Note sparse
[Internazionalismo e
politica nazionale.] Scritto (a domande e risposte) di Giuseppe
Bessarione del settembre 1927 su alcuni punti essenziali di scienza e
di arte politica. Il punto che mi pare sia da svolgere è
questo: come secondo la filosofia della prassi (nella sua
manifestazione politica) sia nella formulazione del suo fondatore, ma
specialmente nella precisazione del suo piú recente grande
teorico, la situazione internazionale debba essere considerata nel
suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto «nazionale»
è il risultato di una combinazione «originale»
unica (in un certo senso) che in questa originalità e unicità
deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla.
Certo lo sviluppo è verso l'internazionalismo, ma il punto di
partenza è «nazionale» ed è da questo punto
di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è
internazionale e non può essere che tale. Occorre pertanto
studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe
internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la
prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è
tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di
cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può
dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive. Su questo
punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici e
Bessarione come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di
nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione.
Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si
vede che la sua originalità consiste nel depurare
l'internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in
senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica. Il
concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze
di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale
concetto non parlino o solo lo sfiorino. Una classe di carattere
internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali
(intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali,
particolaristi e municipalisti (i contadini), deve «nazionalizzarsi»,
in un certo senso, e questo senso non è d'altronde molto
stretto, perché prima che si formino le condizioni di una
economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare
fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di
nazioni) possono essere varie. D'altronde non bisogna mai dimenticare
che lo sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a
quando l'iniziativa non sia nettamente passata dalla parte delle
forze che tendono alla costruzione secondo un piano, di pacifica e
solidale divisione del lavoro.
Che i concetti non
nazionali (cioè non riferibili a ogni singolo paese) siano
sbagliati si vede per assurdo: essi hanno portato alla passività
e all'inerzia in due fasi ben distinte: 1) nella prima fase, nessuno
credeva di dover incominciare, cioè riteneva che incominciando
si sarebbe trovato isolato; nell'attesa che tutti insieme si
muovessero, nessuno intanto si muoveva e organizzava il movimento; 2)
la seconda fase è forse peggiore, perché si aspetta una
forma di «napoleonismo» anacronistico e antinaturale
(poiché non tutte le fasi storiche si ripetono nella stessa
forma). Le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio
meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione
permanente che non è altro che una previsione generica
presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto
che non si manifesta effettualmente.
Interpretazione del
Principe. Se, come è stato scritto in altre note,
l'interpretazione del Principe deve (o può) esser fatta
ponendo come centro del libro l'invocazione finale, è da
rivedere quanto di «reale» ci sia nella interpretazione
cosí detta «satirica e rivoluzionaria» di esso
(come si esprime Enrico Carrara nella nota al passo rispettivo dei
Sepolcri nella sua opera scolastica Storia ed esempi della
Letteratura Italiana, VII, L'ottocento, p. 59 (ed.
Signorelli, Milano). Per ciò che riguarda il Foscolo non pare
debba parlarsi di una particolare interpretazione del Principe,
cioè dell'attribuzione al Machiavelli di intenzioni riposte
democratiche e rivoluzionarie; piú giusto pare l'accenno del
Croce (nel libro sulla Storia del Barocco) che risponde alla
lettera dei Sepolcri, e cioè: «Il Machiavelli,
per il fatto stesso di "temprare" lo scettro, ecc., di
rendere il potere dei principi piú coerente e consapevole, ne
sfronda gli allori, distrugge i miti, mostra cosa sia realmente
questo potere ecc.»; cioè la scienza politica, in quanto
scienza, è utile sia ai governanti che ai governati per
comprendersi reciprocamente.
Nei Ragguagli del
Parnaso del Boccalini la quistione del Principe è
invece posta in modo tutto diverso che nei Sepolcri. Ma è
da domandare: chi vuole satireggiare il Boccalini? Machiavelli o i
suoi avversari? La quistione è dal Boccalini posta cosí:
«I nemici del Machiavelli reputano il Machiavelli uomo degno di
punizione perché ha esposto come i principi governano e cosí
facendo ha istruito il popolo; ha "messo alle pecore denti di
cane", ha distrutto i miti del potere, il prestigio
dell'autorità, ha reso piú difficile il governare,
poiché i governati ne possono sapere quanto i governanti, le
illusioni sono rese impossibili ecc.». È da vedere tutta
l'impostazione politica del Boccalini, che in questo ragguaglio mi
pare faccia la satira degli antimachiavellici, i quali non sono tali
perché non facciano in realtà ciò che il
Machiavelli ha scritto, cioè non sono antimachiavellici perché
il Machiavelli abbia avuto torto, ma perché ciò che il
Machiavelli scrive «si fa e non si dice», anzi è
fattibile appunto perché non è criticamente spiegato e
sistemato. Il Machiavelli è odiato perché «ha
scoperto gli altarini» dell'arte di governo ecc.
La quistione si pone anche
oggi e l'esperienza della vita dei partiti moderni è
istruttiva; quante volte si è sentito il rimprovero per aver
mostrato criticamente gli errori dei governanti: «mostrando ai
governanti gli errori che essi fanno, voi insegnate loro a non fare
errori», cioè «fate il loro gioco» Z..
Questa concezione [è] legata alla teoria fanciullesca del
«tanto peggio, tanto meglio». La paura di «fare il
gioco» degli avversari è delle piú comiche ed è
legata al concetto balordo di ritenere sempre gli avversari degli
stupidi; è anche legata alla non comprensione delle
«necessità» storico-politiche, per cui «certi
errori devono essere fatti» e il criticarli è utile per
educare la propria parte.
Pare che le intenzioni del
Machiavelli nello scrivere il Principe siano state piú
complesse e anche «piú democratiche» di quanto non
sarebbero secondo l'interpretazione «democratica». Cioè
il Machiavelli ritiene che la necessità dello Stato unitario
nazionale è cosí grande che tutti accetteranno che per
raggiungere questo altissimo fine siano impiegati i soli mezzi che
sono idonei. Si può quindi dire che il Machiavelli si sia
proposto di educare il popolo, ma non nel senso che di solito si dà
a questa espressione o almeno gli hanno dato certe correnti
democratiche. Per il Machiavelli «educare il popolo» può
aver significato solo renderlo convinto e consapevole che può
esistere una sola politica, quella realistica, per raggiungere il
fine voluto e che pertanto occorre stringersi intorno e obbedire
proprio a quel principe che tali metodi impiega per raggiungere il
fine, perché solo chi vuole il fine vuole i mezzi idonei a
raggiungerlo. La posizione del Machiavelli, in tal senso, sarebbe da
avvicinare a quella dei teorici e dei politici della filosofia della
prassi, che anche essi hanno cercato di costruire e diffondere un
«realismo» popolare, di massa e hanno dovuto lottare
contro una forma di «gesuitismo» adeguato ai tempi
diversi. La «democrazia» del Machiavelli è di un
tipo adatto ai tempi suoi, è cioè il consenso attivo
delle masse popolari per la monarchia assoluta, in quanto limitatrice
e distruttrice dell'anarchia feudale e signorile e del potere dei
preti, in quanto fondatrice di grandi Stati territoriali nazionali,
funzione che la monarchia assoluta non poteva adempiere senza
l'appoggio della borghesia e di un esercito stanziale, nazionale,
centralizzato, ecc.
