra i concetti di guerra manovrata e guerra di posizione nell'arte
militare e i concetti relativi nell'arte politica è da
ricordare il libretto della Rosa tradotto in italiano nel 1919 da C.
Alessandri (tradotto dal francese). Nel libretto si teorizzano un po'
affrettatamente e anche superficialmente le esperienze storiche del
1905: la Rosa infatti trascurò gli elementi «volontari»
e organizzativi che in quegli avvenimenti furono molto piú
diffusi ed efficienti di quanto la Rosa fosse portata a credere per
un certo suo pregiudizio «economistico» e spontaneista.
Tuttavia questo libretto (e altri saggi dello stesso autore) è
uno dei documenti piú significativi della teorizzazione della
guerra manovrata applicata all'arte politica. L'elemento economico
immediato (crisi, ecc.) è considerato come l'artiglieria
campale che in guerra apriva il varco nella difesa nemica, varco
sufficiente perché le proprie truppe facciano irruzione e
ottengano un successo definitivo (strategico) o almeno un successo
importante nella direttrice della linea strategica. Naturalmente
nella scienza storica l'efficacia dell'elemento economico immediato è
ritenuta molto piú complessa di quella dell'artiglieria
pesante nella guerra di manovra, perché questo elemento era
concepito come avente un doppio effetto: 1) di aprire il varco nella
difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé
e nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di
organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o
almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal
processo storico generale) fulmineamente al loro posto di
inquadramento delle truppe disseminate; 3) di creare fulmineamente la
concentrazione ideologica dell'identità di fine da
raggiungere. Era una forma di ferreo determinismo economistico, con
l'aggravante che gli effetti erano concepiti come rapidissimi nel
tempo e nello spazio; perciò era un vero e proprio misticismo
storico, l'aspettazione di una specie di fulgurazione miracolosa.
L'osservazione del generale
Krasnov (nel suo romanzo) che l'Intesa (che non voleva una vittoria
della Russia imperiale, perché non fosse risolta
definitivamente a favore dello zarismo la quistione orientale) impose
allo Stato Maggiore russo la guerra di trincea (assurda dato l'enorme
sviluppo del fronte dal Baltico al mar Nero, con grandi zone paludose
e boscose) mentre unica possibile era la guerra manovrata, è
una mera scempiaggine. In realtà l'esercito russo tentò
la guerra di manovra e di sfondamento, specialmente nel settore
austriaco (ma anche nella Prussia orientale) ed ebbe successi
brillantissimi, per quanto effimeri. La verità è che
non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno
di avere subito una superiorità schiacciante sul nemico, ed è
noto quante perdite abbia costato l'ostinazione degli Stati Maggiori
nel non voler riconoscere che la guerra di posizione era «imposta»
dai rapporti generali delle forze in contrasto. La guerra di
posizione non è infatti solo costituita dalle trincee vere e
proprie, ma da tutto il sistema organizzativo e industriale del
territorio che è alle spalle dell'esercito schierato, ed è
imposta specialmente dal tiro rapido dei cannoni delle mitragliatrici
dei moschetti, dalla concentrazione delle armi in un determinato
punto, oltre che dall'abbondanza del rifornimento che permette di
sostituire rapidamente il materiale perduto dopo uno sfondamento e un
arretramento. Un altro elemento è la grande massa d'uomini che
partecipano allo schieramento, di valore molto diseguale e che
appunto possono operare solo come massa. Si vide come nel fronte
orientale altra cosa era fare irruzione nel settore tedesco e altra
nel settore austriaco e come anche nel settore austriaco, rinforzato
da truppe scelte tedesche e comandato da tedeschi, la tattica
irruenta finí nel disastro. Lo stesso si vide nella guerra
polacca del 1920, quando l'avanzata che sembrava irresistibile fu
fermata dinanzi a Varsavia dal generale Weygand sulla linea comandata
da ufficiali francesi. Gli stessi tecnici militari che ormai si sono
fissati sulla guerra di posizione come prima lo erano su quella
manovrata, non sostengono certo che il tipo precedente debba essere
considerato come espunto dalla scienza; ma nelle guerre tra gli Stati
piú avanzati industrialmente e civilmente esso deve
considerarsi ridotto a funzione tattica piú che strategica,
deve considerarsi nella stessa posizione in cui era prima la guerra
d'assedio in confronto a quella manovrata. La stessa riduzione deve
avvenire nell'arte e nella scienza politica, almeno per ciò
che riguarda gli Stati piú avanzati, dove la «società
civile» è diventata una struttura molto complessa e
resistente alle «irruzioni» catastrofiche dell'elemento
economico immediato (crisi, depressioni ecc.); le superstrutture
della società civile sono come il sistema delle trincee nella
guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco
d'artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo
avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e
al momento dell'attacco e dell'avanzata gli assalitori si trovavano
di fronte una linea difensiva ancora efficiente, cosí avviene
nella politica durante le grandi crisi economiche; né le
truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano
fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno
acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si
demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né
perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire. Le
cose certo non rimangono tali e quali, ma è certo che viene a
mancare l'elemento della rapidità, del tempo accelerato, della
marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero gli strateghi
del cadornismo politico. L'ultimo fatto del genere nella storia della
politica sono stati gli avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una
svolta decisiva nella storia dell'arte e della scienza della
politica. Si tratta dunque di studiare con «profondità»
quali sono gli elementi della società civile che corrispondono
ai sistemi di difesa nella guerra di posizione. Si dice con
«profondità» a disegno, perché essi sono
stati studiati, ma da punti di vista superficiali e banali, come
certi storici del costume studiano le stranezze della moda femminile,
o da un punto di vista «razionalistico» cioè con
la persuasione che certi fenomeni sono distrutti appena spiegati
«realisticamente», come se fossero superstizioni popolari
(che del resto anch'esse non si distruggono con lo spiegarle).
A questo nesso di problemi
è da riattaccare la quistione dello scarso successo ottenuto
da nuove correnti nel movimento sindacale.
Un tentativo di iniziare
una revisione dei metodi tattici avrebbe dovuto essere quello esposto
da L. Davidovic Bronstein alla quarta riunione quando fece un
confronto tra il fronte orientale e quello occidentale, quello cadde
subito ma fu seguito da lotte inaudite: in questo le lotte si
verificherebbero «prima». Si tratterebbe cioè se
la società civile resiste prima o dopo l'assalto, dove questo
avviene ecc. La quistione però è stata esposta solo in
forma letteraria brillante, ma senza indicazioni di carattere
pratico.
Guerra di posizione e
guerra manovrata o frontale. È da vedere se la famosa
teoria di Bronstein sulla permanenza del movimento non sia il
riflesso politico della teoria della guerra manovrata (ricordare
osservazione del generale dei cosacchi Krasnov), in ultima analisi il
riflesso delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un
paese in cui i quadri della vita nazionale sono embrionali e
rilasciati e non possono diventare «trincea o fortezza».
In questo caso si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un
«occidentalista» era invece un cosmopolita, cioè
superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o
europeo. Invece Ilici era profondamente nazionale e profondamente
europeo. Bronstein nelle sue memorie ricorda che gli fu detto che la
sua teoria si era dimostrata buona dopo... quindici anni e risponde
all'epigramma con un altro epigramma. In realtà la sua teoria,
come tale, non era buona né quindici anni prima né
quindici anni dopo: come avviene agli ostinati, di cui parla il
Guicciardini, egli indovinò all'ingrosso, cioè ebbe
ragione nella previsione pratica piú generale; come a dire che
si predice che una bambina di quattro anni diventerà madre e
quando lo diventa a venti anni si dice «l'avevo indovinato»,
non ricordando però che quando aveva quattro anni si voleva
stuprare la bambina sicuri che sarebbe diventata madre. Mi pare che
Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra
manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel '17, alla guerra
di posizione che era la sola possibile in Occidente, dove, come
osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti potevano accumulare
sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano
di per sé ancora capaci di diventare trincee munitissime.
Questo mi pare significare la formula del «fronte unico»
che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell'Intesa sotto
il comando unico di Foch. Solo che Ilici non ebbe il tempo di
approfondire la sua formula, pur tenendo conto che egli poteva
approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era
nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una
fissazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati
dagli elementi di società civile ecc. In Oriente lo Stato era
tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa;
nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto
rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta
struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea
avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di
casematte; piú o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo
appunto domandava un'accurata ricognizione di carattere nazionale.
La teoria del Bronstein può
essere paragonata a quella di certi sindacalisti francesi sullo
sciopero generale e alla teoria di Rosa nell'opuscolo tradotto da
Alessandri: l'opuscolo di Rosa e la teoria di Rosa hanno del resto
influenzato i sindacalisti francesi come appare da certi articoli di
Rosmer sulla Germania nella «Vie Ouvrière» (prima
serie in fascicoletti): dipende in parte anche dalla teoria della
spontaneità.