«Doppiezza»
e «ingenuità» del Machiavelli.
Cfr. articolo di Adolfo Oxilia Machiavelli nel teatro («Cultura»
dell'ottobre-dicembre 1933). Interpretazione romantico-liberale del
Machiavelli (Rousseau nel Contratto Sociale, III, 6; Foscolo
nei Sepolcri; Mazzini nel breve saggio sul Machiavelli).
Mazzini scrive: «Ecco ciò che i vostri principi, deboli
e vili quanti sono, faranno per dominarvi: or pensateci».
Rousseau vede nel Machiavelli un «gran republicano», il
quale fu costretto dai tempi – senza che ne derivi alcuna
menomazione della sua dignità morale – a «déguiser
son amour pour la liberté» e a fingere di dare lezioni
ai re per darne «des grandes aux peuples». Filippo Burzio
ha notato che una tale interpretazione, invece di giustificare
moralmente il machiavellismo, in realtà prospetta un
«machiavellismo al quadrato»: giacché l'autore del
Principe non solo darebbe consigli di frode bensí anche
con frode, a rovina di coloro stessi cui sono rivolti.
Questa interpretazione
«democratica» del Machiavelli risalirebbe al Cardinale
Polo e ad Alberico Gentili (sarà da vedere il libro del
Villari e quello del Tommasini nella parte che riguarda la fortuna
del Machiavelli). A me pare che il brano di Traiano Boccalini nei
Ragguagli del Parnaso sia molto piú significativo di
tutte le impostazioni dei «grandi studiosi di politica» e
che tutto si riduca a un'applicazione del proverbio volgare «chi
sa il gioco non l'insegni». La corrente «antimachiavellica»
non è che la manifestazione teorica di questo principio di
arte politica elementare: che certe cose si fanno ma non si dicono.
Proprio da questo pare
nasca il problema piú interessante: perché il
Machiavelli ha scritto il Principe, non come una «memoria»
segreta o riservata, come «istruzioni» di un consigliere
a un principe, ma come un libro che avrebbe dovuto andare nelle mani
di tutti? Per scrivere un'opera di «scienza»
disinteressata, come potrebbe arguirsi dagli accenni del Croce? Pare
ciò sia contro lo spirito dei tempi, sia una concezione
anacronistica. Per «ingenuità», dato che il
Machiavelli è visto come un teorico e non come uomo d'azione?
Non pare accettabile l'ipotesi dell'«ingenuità»
vanitosa e «chiacchierona». Bisogna ricostruire i tempi,
e le esigenze che il Machiavelli vedeva in essi. In realtà,
pare si possa dire, nonostante che il Principe abbia una
destinazione precisa, che il libro non è scritto per nessuno e
per tutti: è scritto per un ipotetico «uomo della
provvidenza» che potrebbe manifestarsi cosí come si era
manifestato il Valentino o altri condottieri, dal nulla, senza
tradizione dinastica, per le sue qualità militari eccezionali.
La conclusione del Principe giustifica tutto il libro anche
verso le masse popolari che realmente dimenticano i mezzi impiegati
per raggiungere un fine se questo fine è storicamente
progressivo, cioè risolve i problemi essenziali dell'epoca e
stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare
tranquillamente. Nell'interpretare il Machiavelli si dimentica che la
monarchia assoluta era in quei tempi una forma di reggimento popolare
e che essa si appoggiava sui borghesi contro i nobili e anche contro
il clero. (L'Oxilia accenna all'ipotesi che l'interpretazione
democratica del Machiavelli nel periodo '700-800 sia stata rafforzata
e resa piú ovvia dal Giorno del Parini, «satirico
istitutore del giovin signore, come il Machiavelli – in
altri tempi, con altre nature e misure d'uomini – sarebbe stato
il tragico istitutore del principe»).
[1.] Cfr. ciò che
scrive l'Alfieri sul Machiavelli nel libro Del principe e delle
lettere. Parlando delle «massime immorali e tiranniche»
che si potrebbero ricavare «qua e là» dal Principe
l'Alfieri nota: «e queste dall'autore sono messe in luce (a
chi ben riflette) molto piú per disvelare ai popoli le
ambizioni ed avvedute crudeltà dei principi che non certamente
per insegnare ai principi a praticarle: poiché essi piú
o meno sempre le adoprano, le hanno adoperate e le adopereranno,
secondo il loro bisogno, ingegno e destrezza». A parte
l'interpretazione democratica, la nota è giusta: ma certo il
Machiavelli non voleva «solo» insegnare ai principi le
«massime» che essi conoscevano e adoperavano. Voleva
invece insegnare la «coerenza» nell'arte di governo e la
coerenza impiegata ad un certo fine: la creazione di uno Stato
unitario italiano. Cioè il Principe non è un
libro di «scienza», accademicamente inteso, ma di
«passione politica immediata», un «manifesto»
di partito, che si fonda su una concezione «scientifica»
dell'arte politica. Il Machiavelli insegna davvero la «coerenza»
dei mezzi «bestiali», e ciò è contro la
tesi dell'Alderisio (di cui occorre vedere lo scritto Intorno
all'arte dello Stato del Machiavelli. Discussione ulteriore
dell'interpretazione di essa come «pura politica»,
nei «Nuovi Studi» del giugno-ottobre 1932) ma questa
«coerenza» non è una cosa meramente formale, ma la
forma necessaria di una determinata linea politica attuale. Che poi
dalla esposizione del Machiavelli si possano trarre elementi di una
«pura politica» è altra quistione: ciò
riguarda il posto che il Machiavelli occupa nel processo di
formazione della scienza politica «moderna», che non è
piccolo. L'Alderisio imposta male tutto il problema, e le qualche
buone ragioni che può avere si perdono nella sconnessione del
quadro generale sbagliato.
II. La quistione del perché
il Machiavelli abbia scritto il Principe e le altre opere non
è una semplice quistione di cultura o di psicologia
dell'autore: essa serve a spiegare in parte il fascino di questi
scritti, la loro vivacità e originalità. Non si tratta
certo di «trattati» del tipo medioevale; neppure si
tratta di opere di un avvocato curiale che voglia giustificare le
operazioni o il modo di operare dei suoi «sostentatori» o
sia pure del suo principe. Le opere del Machiavelli sono di carattere
«individualistico», espressioni di una personalità
che vuole intervenire nella politica e nella storia del suo paese e
in tal senso sono di origine «democratica». C'è la
«passione» del «giacobino» nel Machiavelli e
perciò egli doveva tanto piacere ai giacobini e agli
illuministi: è questo un elemento «nazionale» in
senso proprio e dovrebbe essere studiato preliminarmente in ogni
ricerca sul Machiavelli.