[Il concetto di
rivoluzione passiva.] Il concetto di rivoluzione passiva deve
essere dedotto rigorosamente dai due principii fondamentali di
scienza politica: 1) che nessuna formazione sociale scompare fino a
quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano
ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo; 2) che la
società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già
state covate le condizioni necessarie ecc. S'intende che questi
principii devono prima essere svolti criticamente in tutta la loro
portata e depurati da ogni residuo di meccanicismo e fatalismo. Cosí
devono essere riportati alla descrizione dei tre momenti fondamentali
in cui può distinguersi una «situazione» o un
equilibrio di forze, col massimo di valorizzazione del secondo
momento, o equilibrio delle forze politiche e specialmente del terzo
momento o equilibrio politico-militare. Si può osservare che
il Pisacane, nei suoi Saggi, si preoccupa appunto di questo
terzo momento: egli comprende, a differenza del Mazzini, tutta
l'importanza che ha la presenza in Italia di un agguerrito esercito
austriaco, sempre pronto a intervenire in ogni parte della penisola,
e che inoltre ha dietro di sé tutta la potenza militare
dell'Impero absburgico, cioè una matrice sempre pronta a
formare nuovi eserciti di rincalzo.
Altro elemento storico da
richiamare è lo sviluppo del Cristianesimo nel seno
dell'Impero Romano, cosí come il fenomeno attuale del
Gandhismo in India e la teoria della non resistenza al male di
Tolstoi che tanto si avvicinano alla prima fase del Cristianesimo
(prima dell'editto di Milano). Il Gandhismo e il tolstoismo sono
teorizzazioni ingenue e a tinta religiosa della «rivoluzione
passiva». Sono anche da richiamare alcuni movimenti cosí
detti «liquidazionisti» e le reazioni che suscitarono, in
rapporto ai tempi e alle forme determinate di situazioni
(specialmente del terzo momento).
Il punto di partenza dello
studio sarà la trattazione di Vincenzo Cuoco, ma è
evidente che l'espressione del Cuoco a proposito della Rivoluzione
Napoletana del 1799 non è che uno spunto, poiché il
concetto è completamente modificato e arricchito.
Il concetto di «rivoluzione
passiva» nel senso di Vincenzo Cuoco attribuita al primo
periodo del Risorgimento italiano può essere messo in rapporto
col concetto di «guerra di posizione» in confronto alla
guerra manovrata? Cioè questi concetti si sono avuti dopo la
Rivoluzione francese e il binomio Proudhon-Gioberti può essere
giustificato col panico creato dal terrore del 1793 come il
sorellismo col panico successivo alle stragi parigine del 1871? Cioè
esiste una identità assoluta tra guerra di posizione e
rivoluzione passiva? O almeno esiste o può concepirsi tutto un
periodo storico in cui i due concetti si debbano identificare, fino
al punto in cui la guerra di posizione ridiventa guerra manovrata? È
un giudizio «dinamico» che occorre dare sulle
«Restaurazioni» che sarebbero una «astuzia della
provvidenza» in senso vichiano. Un problema è questo:
nella lotta Cavour-Mazzini, in cui Cavour è l'esponente della
rivoluzione passiva – guerra di posizione e Mazzini
dell'iniziativa popolare – guerra manovrata, non sono
indispensabili ambedue nella stessa precisa misura? Tuttavia bisogna
tener conto che mentre Cavour era consapevole del suo compito (almeno
in una certa misura) in quanto comprendeva il compito di Mazzini,
Mazzini non pare fosse consapevole del suo e di quello del Cavour; se
invece Mazzini avesse avuto tale consapevolezza, cioè fosse
stato un politico realista e non un apostolo illuminato (cioè
non fosse stato Mazzini) l'equilibrio risultante dal confluire delle
due attività sarebbe stato diverso, piú favorevole al
mazzinianismo: cioè lo Stato italiano si sarebbe costituito su
basi meno arretrate e piú moderne. E poiché in ogni
evento storico si verificano quasi sempre situazioni simili, è
da vedere se non si possa trarre da ciò qualche principio
generale di scienza e di arte politica. Si può applicare al
concetto di rivoluzione passiva (e si può documentare nel
Risorgimento italiano) il criterio interpretativo delle modificazioni
molecolari che in realtà modificano progressivamente la
composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di
nuove modificazioni. Cosí nel Risorgimento italiano si è
visto come il passaggio al Cavourrismo dopo il 1848 di sempre nuovi
elementi del Partito d'Azione ha modificato progressivamente la
composizione delle forze moderate, liquidando il neoguelfismo da una
parte e dall'altra impoverendo il movimento mazziniano (a questo
processo appartengono anche le oscillazioni di Garibaldi ecc.).
Questo elemento pertanto è la fase originaria di quel fenomeno
che è stato chiamato piú tardi «trasformismo»
e la cui importanza non è stata, pare, finora, messa nella
luce dovuta come forma di sviluppo storico.
Insistere nello svolgimento
del concetto che mentre Cavour era consapevole del suo compito in
quanto era consapevole criticamente del compito di Mazzini, Mazzini,
per la scarsa o nulla consapevolezza del compito di Cavour, era in
realtà anche poco consapevole del suo proprio compito, perciò
i suoi tentennamenti (cosí a Milano nel periodo successivo
alle cinque giornate e in altre occasioni) e le sue iniziative fuori
tempo, che pertanto diventavano elementi solo utili alla politica
piemontese. È questa una esemplificazione del problema teorico
del come doveva essere compresa la dialettica, impostato nella
Miseria della Filosofia: che ogni membro dell'opposizione
dialettica debba cercare di essere tutto se stesso e gettare nella
lotta tutte le proprie «risorse» politiche e morali, e
che solo cosí si abbia un superamento reale, non era capito né
da Proudhon né da Mazzini. Si dirà che non era capito
neanche da Gioberti e dai teorici della rivoluzione passiva e
«rivoluzione-restaurazione», ma la quistione cambia: in
costoro la «incomprensione» teorica era l'espressione
pratica delle necessità della «tesi» di sviluppare
tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una parte
dell'antitesi stessa, per non lasciarsi «superare», cioè
nell'opposizione dialettica solo la tesi in realtà sviluppa
tutte le sue possibilità di lotta, fino ad accaparrarsi i
sedicenti rappresentanti dell'antitesi: proprio in questo consiste la
rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione. Certo è da
considerare a questo punto la quistione del passaggio della lotta
politica da «guerra manovrata» a «guerra di
posizione», ciò che in Europa avvenne dopo il 1848 e che
non fu compreso da Mazzini e dai mazziniani come invece fu compreso
da qualche altro; lo stesso passaggio si ebbe dopo il 1871 ecc. La
quistione era difficile da capire allora per uomini come il Mazzini,
dato che le guerre militari non avevano dato il modello, ma anzi le
dottrine militari si sviluppavano nel senso della guerra di
movimento: sarà da vedere se in Pisacane, che del
mazzinianismo fu il teorico militare, ci siano accenni in questo
senso. (Sarà da vedere la letteratura politica sul '48 dovuta
a studiosi della filosofia della prassi; ma non pare che ci sia molto
da aspettarsi in questo senso. Gli avvenimenti italiani, per esempio,
furono esaminati solo con la guida dei libri di Bolton King ecc.).
Pisacane è tuttavia da vedere perché fu il solo che
tentò di dare al Partito d'Azione un contenuto non solo
formale, ma sostanziale di antitesi superatrice delle posizioni
tradizionali. Né è da dire che per ottenere questi
risultati storici fosse necessaria perentoriamente l'insurrezione
armata popolare, come pensava Mazzini fino all'ossessione, cioè
non realisticamente, ma da missionario religioso. L'intervento
popolare che non fu possibile nella forma concentrata e simultanea
dell'insurrezione, non si ebbe neanche nella forma «diffusa»
e capillare della pressione indiretta, ciò che invece era
possibile e forse sarebbe stata la premessa indispensabile della
prima forma. La forma concentrata o simultanea era resa impossibile
dalla tecnica militare del tempo, ma solo in parte, cioè
l'impossibilità esistette in quanto alla forma concentrata e
simultanea non fu fatto precedere una preparazione politica
ideologica di lunga lena, organicamente predisposta per risvegliare
le passioni popolari e renderne possibile la concentrazione e lo
scoppio simultaneo.
Dopo il 1848 una critica
dei metodi precedenti al fallimento fu fatta solo dai moderati e
infatti tutto il movimento moderato si rinnovò, il
neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono i primi posti di
direzione. Nessuna autocritica invece da parte del mazzinianismo
oppure autocritica liquidatrice, nel senso che molti elementi
abbandonarono Mazzini e formarono l'ala sinistra del partito
piemontese; unico tentativo «ortodosso», cioè
dall'interno, furono i saggi del Pisacane, che però non
divennero mai piattaforma di una nuova politica organica e ciò
nonostante che il Mazzini stesso riconoscesse che il Pisacane aveva
una «concezione strategica» della Rivoluzione nazionale
italiana.