Articolo di Luigi Cavina
nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1927: Il sogno
nazionale di Niccolò Machiavelli in Romagna e il governo di
Francesco Guicciardini.
L'argomento del saggio è
interessante, ma il Cavina non ne sa trarre tutte le conseguenze
necessarie, dato il carattere superficialmente descrittivo e retorico
dello scritto.
Dopo la battaglia di Pavia
e la definitiva sconfitta dei Francesi, che assicurava l'egemonia
spagnola nella penisola, i signori italiani sono invasi dal panico.
Il Machiavelli che si era recato a Roma per consegnare personalmente
a Clemente VII le Istorie Fiorentine che aveva ultimato,
propone al papa di creare una milizia nazionale (significato preciso
del termine) e lo convince a fare un esperimento. Il papa invia il
Machiavelli in Romagna presso Francesco Guicciardini che ne era
Presidente, con un breve in data 6 giugno 1525. Il Machiavelli doveva
esporre al Guicciardini il suo progetto e il Guicciardini doveva dare
il suo parere.
Il breve di Clemente VII
deve essere tutto interessante; egli espone lo sconvolgimento in cui
si trova l'Italia, cosí grande da indurre a cercare anche
rimedi nuovi e inconsueti e conclude: «Res magna est, ut
iudicamus, et salus est in ea cum status ecclesiastici, tum totius
Italiae ac prope universae cristianitatis reposita», dove si
vede come l'Italia era per il papa il termine medio tra lo Stato
ecclesiastico e la cristianità.
Perché l'esperienza
in Romagna? Oltre alla fiducia che il papa aveva nella prudenza
politica del Guicciardini, occorre forse pensare ad altri elementi: i
Romagnoli erano buoni soldati, avevano combattuto con valore e
fedeltà ad Agnadello, sia pure da mercenari. C'era poi stato
in Romagna il precedente del Valentino, che aveva reclutato tra il
popolo buoni soldati, ecc.
Il Guicciardini fino dal
1512 aveva scritto che il dare le armi ai cittadini «non è
cosa aliena da uno vivere di repubblica e populare, perché
quando vi si dà una giustizia buona e ordinate leggi,
quelle armi non si adoperano in pernizie, ma in utilità della
patria» e aveva lodato anche l'istituzione dell'ordinanza
ideata dal Machiavelli (tentativo di creare a Firenze una milizia
cittadina, che preparò la resistenza durante l'assedio).
Ma il Guicciardini non
credeva possibile fare il tentativo in Romagna per le fierissime
divisioni di parte che vi dominavano (interessanti i giudizi del
Guicciardini sulla Romagna): i ghibellini dopo la vittoria di Pavia
sono pronti ad ogni novità; anche se non si danno le armi
nascerà qualche subbuglio; non si può dare le armi per
opporsi agli imperiali proprio ai fautori degli imperiali. La
difficoltà inoltre è accresciuta dal fatto che lo Stato
è ecclesiastico, cioè senza direttive a lunga scadenza
e con facili grazie e impunità, alla piú lunga ad ogni
nuova elezione di papa. In altro Stato le fazioni si potrebbero
domare, non nello Stato della Chiesa. Poiché Clemente VII col
suo breve aveva detto che al buon risultato dell'impresa occorrevano
non solo ordine e diligenza, ma anche l'impegno e l'amore del
popolo, il Guicciardini dice che ciò non può essere
perché «La Chiesa in effetto non ci ha amici, né
quelli che desidererebbero bene vivere, né per diverse ragioni
i faziosi e tristi».
Ma l'iniziativa non ebbe
altro seguito, perché il papa lasciò cadere il
progetto. L'episodio è tuttavia del massimo interesse, per
mostrare quanto grande fosse la volontà e la virtú di
persuasione del Machiavelli, per i giudizi pratici immediati del
Guicciardini e anche per l'atteggiamento del papa che evidentemente
rimase per qualche tempo sotto l'influsso del Machiavelli; il breve
può assumersi come un compendio della concezione del
Machiavelli adattata alla mentalità pontificia.
Non si conoscono le ragioni
che il Machiavelli (deve) aver contrapposto alle osservazioni del
Guicciardini, perché questi non ne parla nelle sue lettere e
le lettere del Machiavelli a Roma non si conoscono. Si può
osservare che le innovazioni militari sostenute dal Machiavelli non
potevano essere improvvisate in pieno sviluppo dell'invasione
spagnola e che le sue proposte al papa in quel momento non potevano
avere risultati concreti.
Armi e religione.
Affermazione del Guicciardini che per la vita di uno Stato due cose
sono assolutamente necessarie: le armi e la religione. La formula del
Guicciardini può essere tradotta in varie formule, meno
drastiche: forza e consenso, coercizione e persuasione, Stato e
Chiesa, società politica e società civile, politica e
morale (storia etico-politica del Croce), diritto e libertà,
ordine e disciplina, o, con un giudizio implicito di sapore
libertario, violenza e frode. In ogni caso nella concezione politica
del Rinascimento la religione era il consenso e la Chiesa era la
Società civile, l'apparato di egemonia del gruppo dirigente,
che non aveva un apparato proprio, cioè non aveva una propria
organizzazione culturale e intellettuale, ma sentiva come tale
l'organizzazione ecclesiastica universale. Non si è fuori del
Medio Evo che per il fatto che apertamente si concepisce e si
analizza la religione come «instrumentum regni».
Da questo punto di vista è
da studiare l'iniziativa giacobina dell'istituzione del culto
dell'«Ente supremo», che appare pertanto come un
tentativo di creare identità tra Stato e società
civile, di unificare dittatorialmente gli elementi costitutivi dello
Stato in senso organico e piú largo (Stato propriamente detto
e società civile) in una disperata ricerca di stringere in
pugno tutta la vita popolare e nazionale, ma appare anche come la
prima radice dello Stato moderno laico, indipendente dalla Chiesa,
che cerca e trova in se stesso, nella sua vita complessa, tutti gli
elementi della sua personalità storica.
Nel libro di Clemenceau,
Grandeurs et misères d'une victoire, Plon, 1930, nel
capitolo «Les critiques de l'escalier» sono contenute
alcune delle osservazioni generali da me fatte nella nota
sull'articolo di Paolo Treves, Il realismo politico di
Guicciardini: per es. la distinzione tra politici e diplomatici.