Il rapporto «rivoluzione
passiva - guerra di posizione» nel Risorgimento italiano può
essere studiato anche in altri aspetti. Importantissimo quello che si
può chiamare del «personale» e l'altro della
«radunata rivoluzionaria». Quello del «personale»
può essere appunto paragonato a quanto si verificò
nella guerra mondiale nel rapporto tra ufficiali di carriera e
ufficiali di complemento da una parte e tra soldati di leva e
volontari-arditi dall'altra. Gli ufficiali di carriera corrisposero
nel Risorgimento ai partiti politici regolari, organici,
tradizionali, ecc., che al momento dell'azione (1884) si dimostrarono
inetti o quasi e furono nel 1848-49 soverchiati dall'ondata
popolare-mazziniana-democratica, ondata caotica, disordinata,
«estemporanea» per cosí dire, ma che tuttavia, al
seguito di capi improvvisati o quasi (in ogni caso non di formazioni
precostituite com'era il partito moderato) ottennero successi
indubbiamente maggiori di quelli ottenuti dai moderati: la Repubblica
romana e Venezia mostrarono una forza di resistenza molto notevole.
Nel periodo dopo il '48 il rapporto tra le due forze, quella regolare
e quella «carismatica», si organizzò intorno a
Cavour e Garibaldi e diede il massimo risultato, sebbene questo
risultato fosse poi incamerato dal Cavour.
Questo aspetto è
connesso all'altro, della «radunata». È da
osservare che la difficoltà tecnica contro cui andarono sempre
a spezzarsi le iniziative mazziniane fu quella appunto della
«radunata rivoluzionaria». Sarebbe interessante, da
questo punto di vista, studiare il tentativo di invadere la Savoia
col Ramorino, poi quello dei fratelli Bandiera, del Pisacane ecc.,
paragonato con la situazione che si offrí a Mazzini nel '48 a
Milano e nel '49 a Roma e che egli non ebbe la capacità di
organizzare. Questi tentativi di pochi non potevano non essere
schiacciati in germe, perché sarebbe stato maraviglioso che le
forze reazionarie, che erano concentrate e potevano operare
liberamente (cioè non trovavano nessuna opposizione in larghi
movimenti della popolazione) non schiacciassero le iniziative tipo
Ramorino, Pisacane, Bandiera, anche se queste fossero state preparate
meglio di quanto furono in realtà. Nel secondo periodo
(1859-60) la radunata rivoluzionaria, come fu quella dei Mille di
Garibaldi, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi si innestava
nelle forze statali piemontesi prima e poi che la flotta inglese
protesse di fatto lo sbarco di Marsala, la presa di Palermo, e
sterilizzò la flotta borbonica. A Milano dopo le cinque
giornate, a Roma repubblicana, Mazzini avrebbe avuto la possibilità
di costituire piazze d'armi per radunate organiche, ma non si propose
di farlo, onde il suo conflitto con Garibaldi a Roma e la sua
inutilizzazione a Milano di fronte a Cattaneo e al gruppo democratico
milanese.
In ogni modo lo svolgersi
del processo del Risorgimento, se pose in luce l'importanza enorme
del movimento «demagogico» di massa, con capi di fortuna,
improvvisati ecc., in realtà fu riassunto dalle forze
tradizionali organiche, cioè dai partiti formati di lunga
mano, con elaborazione razionale dei capi ecc. In tutti gli
avvenimenti politici dello stesso tipo sempre si ebbe lo stesso
risultato (cosí nel 1830, in Francia, la prevalenza degli
orleanisti sulle forze popolari radicali democratiche, e cosí
in fondo anche nella Rivoluzione Francese del 1789, in cui Napoleone,
rappresenta, in ultima analisi, il trionfo delle forze borghesi
organiche contro le forze piccolo-borghesi giacobine). Cosí
nella guerra mondiale il sopravvento dei vecchi ufficiali di carriera
su quelli di complemento ecc. (su questo argomento cfr. note in altri
quaderni). In ogni caso, l'assenza nelle forze radicali popolari di
una consapevolezza del compito dell'altra parte impedí ad esse
di avere piena consapevolezza del loro proprio compito e quindi di
pesare nell'equilibrio finale delle forze, in rapporto al loro
effettivo peso d'intervento, e quindi di determinare un risultato piú
avanzato, su una linea di maggiore progresso e modernità.
Sempre a proposito del
concetto di rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione nel
Risorgimento italiano è da notare che occorre porre con
esattezza il problema che in alcune tendenze storiografiche è
chiamato dei rapporti tra condizioni oggettive e condizioni
soggettive dell'evento storico. Appare evidente che mai possono
mancare le cosidette condizioni soggettive quando esistano le
condizioni oggettive in quanto si tratta di semplice distinzione di
carattere didascalico: pertanto è nella misura delle forze
soggettive e della loro intensità che può vertere
discussione, e quindi nel rapporto dialettico tra le forze soggettive
contrastanti. Occorre evitare che la quistione sia posta in termini
«intellettualistici» e non storico-politici. Che la
«chiarezza» intellettuale dei termini della lotta sia
indispensabile, è pacifico, ma questa chiarezza è un
valore politico in quanto diventa passione diffusa ed è la
premessa di una forte volontà. Negli ultimi tempi, in molte
pubblicazioni sul Risorgimento, è stato «rivelato»
che esistevano personalità che vedevano chiaro ecc. (ricordare
la valorizzazione dell'Ornato fatta da Piero Gobetti), ma queste
«rivelazioni» si distruggono da se stesse appunto perché
rivelazioni; esse dimostrano che si trattava di elucubrazioni
individuali, che oggi rappresentano una forma del «senno di
poi». Infatti mai si cimentarono con la realtà
effettuale, mai diventarono coscienza popolare-nazionale diffusa e
operante. Tra il Partito d'Azione e il Partito moderato quale
rappresentò le effettive «forze soggettive» del
Risorgimento? Certo il Partito moderato, e appunto perché ebbe
consapevolezza del compito anche del Partito d'Azione: per questa
consapevolezza la sua «soggettività» era di una
qualità superiore e piú decisiva. Nell'espressione sia
pure da sergente maggiore, di Vittorio Emanuele II: «Il Partito
d'Azione noi l'abbiamo in tasca» c'è piú senso
storico-politico che in tutto Mazzini.
Sulla burocrazia. 1)
Il fatto che nello svolgimento storico delle forme politiche ed
economiche si sia venuto formando il tipo del funzionario «di
carriera», tecnicamente addestrato al lavoro burocratico
(civile e militare) ha un significato primordiale nella scienza
politica e nella storia delle forme statali. Si è trattato di
una necessità o di una degenerazione in confronto
dell'autogoverno (self-government) come pretendono i liberisti
«puri»? È certo che ogni forma sociale e statale
ha avuto un suo problema dei funzionari, un suo modo di impostarlo e
risolverlo, un suo sistema di selezione, un suo tipo di funzionario
da educare. Ricostruire lo svolgimento di tutti questi elementi è
di importanza capitale. Il problema dei funzionari coincide in parte
col problema degli intellettuali. Ma se è vero che ogni nuova
forma sociale e statale ha avuto bisogno di un nuovo tipo di
funzionario, è vero anche che i nuovi gruppi dirigenti non
hanno mai potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla
tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dalle formazioni
di funzionari già esistenti e precostituiti al loro avvento
(ciò specialmente nella sfera ecclesiastica e in quella
militare). L'unità del lavoro manuale e intellettuale e un
legame piú stretto tra il potere legislativo e quello
esecutivo (per cui i funzionari eletti, oltre che del controllo, si
interessino dell'esecuzione degli affari di Stato) possono essere
motivi ispiratori sia per un indirizzo nuovo nella soluzione del
problema degli intellettuali che di quello dei funzionari.
2) Connessa con la
quistione della burocrazia e della sua organizzazione «ottima»
è la discussione sui cosidetti «centralismo organico»
e «centralismo democratico» (che d'altronde non ha niente
a che fare con la democrazia astratta, tanto che la Rivoluzione
francese e la terza Repubblica hanno sviluppato delle forme di
centralismo organico che non avevano conosciuto né la
monarchia assoluta né Napoleone I). Saranno da ricercare ed
esaminare i reali rapporti economici e politici che trovano la loro
forma organizzativa, la loro articolazione e la loro funzionalità
nelle diverse manifestazioni di centralismo organico e democratico in
tutti i campi: nella vita statale (unitarismo, federazione, unione di
Stati federati, federazione di Stati o Stato federale ecc.), nella
vita interstatale (alleanza, forme varie di «costellazione»
politica internazionale), nella vita delle associazioni politiche e
culturali (massoneria, Rotary Club, Chiesa cattolica), sindacali
economiche (cartelli, trusts), in uno stesso paese, in diversi paesi
ecc.
Polemiche sorte nel passato
(prima del 1914) a proposito del predominio tedesco nella vita
dell'alta cultura e di alcune forze politiche internazionali: era poi
reale questo predominio o in che cosa realmente consisteva? Si può
dire: a) che nessun nesso organico e disciplinare stabiliva
una tale supremazia, che pertanto era un mero fenomeno di influsso
culturale astratto e di prestigio molto labile; b) che tale
influsso culturale non toccava per nulla l'attività
effettuale, che viceversa era disgregata, localistica, senza
indirizzo d'insieme. Non si può parlare perciò di
nessun centralismo, né organico né democratico né
d'altro genere o misto. L'influsso era sentito e subito da scarsi
gruppi intellettuali, senza legame con le masse popolari e appunto
questa assenza di legame caratterizzava la situazione. Tuttavia un
tale stato di cose è degno di esame perché giova a
spiegare il processo che ha condotto a formulare le teorie del
centralismo organico, che sono state appunto una critica unilaterale
e da intellettuali di quel disordine e di quella dispersione di
forze.