I diplomatici sono stati formati (dressés) per l'esecuzione,
non per l'iniziativa, dice Clemenceau, ecc. Il capitolo è
tutto di polemica contro Poincaré che aveva rimproverato il
non impiego dei diplomatici nella preparazione dei trattato di
Versailles. Clemenceau, da puro uomo d'azione, da puro politico, è
estremamente sarcastico contro Poincaré, il suo spirito
avvocatesco, le sue illusioni che si possa creare la storia coi
cavilli, coi sotterfugi, con le abilità formali, ecc. «La
diplomatie est
instituée [plutôt] pour le maintien des inconciliables
que pour l'innovation des imprévus. Dans le mot "diplomate"
il y a la racine double,
au sens de plier».
(È vero però che questo concetto di doppio non
si riferisce ai «diplomatici» ma ai «diplomi»
che i diplomatici conservavano e aveva un significato materiale, di
foglio piegato).
Teoria e pratica.
Riletta la famosa dedica del Bandello a Giovanni delle Bande Nere
dove si parla del Machiavelli e dei suoi tentativi inutili per
ordinare secondo le sue teorie dell'arte della guerra una moltitudine
di soldati in campo, mentre Giovanni delle Bande Nere «in un
batter d'occhio con l'aita dei tamburini» ordinò «quella
gente in vari modi e forme, con ammirazione grandissima di chi vi si
ritrovò». Appare chiaro che né in Bandello e
neanche in Giovanni vi fu alcun proposito di «sfottere»
il Machiavelli per la sua incapacità, e che lo stesso
Machiavelli non se l'ebbe a male. L'impiego di questo aneddoto per
trarre conseguenze sull'astrattezza del Machiavelli è un non
senso e dimostra che non si capisce la sua portata esatta. Il
Machiavelli non era un militare di professione, ecco tutto; cioè
non sapeva il «linguaggio» degli ordini e dei segnali
militari (trombe, tamburi ecc.). D'altronde prima che un complesso di
soldati, graduati, sottufficiali, ufficiali, abbia preso l'abitudine
a evolvere in un certo senso, ci vuole molto tempo. Un ordinamento
teorico delle milizie può essere ottimo in tutto, ma per
essere applicato deve diventare «regolamento»,
disposizioni d'esercizio, ecc., «linguaggio» subito
capito e quasi automaticamente attuato. Si sa che molti legislatori
di primo ordine non sanno compilare i «regolamenti»
burocratici e organizzare gli uffici e selezionare il personale atto
ad applicare le leggi, ecc. Si può dire dunque solo questo del
Machiavelli, che fu troppo corrivo ad improvvisarsi «tamburino».
La quistione è
tuttavia importante: non si può scindere
l'amministratore-funzionario dal legislatore, l'organizzatore dal
dirigente, ecc. Ma ciò non si è attuato neanche oggi e
la «divisione del lavoro» supplisce non solo
all'incapacità relativa, ma integra «economicamente»
l'attività principale del grande stratega, del legislatore,
del capo politico, che si fanno aiutare da specialisti in compilare
«regolamenti», «istruzioni», «ordinamenti
pratici», ecc.
Machiavelli ed Emanuele
Filiberto. Un articolo della «Civiltà Cattolica»
del 15 dicembre 1928 (Emanuele Filiberto di Savoia nel IV
Centenario della nascita) si inizia cosí: «La
coincidenza della morte del Machiavelli con la nascita di Emanuele
Filiberto, non è senza ammaestramento. È piena di alto
significato l'antitesi rappresentata dai due personaggi, l'uno dei
quali scompare dalla scena del mondo, amareggiato e deluso, mentre
l'altro sta per affacciarsi alla vita, ancora circondata di mistero,
in quegli anni appunto che possiamo considerare come la linea di
distacco tra l'età del Rinascimento e la Riforma cattolica.
Machiavelli ed Emanuele Filiberto: chi può meglio
personificare i due volti diversi, le due correnti opposte che si
contendono il dominio del secolo XVI? Avrebbe mai immaginato il
Segretario Fiorentino che proprio quel secolo, al quale aveva
auspicato un Principe, in sostanza, pagano nel pensiero e nell'opera,
avrebbe invece veduto il monarca che piú si avvicinò
all'ideale del perfetto principe cristiano?».
Le cose sono molto diverse
da quelle che paiono allo scrittore della «Civiltà
Cattolica», ed Emanuele Filiberto continua e realizza
Machiavelli piú di quanto non possa sembrare per esempio
nell'ordinamento delle milizie nazionali. D'altronde, Emanuele
Filiberto per altre cose poteva richiamarsi al Machiavelli; egli non
rifuggiva anche dal far sopprimere con la violenza e con la frode i
suoi nemici.
Questo articolo della
«Civiltà Cattolica» interessa per i rapporti tra
Emanuele Filiberto e i gesuiti e per la parte presa da questi nella
lotta contro i Valdesi.
Su Emanuele Filiberto,
è interessante, scritto con serietà (non agiografico)
l'articolo di Pietro Egidi nella «Nuova Antologia» del 16
aprile 1928, Emanuele Filiberto di Savoia. Le capacità
militari di Emanuele Filiberto sono delineate con perspicuità:
Emanuele Filiberto segna il passaggio dalla strategia degli eserciti
di ventura alla nuova strategia che troverà poi i suoi
rappresentanti in Federico II e in Napoleone: la grande guerra di
movimento per obbiettivi capitali e decisivi. A Cateau Cambrésis
riesce a riottenere, per l'aiuto della Spagna, il suo Stato, ma nel
trattato è stabilita la «neutralità» del
Piemonte, cioè è stabilita l'indipendenza sia da
Francia che da Spagna (l'Egidi sostiene che sia stato Emanuele
Filiberto a suggerire ai francesi di domandare questa neutralità,
per essere in grado di sfuggire alla soggezione spagnola, ma si
tratta di ipotesi: in questo caso gli interessi della Francia e
quelli del Piemonte coincidevano perfettamente): cosí si
inizia la politica estera moderna dei Savoia di equilibrio tra le due
potenze principali dell'Europa. Ma dopo questa pace il Piemonte perde
già da allora irreparabilmente alcune terre: Ginevra e le
terre intorno al lago di Ginevra.
In una storia bisognerebbe
almeno accennare alle varie fasi territoriali attraversate dal
Piemonte, da prevalentemente francese a franco-piemontese, a
italiano. (Emanuele Filiberto fu fondamentalmente un generale della
Controriforma).
L'Egidi delinea abbastanza
perspicuamente anche la politica estera di Emanuele Filiberto, ma non
dà che cenni insufficienti sulla politica interna e
specialmente militare, e i pochi cenni sono legati a quei fatti di
politica interna che dipendevano strettamente dall'estero, cioè
dall'unificazione territoriale dello Stato per le retrocessioni delle
terre ancora occupate da francesi e spagnoli dopo Cateau Cambrésis
o dagli accordi coi Cantoni Svizzeri per riacquistare qualche
elemento delle terre perdute. (Per lo studio su Machiavelli studiare
specialmente gli ordinamenti militari di Emanuele Filiberto e la sua
politica interna per rispetto all'equilibrio di classi su cui si
fondò il principato assoluto dei Savoia).
Lo Stato. Il prof.
Giulio Miskolczy, direttore dell'Accademia ungherese di Roma, nella
«Magyar Szemle» (articolo riportato nella «Rassegna
della Stampa Estera» del 3-10 gennaio 1933) scrive che in
Italia il «Parlamento, che prima era, per cosí dire,
fuori dello Stato, è rimasto un collaboratore prezioso, ma è
stato inserito nello Stato ed ha subito un cambiamento essenziale
nella sua composizione ecc.». Che il Parlamento possa essere
«inserito» nello Stato è una scoperta di scienza e
di tecnica politica degna dei Cristoforo Colombo del forcaiolismo
moderno. Tuttavia l'affermazione è interessante, per vedere
come concepiscono lo Stato praticamente molti uomini politici. E in
realtà è da porsi la domanda: i Parlamenti fanno parte
della struttura degli Stati, anche nei paesi dove pare che i
Parlamenti abbiano il massimo di efficienza, oppure che funzione
reale hanno? E in che modo, se la risposta è positiva, essi
fanno parte dello Stato, e in che modo esplicano la loro funzione
particolare? Tuttavia: l'esistenza dei Parlamenti, anche se essi
organicamente non fanno parte dello Stato, è senza significato
statale? E quale fondamento hanno le accuse che si fanno al
parlamentarismo e al regime dei partiti, che è inseparabile
dal parlamentarismo? (fondamento obbiettivo, s'intende, cioè
legato al fatto che l'esistenza dei Parlamenti, di per sé,
ostacola e ritarda l'azione tecnica del governo). Che il
regime rappresentativo possa politicamente «dar noia»
alla burocrazia di carriera s'intende; ma non è questo il
punto. Il punto è se [il] regime rappresentativo e dei partiti
invece di essere un meccanismo idoneo a scegliere funzionari eletti
che integrino ed equilibrino i burocratici nominati, per impedire [ad
essi] di pietrificarsi, sia divenuto un inciampo e un meccanismo a
rovescio e per quali ragioni. Del resto, anche una risposta
affermativa a queste domande non esaurisce la quistione: perché
anche ammesso (ciò che è da ammettere) che il
parlamentarismo è divenuto inefficiente e anzi dannoso, non è
da concludere che il regime burocratico sia riabilitato ed esaltato.
È da vedere se parlamentarismo e regime rappresentativo si
identificano e se non sia possibile una diversa soluzione sia del
parlamentarismo che del regime burocratico, con un nuovo tipo di
regime rappresentativo.
I limiti dell'attività
dello Stato. Vedere la discussione avvenuta in questi anni a
questo proposito: è la discussione piú importante di
dottrina politica e serve a segnare i confini tra liberali e non
liberali. Può servire di punto di riferimento il volumetto di
Carlo Alberto Biggini, Il fondamento dei limiti all'attività
dello Stato, Città di Castello, Casa ed. «Il Solco»,
pp. 150, L. 10. L'affermazione del Biggini che si ha tirannia solo se
si vuol regnare fuor «delle regole costitutive della struttura
sociale» può avere ampliamenti ben diversi da quelli che
il Biggini suppone, purché per «regole costitutive»
non si intendano gli articoli delle Costituzioni, come pare non
intenda neanche il Biggini (prendo lo spunto da una recensione
dell'ICS dell'ottobre 1929 scritta da Alfredo Poggi). (In quanto lo
Stato è la stessa società ordinata, è sovrano.
Non può avere limite giuridico: non può avere limite
nei diritti pubblici soggettivi, né può dirsi che si
autolimiti. Il diritto positivo non può essere limite allo
Stato perché può essere dallo Stato ad ogni momento
modificato in nome di nuove esigenze sociali, ecc.).
A questo risponde il Poggi
che sta bene e che ciò è già implicito nella
dottrina del limite giuridico cioè finché un
ordinamento giuridico è, lo Stato vi è costretto; se lo
vuol modificare, lo sostituirà con un altro ordinamento, cioè
lo Stato non può agire che [per] via giuridica (ma siccome
tutto ciò che fa lo Stato, è per ciò stesso
giuridico, si può continuare all'infinito). Veder quanto delle
concezioni del Biggini è marxismo camuffato e reso astratto.
Per lo svolgimento storico
di queste due concezioni dello Stato mi pare debba essere
interessante il libretto di Widar Cesarini Sforza, «Jus»
et «directum». Note sull'origine storica
dell'idea di diritto, in 8°, pp. 90, Bologna, Stab. tipogr.
riuniti, 1930. I romani foggiarono la parola jus per esprimere
il diritto come potere della volontà e intesero l'ordine
giuridico come un sistema di poteri non contenuti nella loro sfera
reciproca da norme oggettive e razionali: tutte le espressioni da
essi usate di aequitas, Justitia, recta o
naturalis ratio devono intendersi nei limiti di questo
significato fondamentale. Il Cristianesimo piú che il concetto
di jus ha elaborato il concetto di directum nella sua
tendenza a subordinare la volontà alla norma, a trasformare il
potere in dovere. Il concetto di diritto come potenza è
riferito solo a Dio, la cui volontà diventa norma di condotta
inspirata al principio dell'eguaglianza. La Justitia non si
distingue ormai dall'aequitas ed entrambe implicano la
rectitudo che è qualità soggettiva del volere di
conformarsi a ciò che è retto e giusto. Traggo questi
spunti da una recensione (nel «Leonardo» dell'agosto
1930) di G. Solari che fa rapide obbiezioni al Cesarini Sforza.
Stato e società
regolata. Nelle nuove tendenze «giuridiche»
rappresentate specialmente dai «Nuovi Studi» del
Volpicelli e dello Spirito è da notare, come spunto critico
iniziale, la confusione tra il concetto di Stato-classe e il concetto
di società regolata. Questa confusione è specialmente
notevole nella memoria La libertà economica svolta
dallo Spirito nella XIX Riunione della Società per il
progresso delle Scienze tenuta a Bolzano nel settembre 1930 e
stampata nei «Nuovi Studi» del settembre-ottobre 1930.
Finché esiste lo Stato-classe non può esistere la
società regolata, altro che per metafora, cioè solo nel
senso che anche lo Stato-classe è una società regolata.
Gli utopisti, in quanto esprimevano una critica della società
esistente al loro tempo, comprendevano benissimo che lo Stato-classe
non poteva essere la società regolata, tanto vero che nei tipi
di società rappresentati dalle diverse utopie, s'introduce
l'uguaglianza economica come base necessaria della riforma
progettata: ora in questo gli utopisti non erano utopisti, ma
concreti scienziati della politica e critici congruenti. Il carattere
utopistico di alcuni di essi era dato dal fatto che ritenevano si
potesse introdurre la uguaglianza economica con leggi arbitrarie, con
un atto di volontà, ecc. Rimane però esatto il
concetto, che si trova anche in altri scrittori di politica (anche di
destra, cioè nei critici della democrazia, in quanto essa si
serve del modello svizzero o danese per ritenere il sistema
ragionevole in tutti i paesi) che non può esistere eguaglianza
politica completa e perfetta senza eguaglianza economica: negli
scrittori del Seicento questo concetto si ritrova, per esempio, in
Ludovico Zuccolo e nel suo libro Il Belluzzi e credo anche in
Machiavelli. Il Maurras ritiene che in Svizzera sia possibile quella
certa forma di democrazia, appunto perché c'è una certa
mediocrità delle fortune economiche, ecc.