Occorre intanto distinguere
nelle teorie del centralismo organico tra quelle che velano un
preciso programma di predominio reale di una parte sul tutto (sia la
parte costituita da un ceto come quello degli intellettuali, sia
costituita da un gruppo territoriale «privilegiato») e
quelle che sono una pura posizione unilaterale di settari e fanatici,
e che pur potendo nascondere un programma di predominio (di solito di
una singola individualità, come quella del papa infallibile
per cui il cattolicismo si è trasformato in una specie di
culto del pontefice), immediatamente non pare nascondere un tale
programma come fatto politico consapevole. Il nome piú esatto
sarebbe quello di centralismo burocratico. L'«organicità»
non può essere che del centralismo democratico il quale è
un «centralismo» in movimento, per cosí dire, cioè
una continua adeguazione dell'organizzazione al movimento reale, un
contemperare le spinte dal basso con il comando dall'alto, un
inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della
massa nella cornice solida dell'apparato di direzione che assicura la
continuità e l'accumularsi regolare delle esperienze: esso è
«organico» perché tiene conto del movimento, che è
il modo organico di rivelarsi della realtà storica e non si
irrigidisce meccanicamente nella burocrazia, e nello stesso tempo
tiene conto di ciò che è relativamente stabile e
permanente o che per lo meno si muove in una direzione facile a
prevedersi ecc. Questo elemento di stabilità nello Stato si
incarna nello sviluppo organico del nucleo centrale del gruppo
dirigente cosí come avviene in piú ristretta scala
nella vita dei partiti. Il prevalere del centralismo burocratico
nello Stato indica che il gruppo dirigente è saturato
diventando una consorteria angusta che tende a perpetrare i suoi
gretti privilegi regolando o anche soffocando il nascere di forze
contrastanti, anche se queste forze sono omogenee agli interessi
dominanti fondamentali (per es. nei sistemi protezionistici a
oltranza in lotta col liberismo economico). Nei partiti che
rappresentano gruppi socialmente subalterni l'elemento di stabilità
è necessario per assicurare l'egemonia non a gruppi
privilegiati ma agli elementi progressivi, organicamente progressivi
in confronto di altre forze affini e alleate ma composite e
oscillanti.
In ogni caso occorre
rilevare che le manifestazioni morbose di centralismo burocratico
sono avvenute per deficienza di iniziativa e responsabilità
nel basso, cioè per la primitività politica delle forze
periferiche, anche quando esse sono omogenee con il gruppo
territoriale egemone (fenomeno del piemontesismo nei primi decenni
dell'unità italiana). Il formarsi di tali situazioni può
essere estremamente dannoso e pericoloso negli organismi
internazionali (Società delle Nazioni).
Il centralismo democratico
offre una formula elastica, che si presta a molte incarnazioni; essa
vive in quanto è interpretata e adattata continuamente alle
necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò
che è uguale nell'apparente disformità e invece
distinto e anche opposto nell'apparente uniformità per
organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma
in modo che l'organamento e la connessione appaiano una necessità
pratica e «induttiva», sperimentale e non il risultato di
un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè
proprio degli intellettuali puri (o puri asini). Questo lavorio
continuo per sceverare l'elemento «internazionale» e
«unitario» nella realtà nazionale e localistica è
in realtà l'azione politica concreta, l'attività sola
produttiva di progresso storico. Esso richiede una organica unità
tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra
governanti e governati. Le formule di unità e federazione
perdono gran parte del loro significato da questo punto di vista,
mentre conservano il loro veleno nella concezione burocratica, per la
quale finisce col non esistere unità ma palude stagnante,
superficialmente calma e «muta» e non federazione ma
«sacco di patate», cioè giustapposizione meccanica
di singole «unità» senza nesso tra loro.
Il teorema delle
proporzioni definite. Questo teorema può essere impiegato
utilmente per rendere piú chiari e di uno schematismo piú
evidente molti ragionamenti riguardanti la scienza
dell'organizzazione (lo studio dell'apparato amministrativo, della
composizione demografica ecc.) e anche la politica generale (nelle
analisi delle situazioni, dei rapporti di forza, nel problema degli
intellettuali ecc.). S'intende che occorre sempre ricordare come il
ricorso al teorema delle proporzioni definite ha un valore schematico
e metaforico, cioè non può essere applicato
meccanicamente, poiché negli aggregati umani l'elemento
qualitativo (o di capacità tecnica e intellettuale dei singoli
componenti) ha una funzione predominante, mentre non può
essere misurato matematicamente. Perciò si può dire che
ogni aggregato umano ha un suo particolare principio ottimo di
proporzioni definite. Specialmente la scienza dell'organizzazione può
ricorrere utilmente a questo teorema e ciò appare con
chiarezza nell'esercito. Ma ogni forma di società ha un suo
tipo di esercito e ogni tipo di esercito ha un suo principio di
proporzioni definite, che del resto cambia anche per le diverse armi
o specialità. C'è un determinato rapporto tra uomini di
truppa, graduati, sottufficiali, ufficiali subalterni, ufficiali
superiori, stati maggiori, stato maggiore generale ecc. C'è un
rapporto tra le varie armi e specialità tra loro ecc. Ogni
mutamento in una parte determina la necessità di un nuovo
equilibrio col tutto ecc. Politicamente il teorema si può
vedere applicato nei partiti, nei sindacati, nelle fabbriche e vedere
come ogni gruppo sociale ha una propria legge di proporzioni
definite, che varia a seconda del livello di cultura, di indipendenza
mentale, di spirito d'iniziativa e di senso della responsabilità
e della disciplina dei suoi membri piú arretrati e periferici.
La legge delle proporzioni
definite è cosí riassunta dal Pantaleoni nei Principii
di Economia pura: «... I corpi si combinano chimicamente
soltanto in proporzioni definite e ogni quantità di un
elemento che superi la quantità richiesta per una combinazione
con altri elementi, presenti in quantità definite, resta
libera; se la quantità di un elemento è
deficiente per rapporto alla quantità di altri elementi
presenti, la combinazione non avviene che nella misura in cui è
sufficiente la quantità dell'elemento che è presente in
quantità minore degli altri». Si potrebbe
servirsi metaforicamente di questa legge per comprendere come un
«movimento» o tendenza di opinioni, diventa partito, cioè
forza politica efficiente dal punto di vista dell'esercizio del
potere governativo; nella misura appunto in cui possiede (ha
elaborato nel suo interno) dirigenti di vario grado e nella misura in
cui essi dirigenti hanno acquisito determinate capacità.
L'«automatismo» storico di certe premesse (l'esistenza di
certe condizioni obbiettive) viene potenziato politicamente dai
partiti e dagli uomini capaci: la loro assenza o deficienza
(quantitativa e qualitativa) rende sterile l'«automatismo»
stesso (che pertanto non è automatismo): ci sono astrattamente
le premesse, ma le conseguenze non si realizzano perché il
fattore umano manca. Perciò si può dire che i partiti
hanno il compito di elaborare dirigenti capaci, sono la funzione di
massa che seleziona, sviluppa, moltiplica i dirigenti necessari
perché un gruppo sociale definito (che è una quantità
«fissa», in quanto si può stabilire quanti sono i
componenti di ogni gruppo sociale) si articoli e da caos tumultuoso
diventi esercito politico organicamente predisposto. Quando in
elezioni successive dello stesso grado o di grado diverso (per
esempio nella Germania prima di Hitler: elezioni per il presidente
della repubblica, per il Reichstag, per le diete dei Länder, per
i consigli comunali e giú giú fino ai comitati
d'azienda) un partito oscilla nella sua massa di suffragi da massimi
a minimi che sembrano strani e arbitrari, si può dedurre che i
quadri di esso sono deficienti per quantità e per qualità,
o per quantità e non per qualità (relativamente) o per
qualità e non per quantità. Un partito che ha molti
voti nelle elezioni locali e meno in quelle di piú alta
importanza politica, è certo deficiente qualitativamente nella
sua direzione centrale: possiede molti subalterni o almeno in numero
sufficiente, ma non possiede uno stato maggiore adeguato al paese e
alla sua posizione nel mondo, ecc. Analisi di questo genere sono
accennate in altri paragrafi.