La confusione di
Stato-classe e Società regolata è propria delle classi
medie e dei piccoli intellettuali, che sarebbero lieti di una
qualsiasi regolarizzazione che impedisse le lotte acute e le
catastrofi: è concezione tipicamente reazionaria e regressiva.
Stato etico o di
cultura. Mi pare che ciò che di piú sensato e
concreto si possa dire a proposito dello Stato etico e di cultura è
questo: ogni Stato è etico in quanto una delle sue funzioni
piú importanti è quella di elevare la grande massa
della popolazione a un determinato livello culturale e morale,
livello (o tipo) che corrisponde alle necessità di sviluppo
delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi
dominanti. La scuola come funzione educativa positiva e i tribunali
come funzione educativa repressiva e negativa sono le attività
statali piú importanti in tal senso: ma in realtà
alfine tendono una molteplicità di altre iniziative e attività
cosidette private che formano l'apparato dell'egemonia politica e
culturale delle classi dominanti. La concezione di Hegel è
propria di un periodo in cui lo sviluppo in estensione della
borghesia poteva apparire illimitato, quindi l'eticità o
universalità di essa poteva essere affermata: tutto il genere
umano sarà borghese. Ma in realtà solo il gruppo
sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da
raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine
alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo
sociale unitario tecnico-morale.
Hegel e
l'associazionismo. La dottrina di Hegel sui partiti e le
associazioni come trama «privata» dello Stato. Essa
derivò storicamente dalle esperienze politiche della
Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza
al costituzionalismo. Governo col consenso dei governati, ma col
consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma
nell'istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma
anche «educa» questo consenso con le associazioni
politiche e sindacali, che però sono organismi privati,
lasciati all'iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un
certo senso, supera già, cosí, il puro
costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime dei
partiti. La sua concezione dell'associazione non può essere
che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l'economico, secondo
l'esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un
solo esempio compiuto di organizzazione, quello «corporativo»
(politica innestata nell'economia).
Marx non poteva avere
esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto
superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività
giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell'organizzazione
rimane ancora impigliato tra questi elementi: organizzazione di
mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi,
organizzazione giornalistica. La Rivoluzione francese offre due tipi
prevalenti: i clubs, che sono organizzazioni non rigide, tipo
«comizio popolare», centralizzate da singole
individualità politiche, ognuna delle quali ha il suo
giornale, con cui tiene desta l'attenzione e l'interesse di una
determinata clientela sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi
del giornale nelle riunioni del club. È certo che in mezzo
agli assidui dei clubs dovevano esistere aggruppamenti ristretti e
selezionati di gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva
a parte e preparava l'atmosfera delle riunioni per sostenere l'una o
l'altra corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi
concreti in gioco. Le cospirazioni segrete, che poi ebbero tanta
diffusione in Italia prima del '48, dovettero svilupparsi dopo il
Termidoro in Francia, tra i seguaci di seconda linea del
giacobinismo, con molte difficoltà nel periodo napoleonico per
l'occhiuto controllo della polizia, con piú facilità
dal '15 al '30 sotto la Restaurazione, che fu abbastanza liberale
alla base e non aveva certe preoccupazioni. In questo periodo dal '15
al '30 dovette avvenire la differenziazione del campo politico
popolare, che appare già notevole nelle «gloriose
giornate» del 1830, in cui affiorano le formazioni venutesi
costituendo nel quindicennio precedente. Dopo il '30 e fino al '48
questo processo di differenziazione si perfeziona e dà dei
tipi abbastanza compiuti con Blanqui e con Filippo Buonarroti.
È difficile che
Hegel potesse conoscere da vicino queste esperienze storiche, che
invece erano piú vivaci in Marx (su questa serie di fatti
vedere come primo materiale le pubblicazioni di Paul Louis e il
Dizionario politico di Maurice Block; per la Rivoluzione francese
specialmente Aulard; vedere anche le note dell'Andler al Manifesto;
per l'Italia il libro del Luzio sulla Massoneria e il Risorgimento,
molto tendenzioso).
Lo Stato e la concezione
del diritto. La rivoluzione portata dalla classe borghese nella
concezione del diritto e quindi nella funzione dello Stato consiste
specialmente nella volontà di conformismo (quindi eticità
del diritto e dello Stato). Le classi dominanti precedenti erano
essenzialmente conservatrici nel senso che non tendevano ad elaborare
un passaggio organico dalle altre classi alla loro, ad allargare cioè
la loro sfera di classe «tecnicamente» e ideologicamente:
la concezione di casta chiusa. La classe borghese pone se stessa come
un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la
società, assimilandola al suo livello culturale ed economico:
tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato diventa
«educatore», ecc. Come avvenga un arresto e si ritorni
alla concezione dello Stato come pura forza ecc. La classe borghese è
«saturata»: non solo non si diffonde, ma si disgrega; non
solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se
stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente piú
numerose delle assimilazioni). Una classe che ponga se stessa come
passibile di assimilare tutta la società, e sia nello stesso
tempo realmente capace di esprimere questo processo, porta alla
perfezione questa concezione dello Stato e del diritto, tanto da
concepire la fine dello Stato e del diritto come diventati inutili
per aver esaurito il loro compito ed essere stati assorbiti dalla
società civile.
Concetto di Stato.
Che il concetto comune di Stato sia unilaterale e conduca a errori
madornali si può dimostrare parlando del recente libro di
Daniele Halévy Decadenza della libertà di cui ho
letto una recensione nelle «Nouvelles Littéraires».
Per Halévy «Stato» è l'apparato
rappresentativo ed egli scopre che i fatti piú importanti
della storia francese dal '70 ad oggi non sono dovuti ad iniziative
degli organismi politici derivanti dal suffragio universale, ma o da
organismi privati (società capitalistiche, Stato maggiore,
ecc.) o da grandi funzionari sconosciuti al paese, ecc. Ma cosa
significa ciò se non che per Stato deve intendersi oltre
all'apparato governativo anche l'apparato «privato» di
egemonia o società civile. È da notare come da questa
critica dello «Stato» che non interviene, che è
alla coda degli avvenimenti, ecc., nasce la corrente ideologica
dittatoriale di destra, col suo rafforzamento dell'esecutivo, ecc.