Sociologia e scienza
politica (vedere i paragrafi sul Saggio popolare). La
fortuna della sociologia è in relazione con la decadenza del
concetto di scienza politica e di arte politica verificatasi nel
secolo XIX (con piú esattezza nella seconda metà, con
la fortuna delle dottrine evoluzionistiche e positivistiche). Ciò
che di realmente importante è nella sociologia non è
altro che scienza politica. «Politica» divenne sinonimo
di politica parlamentare o di cricche personali. Persuasione che con
le costituzioni e i parlamenti si fosse iniziata un'epoca di
«evoluzione» «naturale», che la società
avesse trovato i suoi fondamenti definitivi perché razionali
ecc. ecc. Ecco che la società può essere studiata col
metodo delle scienze naturali. Impoverimento del concetto di Stato
conseguente a tal modo di vedere. Se scienza politica significa
scienza dello Stato e Stato è tutto il complesso di attività
pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene
il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei
governati, è evidente che tutte le quistioni essenziali della
sociologia non sono altro che le quistioni della scienza politica. Se
c'è un residuo, questo non può essere che di falsi
problemi cioè di problemi oziosi. La quistione che pertanto si
poneva all'autore del Saggio popolare era quella di
determinare in che rapporti poteva essere posta la scienza politica
con la filosofia della praxis, se tra le due esiste identità
(cosa non sostenibile, o sostenibile solo da un punto di vista del
piú gretto positivismo) o se la scienza politica è
l'insieme di principii empirici o pratici che si deducono da una piú
vasta concezione del mondo o filosofia propriamente detta, o se
questa filosofia è solo la scienza dei concetti o categorie
generali che nascono dalla scienza politica ecc. Se è vero che
l'uomo non può essere concepito se non come uomo storicamente
determinato, cioè che si è sviluppato e vive in certe
condizioni, in un determinato complesso sociale o insieme di rapporti
sociali, si può concepire la sociologia come studio solo di
queste condizioni e delle leggi che ne regolano lo sviluppo? Poiché
non si può prescindere dalla volontà e dall'iniziativa
degli uomini stessi, questo concetto non può non essere falso.
Il problema di che cosa è
la «scienza» stessa è da porre.
La scienza non è
essa stessa «attività politica» e pensiero
politico, in quanto trasforma gli uomini, li rende diversi da quelli
che erano prima? Se tutto è «politico» occorre,
per non cadere in un frasario tautologico e noioso distinguere con
concetti nuovi la politica che corrisponde a quella scienza che
tradizionalmente si chiama «filosofia», dalla politica
che si chiama scienza politica in senso stretto. Se la scienza è
«scoperta» di realtà ignorata prima, questa realtà
non viene concepita come trascendente in un certo senso? e non si
pensa che esiste ancora qualcosa di «ignoto» e quindi di
trascendente? E il concetto di scienza come «creazione»
non significa poi come «politica»? Tutto sta nel vedere
se si tratta di creazione «arbitraria» o razionale, cioè
«utile» agli uomini per allargare il loro concetto della
vita, per rendere superiore (sviluppare) la vita stessa.
A proposito del Saggio
popolare e della sua appendice Teoria e pratica è
da vedere nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1933 la
rassegna filosofica di Armando Carlini, da cui risulta che
l'equazione, Teoria: pratica = matematica pura: matematica applicata,
è stata enunziata da un inglese (mi pare Whittaker).
Il numero e la qualità
nei regimi rappresentativi. Uno dei luoghi comuni piú
banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di
formazione degli organi statali è questo, che il «numero
sia in esso legge suprema» e che la «opinione di un
qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in
certi paesi), valga, agli effetti di determinare il corso politico
dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla
Nazione dedichi le sue migliori forze» ecc. (le formulazioni
sono molte, alcune anche piú felici di questa riportata, che è
di Mario da Silva, nella «Critica Fascista» del 15 agosto
1932, ma il contenuto è sempre uguale). Ma il fatto è
che non è vero, in nessun modo, che il numero sia «legge
suprema», né che il peso dell'opinione di ogni elettore
sia «esattamente» uguale. I numeri, anche in questo caso,
sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un
rapporto e niente di piú. E che cosa poi si misura? Si misura
proprio l'efficacia e la capacità di espansione e di
persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle
élites, delle avanguardie ecc. ecc. cioè la loro
razionalità o storicità o funzionalità concreta.
Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni
dei singoli sia «esattamente» uguale. Le idee e le
opinioni non «nascono» spontaneamente nel cervello di
ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione,
di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una
singola individualità che le ha elaborate e presentate nella
forma politica d'attualità. La numerazione dei «voti»
è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui
l'influsso massimo appartiene proprio a quelli che «dedicano
allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze» (quando lo
sono). Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze
materiali sterminate che possiede, non ha il consenso della
maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante
gli interessi «nazionali» che non possono non essere
prevalenti nell'indurre la volontà nazionale in un senso
piuttosto che in un altro. «Disgraziatamente» ognuno è
portato a confondere il proprio «particulare» con
l'interesse nazionale e quindi a trovare «orribile» ecc.
che sia la «legge del numero» a decidere; è certo
miglior cosa diventare élite per decreto. Non si tratta
pertanto di chi «ha molto» intellettualmente che si sente
ridotto al livello dell'ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver
molto e che vuole togliere all'uomo «qualunque» anche
quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere
sul corso della vita statale.
Dalla critica (di origine
oligarchica e non di élite) al regime parlamentaristico (è
strano che esso non sia criticato perché la razionalità
storicistica del consenso numerico è sistematicamente
falsificata dall'influsso della ricchezza), queste affermazioni
banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non
parlamentaristico, e non foggiato secondo i canoni della democrazia
formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte. In questi altri
regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale,
tutt'altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo,
fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come
«funzionari» dello Stato e le elezioni un modo di
arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che
in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al
self-government. Le elezioni avvenendo non su programmi generici e
vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consentite si impegna a
fare qualcosa di piú del comune cittadino legale, per
realizzarli, a essere cioè una avanguardia di lavoro attivo e
responsabile. L'elemento «volontariato» nell'iniziativa
non potrebbe essere stimolato in altro modo per le piú larghe
moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi,
ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere
l'importanza che la manifestazione del voto può avere. (Queste
osservazioni potrebbero essere svolte piú ampiamente e
organicamente, mettendo in rilievo anche altre differenze tra i
diversi tipi di elezionismo, a seconda che mutano i rapporti generali
sociali e politici: rapporto tra funzionari elettivi e funzionari di
carriera ecc.).
La proposizione che «la
società non si pone problemi per la cui soluzione non esistano
già le premesse materiali». È il problema
della formazione di una volontà collettiva che dipende
immediatamente da questa proposizione e analizzare criticamente cosa
la proposizione significhi importa ricercare come appunto si formino
le volontà collettive permanenti, e come tali volontà
si propongano dei fini immediati e mediati concreti, cioè una
linea d'azione collettiva. Si tratta di processi di sviluppo piú
o meno lunghi, e raramente di esplosioni «sintetiche»
improvvise. Anche le «esplosioni» sintetiche si
verificano, ma, osservando da vicino, si vede che allora si tratta di
distruggere piú che ricostruire, di rimuovere ostacoli
esteriori e meccanici allo sviluppo autoctono e spontaneo: cosí
può assumersi come esemplare il Vespro Siciliano.
Si potrebbe studiare in
concreto la formazione di un movimento storico collettivo,
analizzandolo in tutte le sue fasi molecolari, ciò che di
solito non si fa perché appesantirebbe ogni trattazione: si
assumono invece le correnti d'opinione già costituite intorno
a un gruppo o a una personalità dominante. È il
problema che modernamente si esprime in termini di partito o di
coalizione di partiti affini: come si inizia la costituzione di un
partito, come si sviluppa la sua forza organizzata e di influenza
sociale ecc. Si tratta di un processo molecolare, minutissimo, di
analisi estrema, capillare, la cui documentazione è costituita
da una quantità sterminata di libri, di opuscoli, di articoli
di rivista e di giornale, di conversazioni e dibattiti a voce che si
ripetono infinite volte e che nel loro insieme gigantesco
rappresentano questo lavorio da cui nasce una volontà
collettiva di un certo grado di omogeneità, di quel certo
grado che è necessario e sufficiente per determinare un'azione
coordinata e simultanea nel tempo e nello spazio geografico in cui il
fatto storico si verifica.
Importanza delle utopie e
delle ideologie confuse e razionalistiche nella fase iniziale dei
processi storici di formazione delle volontà collettive: le
utopie, il razionalismo astratto hanno la stessa importanza delle
vecchie concezioni del mondo storicamente elaborate per accumulazione
di esperienze successive. Ciò che importa è la critica
a cui tale complesso ideologico viene sottoposto dai primi
rappresentanti della nuova fase storica: attraverso questa critica si
ha un processo di distinzione e di cambiamento nel peso relativo che
gli elementi delle vecchie ideologie possedevano: ciò che era
secondario e subordinato o anche incidentale, viene assunto come
principale, diventa il nucleo di un nuovo complesso ideologico e
dottrinale. La vecchia volontà collettiva si disgrega nei suoi
elementi contradittori, perché di questi elementi quelli
subordinati si sviluppano socialmente ecc.
Dopo la formazione del
regime dei partiti, fase storica legata alla standardizzazione di
grandi masse della popolazione (comunicazioni, giornali, grandi città
ecc.) i processi molecolari avvengono piú rapidamente che nel
passato, ecc.