Bisognerebbe però leggere il libro dell'Halévy per
vedere se anch'egli è entrato in questa via: non è
difficile in linea di principio, dati i suoi precedenti (simpatie
soreliane, per Maurras, ecc.).
Curzio Malaparte
nell'introduzione al suo volumetto sulla Tecnica del colpo di
Stato pare affermi l'equivalenza della formula: «Tutto
nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»
con la proposizione: «dove c'è la libertà non c'è
lo Stato». In questa proposizione il termine «libertà»
non è inteso nel significato comune di «libertà
politica, ossia di stampa ecc.», ma come contrapposto a
«necessità» ed è in relazione alla
proposizione di Engels sul passaggio dal regno della necessità
al regno della libertà. Il Malaparte non ha neanche annasato
il significato della proposizione.
Lo
Stato «veilleur
de nuit».
Nella polemica (del resto superficiale) sulle funzioni
dello Stato (e si intende dello Stato come organizzazione
politico-giuridica in senso stretto) l'espressione di «Stato -
veilleur de nuit» corrisponde all'italiano di «Stato
carabiniere» e vorrebbe significare uno Stato le cui funzioni
sono limitate alla tutela dell'ordine pubblico e del rispetto delle
leggi. Non si insiste sul fatto che in questa forma di regime (che
poi non è mai esistito altro che, come ipotesi-limite, sulla
carta) la direzione dello sviluppo storico appartiene alle forze
private, alla società civile, che è anch'essa «Stato»,
anzi è lo Stato stesso. Pare che l'espressione «veilleur
de nuit», che dovrebbe avere un valore piú sarcastico di
«Stato carabiniere» o di «Stato poliziotto»,
sia di Lassalle. Il suo opposto dovrebbe essere lo «Stato
etico» o lo «Stato intervenzionista» in generale,
ma ci sono differenze tra una e l'altra espressione: il concetto di
Stato etico è di origine filosofica e intellettuale (propria
degli intellettuali: Hegel) e in verità potrebbe essere
congiunta con quello di «Stato - veilleur de nuit»,
poiché si riferisce piuttosto all'attività, autonoma,
educativa e morale dello Stato laico in contrapposto al
cosmopolitismo e all'ingerenza dell'organizzazione
religioso-ecclesiastica come residuo medioevale; il concetto di Stato
intervenzionista è di origine economica ed è connesso,
da una parte, alle correnti protezionistiche o di nazionalismo
economico e, dall'altra, al tentativo di far assumere a un personale
statale determinato, di origine terriera e feudale, la «protezione»
delle classi lavoratrici contro gli eccessi del capitalismo (politica
di Bismarck e Disraeli). Queste diverse tendenze possono combinarsi
in vario modo e di fatto si sono combinate. Naturalmente i liberali
«economisti» sono per lo «Stato - veilleur de
nuit» e vorrebbero che l'iniziativa storica fosse lasciata
alla società civile e alle diverse forze che vi pullulano con
lo «Stato» guardiano della «lealtà del
gioco» e delle leggi di esso: gli intellettuali fanno
distinzioni molto importanti quando sono liberali e anche quando sono
intervenzionisti (possono essere liberali nel campo economico e
intervenzionisti in quello culturale, ecc.).
I cattolici vorrebbero lo
Stato intervenzionista in loro completo favore; in mancanza di ciò,
o dove sono minoranza, domandano lo Stato «indifferente»,
perché non sostenga i loro avversari.
Stato gendarme-guardiano
notturno, ecc. È da meditare questo argomento: la
concezione dello Stato gendarme - guardiano notturno, ecc. (a parte
la specificazione di carattere polemico: gendarme, guardiano
notturno, ecc.) non è poi la concezione dello Stato che sola
superi le estreme fasi «corporative-economiche»? Siamo
sempre nel terreno della identificazione di Stato e Governo,
identificazione che appunto è un ripresentarsi della forma
corporativa-economica, cioè della confusione tra società
civile e società politica, poiché è da notare
che nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da
riportare alla nozione di società civile (nel senso, si
potrebbe dire, che Stato = società politica + società
civile, cioè egemonia corazzata di coercizione). In una
dottrina dello Stato che concepisca questo come passibile
tendenzialmente di esaurimento e di risoluzione nella società
regolata, l'argomento è fondamentale. L'elemento
Stato-coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano
che si affermano elementi sempre piú cospicui di società
regolata (o Stato etico o società civile). Le espressioni di
Stato etico o di società civile verrebbero a significare che
quest'«immagine» di Stato senza Stato era presente ai
maggiori scienziati della politica e del diritto in quanto si
ponevano nel terreno della pura scienza (= pura utopia, in quanto
basata sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e
quindi ugualmente ragionevoli e morali, cioè passibili di
accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione,
come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza).
Occorre ricordare che l'espressione di guardiano notturno per lo
Stato liberale è di Lassalle, cioè di uno statalista
dogmatico e non dialettico. (Cfr. bene la dottrina di Lassalle su
questo punto e sullo Stato in generale, in contrasto col marxismo).
Nella dottrina dello Stato → società regolata, da una
fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato si
identificherà con società civile, si dovrà
passare a una fase di Stato-guardiano notturno, cioè di una
organizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli
elementi di società regolata in continuo incremento, e
pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e
coattivi. Né ciò può far pensare a un nuovo
«liberalismo», sebbene sia per essere l'inizio di un'era
di libertà organica.
Fase
economica-corporativa dello Stato. Se è vero che
nessun tipo di Stato non può non attraversare una fase di
primitivismo economico-corporativa, se ne deduce che il contenuto
dell'egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il
nuovo tipo di Stato deve essere prevalentemente di ordine economico:
si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli
uomini e il mondo economico o della produzione. Gli elementi di
superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sarà
di previsione e di lotta, ma con elementi «di piano»
ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo,
di critica del passato, tenderà a far dimenticare e a
distruggere: le linee della costruzione saranno ancora «grandi
linee», abbozzi, che potrebbero (e dovrebbero) essere cambiate
in ogni momento, perché siano coerenti con la nuova struttura
in formazione. Ciò appunto non si verifica nel periodo dei
Comuni; anzi la cultura, che rimane funzione della Chiesa, è
proprio di carattere antieconomico (dell'economia capitalistica
nascente), non è indirizzata a dare l'egemonia alla nuova
classe, ma anzi a impedire che questa l'acquisti: l'Umanesimo e il
Rinascimento perciò sono reazionari, perché segnano la
sconfitta della nuova classe, la negazione del mondo economico che le
è proprio ecc.
1) Altro elemento da
esaminare è quello dei rapporti organici tra la politica
interna e la politica estera di uno Stato. È la politica
interna che determina quella estera o viceversa? Anche in questo caso
occorrerà distinguere: tra grandi potenze, con relativa
autonomia internazionale, e altre potenze, e ancora tra diverse forme
di governo (un governo come quello di Napoleone III aveva due
politiche, apparentemente, reazionaria all'interno e liberale
all'estero).