Quistione dell'«uomo
collettivo» o del «conformismo sociale».
Compito educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di
creare nuovi e piú alti tipi di civiltà, di adeguare la
«civiltà» e la moralità delle piú
vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo
dell'apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche
fisicamente dei tipi nuovi d'umanità. Ma come ogni singolo
individuo riuscirà a incorporarsi nell'uomo collettivo e come
avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il
consenso e la collaborazione, facendo diventare «libertà»
la necessità e la coercizione? Quistione del «diritto»,
il cui concetto dovrà essere esteso, comprendendovi anche
quelle attività che oggi cadono sotto la formula di
«indifferente giuridico» e che sono di dominio della
società civile che opera senza «sanzioni» e senza
«obbligazioni» tassative, ma non per tanto esercita una
pressione collettiva e ottiene risultati obbiettivi di elaborazione
nei costumi, nei modi di pensare e di operare, nella moralità
ecc.
Concetto politico della
cosí detta «rivoluzione permanente» sorto prima
del 1848, come espressione scientificamente elaborata delle
esperienze giacobine dal 1789 al Termidoro. La formula è
propria di un periodo storico in cui non esistevano ancora i grandi
partiti politici di massa e i grandi sindacati economici e la società
era ancora, per dir cosí, allo stato di fluidità sotto
molti aspetti: maggiore arretratezza della campagna e monopolio quasi
completo dell'efficienza politico-statale in poche città o
addirittura in una sola (Parigi per la Francia), apparato statale
relativamente poco sviluppato e maggiore autonomia della società
civile dall'attività statale, determinato sistema delle forze
militari e dell'armamento nazionale, maggiore autonomia delle
economie nazionali dai rapporti economici del mercato mondiale ecc.
Nel periodo dopo il 1870, con l'espansione coloniale europea, tutti
questi elementi mutano, i rapporti organizzativi interni e
internazionali dello Stato diventano piú complessi e massicci
e la formula quarantottesca della «rivoluzione permanente»
viene elaborata e superata nella scienza politica nella formula di
«egemonia civile». Avviene nell'arte politica ciò
che avviene nell'arte militare: la guerra di movimento diventa sempre
piú guerra di posizione e si può dire che uno Stato
vince una guerra in quanto la prepara minutamente e tecnicamente nel
tempo di pace. La struttura massiccia delle democrazie moderne, sia
come organizzazioni statali che come complesso di associazioni nella
vita civile costituiscono per l'arte politica come le «trincee»
e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione:
essi rendono solo «parziale» l'elemento del movimento che
prima era «tutta» la guerra ecc.
La quistione si pone per
gli Stati moderni, non per i paesi arretrati e per le colonie, dove
vigono ancora le forme che altrove sono superate e divenute
anacronistiche. Anche la quistione del valore delle ideologie (come
si può trarre dalla polemica Malagodi-Croce) – con le
osservazioni del Croce sul «mito» soreliano, che si
possono ritorcere contro la «passione» – deve
essere studiata in un trattato di scienza politica.
Fase
economica-corporativa dello Stato. Il Guicciardini segna un passo
indietro nella scienza politica di fronte al Machiavelli. Il maggiore
«pessimismo» del Guicciardini significa solo questo. Il
Guicciardini ritorna a un pensiero politico puramente italiano,
mentre il Machiavelli si era innalzato a un pensiero europeo. Non si
comprende il Machiavelli se non si tiene conto che egli supera
l'esperienza italiana nell'esperienza europea (internazionale in
quell'epoca): la sua «volontà» sarebbe utopistica,
senza l'esperienza europea. La stessa concezione della «natura
umana» diventa per questo fatto diversa nei due. Nella «natura
umana» del Machiavelli è compreso l'«uomo europeo»
e questo uomo in Francia e in Ispagna ha effettualmente superato la
fase feudale disgregata nella monarchia assoluta: dunque non è
la «natura umana» che si oppone a che in Italia sorga una
monarchia assoluta unitaria, ma condizioni transitorie che la volontà
può superare. Il Machiavelli è «pessimista»
(o meglio «realista») nel considerare gli uomini e i
moventi del loro operare; il Guicciardini non è pessimista, ma
scettico e gretto.
Paolo Treves (cfr. Il
realismo politico di Francesco Guicciardini, in «Nuova
Rivista Storica», novembre-dicembre 1930) commette molti errori
nei giudizi sul Guicciardini e Machiavelli. Non distingue bene
«politica» da «diplomazia», ma proprio in
questa non distinzione è la causa dei suoi errati
apprezzamenti. Nella politica infatti l'elemento volitivo ha
un'importanza molto piú grande che nella diplomazia. La
diplomazia sanziona e tende a conservare le situazioni create
dall'urto delle politiche statali; è creativa solo per
metafora o per convenzione filosofica (tutta l'attività umana
è creativa). I rapporti internazionali riguardano un
equilibrio di forze in cui ogni singolo elemento statale può
influire molto debolmente: Firenze poteva influire rafforzando se
stessa, per esempio, ma questo rafforzamento, se pure avesse
migliorato la sua posizione nell'equilibrio italiano ed europeo non
poteva certo essere pensato come decisivo per capovolgere l'insieme
dell'equilibrio stesso. Perciò il diplomatico, per lo stesso
abito professionale, è portato allo scetticismo e alla
grettezza conservatrice.
Nei rapporti interni di uno
Stato, la situazione è incomparabilmente piú favorevole
all'iniziativa centrale, a una volontà di comando, cosí
come la intendeva il Machiavelli. Il giudizio dato dal De Sanctis del
Guicciardini è molto piú realistico di quanto il Treves
creda. È da porre la domanda perché il De Sanctis fosse
meglio preparato del Treves a dare questo giudizio storicamente e
scientificamente piú esatto. Il De Sanctis partecipò a
un momento creativo della storia politica italiana, a un momento in
cui l'efficienza della volontà politica, rivolta a suscitare
forze nuove ed originali e non solo a calcolare su quelle
tradizionali, concepite come impossibili di sviluppo e di
riorganizzazione (scetticismo politico guicciardinesco), aveva
mostrato tutta la sua potenzialità non solo nell'arte di
fondare uno stato dall'interno ma anche di padroneggiare i rapporti
internazionali, svecchiando i metodi professionali e abitudinari
della diplomazia (con Cavour). L'atmosfera culturale era propizia a
una concezione piú comprensivamente realistica della scienza e
dell'arte politica. Ma anche senza questa atmosfera era impossibile
al De Sanctis di comprendere Machiavelli? L'atmosfera data dal
momento storico arricchisce i saggi del De Sanctis di un pathos
sentimentale che rende piú simpatico e appassionante
l'argomento, piú artisticamente espressiva e cattivante
l'esposizione scientifica, ma il contenuto logico della scienza
politica potrebbe essere stato pensato anche nei periodi di peggiore
reazione. Non è forse la reazione anch'essa un atto
costruttivo di volontà? E non è atto volontario la
conservazione? Perché dunque sarebbe «utopistica»
la volontà del Machiavelli perché rivoluzionaria e non
utopistica la volontà di chi vuol conservare l'esistente e
impedire il sorgere e l'organizzarsi di forze nuove che turberebbero
e capovolgerebbero l'equilibrio tradizionale? La scienza politica
astrae l'elemento «volontà» e non tiene conto del
fine a cui una volontà determinata è applicata.
L'attributo di «utopistico» non è proprio della
volontà politica in generale, ma delle particolari volontà
che non sanno connettere il mezzo al fine e pertanto non sono neanche
volontà, ma velleità, sogni, desideri, ecc.
Lo scetticismo del
Guicciardini (non pessimismo dell'intelligenza, che può essere
unito a un ottimismo della volontà nei politici realistici
attivi) ha diverse origini: 1) l'abito diplomatico, cioè di
una professione subalterna, subordinata, esecutivo-burocratica che
deve accettare una volontà estranea (quella politica del
proprio governo o principe) alle convinzioni particolari del
diplomatico (che può, è vero, sentire quella volontà
come propria, in quanto corrisponde alle proprie convinzioni, ma può
anche non sentirla: l'essere la diplomazia divenuta necessariamente
una professione specializzata, ha portato a questa conseguenza, di
poter staccare il diplomatico dalla politica dei governi mutevoli
ecc.), quindi scetticismo e, nell'elaborazione scientifica,
pregiudizi extrascientifici; 2) le convinzioni stesse del
Guicciardini che era conservatore, nel quadro generale della politica
italiana, e perciò teorizza le proprie opinioni, la propria
posizione politica, ecc.
Gli scritti del
Guicciardini sono piú segno dei tempi, che scienza politica, e
questo è il giudizio del De Sanctis; come segno dei tempi e
non saggio di storia della scienza politica è lo scritto di
Paolo Treves.
Egemonia (società
civile) e divisione dei poteri. La divisione dei poteri e
tutta la discussione avvenuta per la sua realizzazione e la dogmatica
giuridica nata dal suo avvento, sono il risultato della lotta tra la
società civile e la società politica di un determinato
periodo storico, con un certo equilibrio instabile delle classi,
determinato dal fatto che certe categorie d'intellettuali (al diretto
servizio dello Stato, specialmente burocrazia civile e militare) sono
ancora troppo legate alle vecchie classi dominanti. Si verifica cioè
nell'interno della società quello che il Croce chiama il
«perpetuo conflitto tra Chiesa e Stato», in cui la Chiesa
è presa a rappresentare la società civile nel suo
insieme (mentre non ne è che un elemento gradatamente meno
importante) e lo Stato ogni tentativo di cristallizzare
permanentemente un determinato stadio di sviluppo, una determinata
situazione. In questo senso la Chiesa stessa può diventare
Stato e il conflitto può manifestarsi tra Società
civile laica e laicizzante e Stato-Chiesa (quando la Chiesa è
diventata una parte integrante dello Stato, della società
politica monopolizzata da un determinato gruppo privilegiato che si
aggrega la Chiesa per sostenere meglio il suo monopolio col sostegno
di quella zona di società civile rappresentata dalla Chiesa).
Importanza essenziale della divisione dei poteri per il liberalismo
politico ed economico: tutta l'ideologia liberale, con le sue forze e
le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della
divisione dei poteri e appare quale sia la fonte della debolezza del
liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione
del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un
certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della
eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è
estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione (principio
della Costituente in permanenza ecc.; nelle Repubbliche l'elezione a
tempo del capo dello Stato dà una soddisfazione illusoria a
questa rivendicazione popolare elementare).
Unità dello Stato
nella distinzione dei poteri: il Parlamento piú legato alla
società civile, il potere giudiziario tra Governo e
Parlamento, rappresenta la continuità della legge scritta
(anche contro il Governo). Naturalmente tutti e tre i poteri sono
anche organi dell'egemonia politica, ma in diversa misura: 1)
Parlamento; 2) Magistratura; 3) Governo. È da notare come nel
pubblico facciano specialmente impressione disastrosa le scorrettezze
della amministrazione della giustizia: l'apparato egemonico è
piú sensibile in questo settore, al quale possono ricondursi
anche gli arbitri della polizia e dell'amministrazione politica.
[Concezione del
diritto.] Una concezione del diritto che deve essere
essenzialmente rinnovatrice. Essa non può essere trovata,
integralmente, in nessuna dottrina preesistente (neanche nella
dottrina della cosí detta scuola positiva, e particolarmente
nella dottrina del Ferri). Se ogni Stato tende a creare e a mantenere
un certo tipo di civiltà e di cittadino (e quindi di
connivenza e di rapporti individuali), tende a far sparire certi
costumi e attitudini e a diffonderne altri, il diritto sarà lo
strumento per questo fine (accanto alla scuola ed altre istituzioni
ed attività) e deve essere elaborato affinché sia
conforme al fine, sia massimamente efficace e produttivo di risultati
positivi. La concezione del diritto dovrà essere liberata da
ogni residuo di trascendenza e di assoluto, praticamente di ogni
fanatismo moralistico, tuttavia mi pare non possa partire dal punto
di vista che lo Stato non «punisce» (se questo termine è
ridotto al suo significato umano) ma lotta solo contro la
«pericolosità» sociale. In realtà lo Stato
deve essere concepito come «educatore» in quanto tende
appunto a creare un nuovo tipo o livello di civiltà. Per il
fatto che si opera essenzialmente sulle forze economiche, che si
riorganizza e si sviluppa l'apparato di produzione economica, che si
innova la struttura, non deve trarsi la conseguenza che i fatti di
soprastruttura debbano abbandonarsi a se stessi, al loro sviluppo
spontaneo, a una germinazione casuale e sporadica. Lo Stato, anche in
questo campo, è uno strumento di «razionalizzazione»,
di accelerazione e di taylorizzazione, opera secondo un piano, preme,
incita, sollecita, e «punisce», poiché, create le
condizioni in cui un determinato modo di vita è «possibile»,
l'«azione o l'omissione criminale» devono avere una
sanzione punitiva, di portata morale, e non solo un giudizio di
pericolosità generica. Il diritto è l'aspetto
repressivo e negativo di tutta l'attività positiva di
incivilimento svolta dallo Stato. Nella concezione del diritto
dovrebbero essere incorporate anche le attività «premiatrici»
di individui, di gruppi ecc.; si premia l'attività lodevole e
meritoria, come si punisce l'attività criminale (e si punisce
in modi originali, facendo intervenire l'«opinione pubblica»,
come sanzionatrice).
[Politica e diritto
costituzionale.] Nella «Nuova Antologia» del 16
dicembre 1929 è pubblicata una noticina di certo M. Azzalini,
La politica, scienza ed arte di Stato, che può essere
interessante come presentazione degli elementi tra cui si dibatte lo
schematismo scientifico. L'Azzalini incomincia affermando che fu
gloria «fulgidissima» del Machiavelli «l'aver
circoscritto nello Stato l'ambito della politica». Cosa voglia
dire l'Azzalini non è facile da capire: egli riporta dal cap.
III del Principe il periodo: «Dicendomi el cardinale di
Roano che li italiani non si intendevano della guerra, io li risposi
ch'e' Franzesi non si intendevano dello Stato» e su questa sola
citazione basa l'affermazione che, dunque, per Machiavelli «la
politica dovesse intendersi come scienza e come scienza dello Stato»
e che fu sua gloria ecc. (il termine «scienza di Stato»
per politica sarebbe stato adoperato, nel corretto significato
moderno, prima di Machiavelli solo da Marsilio da Padova). L'Azzalini
è abbastanza leggero e superficiale. L'aneddoto del cardinale
di Roano, avulso dal testo, non significa nulla. Nel contesto assume
un significato che non si presta a deduzioni scientifiche: si tratta
evidentemente di un motto di spirito, di una battuta di ritorsione
immediata. Il cardinale di Roano aveva affermato che gli italiani non
si intendono di guerra: per ritorsione il Machiavelli risponde che i
francesi non si intendono dello Stato, perché altrimenti non
avrebbero permesso al Papa di ampliare il suo potere in Italia, ciò
che era contro gli interessi dello Stato francese. Il Machiavelli era
ben lungi dal pensare che i francesi non s'intendevano di Stato,
perché anzi egli ammirava il modo con cui la monarchia (Luigi
XI) aveva ridotto a unità statale la Francia e dell'attività
francese di Stato faceva un termine di paragone per l'Italia. In quel
suo discorso col cardinale di Roano egli fece della «politica»
in atto e non della «scienza politica» poiché,
secondo lui, se era dannoso alla «politica estera»
francese che il Papa si rafforzasse, ciò era ancor piú
dannoso alla politica interna italiana.
Il curioso è che
partendo da tale incongrua citazione l'Azzalini continui che «pur
enunciandosi che quella scienza studia lo Stato, si dà una
definizione (!?) del tutto imprecisa (!) perché non si indica
con che criterio debba riguardarsi l'oggetto dell'indagine. E la
imprecisione è assoluta dato che tutte le scienze giuridiche
in generale ed il diritto pubblico in particolare, si riferiscano
indirettamente e direttamente a quell'elemento». Cosa vuol dire
tutto ciò, riferito al Machiavelli? Meno di niente: confusione
mentale.
Il Machiavelli ha scritto
dei libri di «azione politica immediata», non ha scritto
un'utopia in cui uno Stato già costituito, con tutte le sue
funzioni e i suoi elementi costituiti, fosse vagheggiato. Nella sua
trattazione, nella sua critica del presente, ha espresso dei concetti
generali, che pertanto si presentano in forma aforistica e non
sistematica, e ha espresso una concezione del mondo originale, che si
potrebbe anch'essa chiamare «filosofia della praxis» o
«neo-umanesimo» in quanto non riconosce elementi
trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta
sull'azione concreta dell'uomo che per le sue necessità
storiche opera e trasforma la realtà. Non è vero, come
pare credere l'Azzalini, che nel Machiavelli non sia tenuto conto del
«diritto costituzionale», perché in tutto il
Machiavelli si trovano sparsi principii generali di diritto
costituzionale ed anzi egli afferma, abbastanza chiaramente, la
necessità che nello Stato domini la legge, dei principi fissi,
secondo i quali i cittadini virtuosi possano operare sicuri di non
cadere sotto i colpi dell'arbitrario. Ma giustamente il Machiavelli
riconduce tutto alla politica, cioè all'arte di governare gli
uomini, di procurarsene il consenso permanente, di fondare quindi i
«grandi Stati». Bisogna ricordare che il Machiavelli
sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria
comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una
popolazione tale da essere la base di una forza militare che
permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in
Italia, col Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che essa
sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata
«politica» dello Stato e non piú politica del Papa
per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo
nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per
interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano
perturbatori e disgregatori.
Si potrebbe trovare nel
Machiavelli la conferma di ciò che ho altrove notato, che la
borghesia italiana medioevale non seppe uscire dalla fase corporativa
per entrare in quella politica perché non seppe completamente
liberarsi dalla concezione medioevale-cosmopolitica rappresentata dal
Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici (umanisti), cioè
non seppe creare uno Stato autonomo, ma rimase nella cornice
medioevale feudale e cosmopolita.
Scrive l'Azzalini che
«basta [...] la sola definizione di Ulpiano e, meglio ancora,
gli esempi di lui, recati nel digesto, [...] la identità
estrinseca (e allora?) dell'oggetto delle due scienze: "Ius
publicum ad statum rei (publicae) romanae spectat. – Publicum
ius, in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit". Si
ha quindi una identità d'oggetto nel diritto pubblico e nella
scienza politica, ma non sostanziale perché i criteri con cui
l'una o l'altra scienza riguardano la medesima materia sono del tutto
diversi. Diverse infatti sono le sfere dell'ordine giuridico e
dell'ordine politico. E per vero mentre la prima osserva l'organismo
pubblico sotto un punto di vista statico, come il prodotto naturale
di una determinata evoluzione storica, la seconda osserva quel
medesimo organismo da un punto di vista dinamico, come un prodotto
che può essere valutato nei suoi pregi e nei suoi difetti e
che, conseguentemente, deve essere modificato a seconda delle nuove
esigenze e delle ulteriori evoluzioni». Perciò si
potrebbe dire che «l'ordine giuridico è ontologico ed
analitico, perché studia ed analizza i diversi istituti
pubblici nel loro reale essere» mentre «l'ordine
politico, deontologico e critico perché studia i vari istituti
non come sono, ma come dovrebbero essere e cioè con criteri di
valutazione e giudizi di opportunità che non sono né
possono essere giuridici».
E un tal barbassore crede
di essere un ammiratore di Machiavelli e di esserne discepolo,
magari, anzi, perfezionatore!
«Da ciò
consegue che alla formale identità suddescritta si oppone una
sostanziale diversità tanto profonda e notevole da non
consentire, forse, il giudizio espresso da uno dei massimi
pubblicisti contemporanei che riteneva difficile se non impossibile
creare una scienza politica completamente distinta dal diritto
costituzionale. A noi sembra che il giudizio espresso sia vero solo
se si arresta a questo punto l'analisi dell'aspetto giuridico e
dell'aspetto politico, ma non se si prosegue oltre individuando
quell'ulteriore campo che è di esclusiva competenza della
scienza politica. Quest'ultima, infatti, non si limita a studiare
l'organizzazione dello Stato con un criterio deontologico e critico e
però diverso da quello usato per il medesimo oggetto dal
diritto pubblico, ma amplia la sua sfera ad un campo che le è
proprio, indagando le leggi che regolano il sorgere, il divenire, il
declinare degli Stati. Né vale raffermare che tale studio è
della storia (!) intesa con significato generale (!), perché
pur ammettendo che sia indagine storica la ricerca delle cause, degli
effetti, dei mutui vincoli d'interdipendenza delle leggi naturali che
governano l'essere e il divenire degli Stati, rimarrà sempre
di pertinenza esclusivamente politica, non storica quindi, né
giuridica, la ricerca di mezzi idonei per presiedere praticamente
all'indirizzo generale politico. La funzione che il Machiavelli si
riprometteva di svolgere e sintetizzava dicendo: "disputerò
come questi principati si possano governare e tenere" (Principe,
c. II) è tale per importanza intrinseca di argomento e per
specificazione, non solo da legittimare l'autonomia della politica,
ma da consentire, almeno sotto l'aspetto ultimamente delineato, una
distinzione anche formale fra essa ed il diritto pubblico». Ed
ecco cosa intende per autonomia della politica!
Ma, dice l'Azzalini, oltre
una scienza, esiste un'arte politica. «Esistono uomini che
traggono o trassero dall'intuizione personale la visione dei bisogni
e degli interessi dei paesi governati, che nell'opera di governo
attuarono nel mondo esterno la visione dell'intuito personale. Con
ciò non vogliamo certamente dire che l'attività
intuitiva e però artistica sia l'unica e la prevalente
nell'uomo di Stato; vogliamo solo dire che in esso, accanto alle
attività pratiche, economiche e morali, deve sussistere anche
quell'attività teoretica sopraindicata, sia sotto l'aspetto
soggettivo dell'intuizione che sotto l'aspetto oggettivo (!)
dell'espressione e che, mancando tali requisiti, non può
sussistere l'uomo di governo e tanto meno (!) l'uomo di Stato il cui
fastigio è caratterizzato appunto da quella inacquistabile (?)
facoltà. Anche nel campo politico, quindi, oltre lo scienziato
in cui prevale la attività teoretica conoscitiva, sussiste
l'artista in cui prevale l'attività teoretica intuitiva. Né
con ciò si esaurisce interamente la sfera d'azione dell'arte
politica che oltre all'essere osservata in relazione allo statista
che colle funzioni pratiche del governo estrinseca la
rappresentazione interna dell'intuito, può essere valutata in
relazione allo scrittore che realizza nel mondo esterno (!) la verità
politica intuita non con atti di potere ma con opere e scritti che
traducono l'intuito dell'autore. È il caso dell'indiano
Kamandaki (III secolo d. C.), del Petrarca nel Trattatello pei
Carraresi, del Botero nella Ragion di Stato e, sotto certi
aspetti, del Machiavelli e del Mazzini».
È veramente un bel
pasticcio, degno del... Machiavelli, ma specialmente di Tittoni,
direttore della «Nuova Antologia». L'Azzalini non sa
orientarsi né nella filosofia, né nella scienza della
politica. Ma ho voluto prendere tutte queste note per cercare di
sbrogliarne l'intrigo e vedere di giungere a concetti chiari per
conto mio.
È da distrigare, per
es., ciò che può significare «intuizione»
nella politica e l'espressione «arte» politica, ecc. –
Ricordare insieme alcuni punti del Bergson: «L'intelligenza non
ci offre della vita (la realtà in movimento) che una
traduzione in termini di inerzia. Essa gira tutt'attorno, prendendo
dal di fuori il piú gran numero possibile di vedute
dell'oggetto che essa attira presso di sé invece di entrare in
esso. Ma nell'interno stesso della vita ci condurrà
l'intuizione: intendo dire l'istinto divenuto disinteressato».
«Il nostro occhio percepisce i tratti dell'essere vivente, ma
avvicinati l'uno all'altro, non organizzati tra loro. L'intenzione
della vita, il movimento semplice che corre attraverso le linee, che
le lega una con l'altra e dà loro un significato, gli sfugge;
ed è questa intenzione che l'artista tende ad affermare
collocandosi nell'interno dell'oggetto con una specie di simpatia,
abbassando con uno sforzo di intuizione la barriera che lo spazio
pone fra lui e il modello. È vero però che l'intuizione
estetica non afferra che l'individuale». «L'intelligenza
è caratterizzata da una incomprensibilità naturale
della vita poi che essa non rappresenta chiaramente che il
discontinuo e l'immobilità». Distacco, intanto,
dell'intuizione politica dall'intuizione estetica, o lirica, o
artistica: solo per metafora si parla di arte politica. L'intuizione
politica non si esprime nell'artista, ma nel «capo» e si
deve intendere per «intuizione» non la «conoscenza
degli individuali» ma la rapidità di connettere fatti
apparentemente estranei tra loro e di concepire i mezzi adeguati al
fine per trovare gli interessi in gioco e suscitare le passioni degli
uomini e indirizzare questi a una determinata azione. L'«espressione»
del «capo» è l'«azione» (in senso
positivo o negativo: scatenare un'azione o impedire che avvenga una
determinata azione, congruente o incongruente col fine che si vuol
raggiungere). D'altronde il «capo in politica» può
essere un individuo, ma anche un corpo politico piú o meno
numeroso, nel qual ultimo caso la unità d'intenti sarà
raggiunta da un individuo o da un piccolo gruppo interno e nel
piccolo gruppo da un individuo che può mutare volta a volta
pur rimanendo il gruppo unitario e coerente nella sua opera
continuativa.
Se si dovesse tradurre in
linguaggio politico moderno la nozione di «Principe»,
cosí come essa serve nel libro del Machiavelli, si dovrebbe
fare una serie di distinzioni: «principe» potrebbe essere
un capo di Stato, un capo di governo, ma anche un capo politico che
vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato; in
questo senso «principe» potrebbe tradursi in lingua
moderna «partito politico». Nella realtà di
qualche Stato il «capo dello Stato», cioè
l'elemento equilibratore dei diversi interessi in lotta contro
l'interesse prevalente, ma non esclusivista in senso assoluto, è
appunto il «partito politico»; esso però a
differenza che nel diritto costituzionale tradizionale né
regna, né governa giuridicamente: ha «il potere di
fatto», esercita la funzione egemonica e quindi equilibratrice
di interessi diversi, nella «società civile», che
però è talmente intrecciata di fatto con la società
politica che tutti i cittadini sentono che esso invece regna e
governa. Su questa realtà che è in continuo movimento,
non si può creare un diritto costituzionale, del tipo
tradizionale, ma solo un sistema di principii che affermano come fine
dello Stato la sua propria fine, il suo proprio sparire, cioè
il riassorbimento della società politica nella società
civile.
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