2) Condizioni di uno Stato
prima e dopo una guerra. È evidente che contano, in una
alleanza, le condizioni in cui uno Stato si trova al momento della
pace. Può avvenire perciò che chi ha avuto l'egemonia
durante la guerra, finisca col perderla per l'indebolimento subito
nella lotta e debba vedere un «subalterno» che è
stato piú abile o piú «fortunato» diventare
egemone. Ciò si verifica nelle «guerre mondiali»
quando la situazione geografica costringe uno Stato a gettare tutte
le sue risorse nel crogiolo: vince per le alleanze, ma la vittoria lo
trova prostrato ecc. Ecco perché nel concetto di «grande
potenza» occorre tener conto di molti elementi e specialmente
di quelli «permanenti», cioè specialmente
«potenzialità economica e finanziaria» e
popolazione.
Organizzazione delle
società nazionali. Ho notato altra volta che in una
determinata società nessuno è disorganizzato e senza
partito, purché si intendano organizzazione e partito in senso
largo e non formale. In questa molteplicità di società
particolari, di carattere duplice, naturale e contrattuale o
volontario, una o piú prevalgono relativamente o
assolutamente, costituendo l'apparato egemonico di un gruppo sociale
sul resto della popolazione (o società civile), base dello
Stato inteso strettamente come apparato governativo-coercitivo.
Avviene sempre che le
singole persone appartengano a piú di una società
particolare e spesso a società che essenzialmente sono in
contrasto fra loro. Una politica totalitaria tende appunto: 1) a
ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo
solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una
molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i
fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei; 2) a
distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un
sistema di cui il partito sia il solo regolatore. Ciò avviene:
1) quando il partito dato è portatore di una nuova cultura e
si ha una fase progressiva; 2) quando il partito dato vuole impedire
che un'altra forza, portatrice di una nuova cultura, diventi essa
«totalitaria»; e si ha una fase regressiva e reazionaria
oggettivamente, anche se la reazione (come sempre avviene) non
confessi se stessa e cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova
cultura.
Luigi Einaudi, nella
«Riforma Sociale» del maggio-giugno 1931, recensisce un
volume francese Les sociétés de la nation. Étude
sur les éléments constitutifs de la nation française,
di Etienne Martin - Saint-Léon (vol. di pp. 413, Ed. Spes,
17, rue Soufflot, Parigi, 1930, frs. 45) dove una parte di queste
organizzazioni sono studiate, ma solo quelle che esistono
formalmente. (Per es., i lettori di un giornale formano o no una
organizzazione?, ecc.). In ogni modo, se l'argomento fosse trattato,
vedere il libro e anche la recensione dell'Einaudi.
I costumi e le leggi.
È opinione molto diffusa e anzi è opinione ritenuta
realistica e intelligente che le leggi devono essere precedute dal
costume, che la legge è efficace solo in quanto sanziona i
costumi. Questa opinione è contro la storia reale dello
sviluppo del diritto, che ha domandato sempre una lotta per
affermarsi e che in realtà è lotta per la creazione di
un nuovo costume. Nell'opinione su citata esiste un residuo molto
appariscente di moralismo intruso nella politica.
Si suppone che il diritto
sia espressione integrale dell'intera società, ciò che
è falso: invece espressione piú aderente della società
sono quelle regole di condotta che i giuristi chiamano
«giuridicamente indifferenti» e la cui zona cambia coi
tempi e con l'estensione dell'intervento statale nella vita dei
cittadini. Il diritto non esprime tutta la società (per cui i
violatori del diritto sarebbero esseri antisociali per natura, o
minorati psichici), ma la classe dirigente, che «impone»
a tutta la società quelle norme di condotta che sono piú
legate alla sua ragion d'essere e al suo sviluppo. La funzione
massima del diritto è questa: di presupporre che tutti i
cittadini devono accettare liberamente il conformismo segnato dal
diritto, in quanto tutti possono diventare elementi della classe
dirigente; nel diritto moderno cioè è implicita
l'utopia democratica del secolo XVIII.
Qualche cosa di vero
tuttavia esiste nell'opinione che il costume deve precedere il
diritto: infatti nelle rivoluzioni contro gli Stati assoluti,
esisteva già come costume e come aspirazione una gran parte di
ciò che poi divenne diritto obbligatorio: è con il
nascere e lo svilupparsi delle disuguaglianze che il carattere
obbligatorio del diritto andò aumentando, cosí come
andò aumentando la zona dell'intervento statale e
dell'obbligazionismo giuridico. Ma in questa seconda fase, pur
affermando che il conformismo deve essere libero e spontaneo, si
tratta di ben altro: si tratta di reprimere e soffocare un diritto
nascente e non di conformare.
L'argomento rientra in
quello piú generale della diversa posizione che hanno avuto le
classi subalterne prima di diventare dominanti. Certe classi
subalterne devono avere un lungo periodo di intervento giuridico
rigoroso e poi attenuato, a differenza di altre; c'è
differenza anche nei modi: in certe classi l'espansività non
cessa mai, fino all'assorbimento completo della società; in
altre, al primo periodo di espansione succede un periodo di
repressione. Questo carattere educativo, creativo, formativo del
diritto è stato messo poco in luce da certe correnti
intellettuali: si tratta di un residuo dello spontaneismo, del
razionalismo astratto che si basa su un concetto della «natura
umana» astrattamente ottimistico e facilone. Un altro problema
si pone per queste correnti: quale deve essere l'organo legislativo
«in senso lato», cioè la necessità di
portare le discussioni legislative in tutti gli organismi di massa:
una trasformazione organica del concetto di «referendum»,
pur mantenendo al governo la funzione di ultima istanza legislativa.
Chi è
legislatore? Il concetto di «legislatore» non può
non identificarsi col concetto di «politico». Poiché
tutti sono «uomini politici» tutti sono anche
«legislatori». Ma occorrerà fare delle
distinzioni. «Legislatore» ha un preciso significato
giuridico-statale, cioè significa quelle persone che sono
abilitate dalle leggi a legiferare. Ma può avere anche altri
significati. Ogni uomo, in quanto è attivo, cioè
vivente, contribuisce a modificare l'ambiente sociale in cui si
sviluppa (a modificarne determinati caratteri o a conservarne altri),
cioè tende a stabilire «norme», regole di vita e
di condotta. La cerchia di attività sarà maggiore o
minore, la consapevolezza della propria azione e dei fini sarà
maggiore o minore; inoltre, il potere rappresentativo sarà
maggiore o minore, e sarà piú o meno attuato dai
«rappresentati» nella sua espressione sistematica
normativa. Un padre è un legislatore per i figli, ma
l'autorità paterna sarà piú o meno consapevole e
piú o meno obbedita e cosí via. In generale si può
dire che tra la comune degli uomini e altri uomini piú
specificatamente legislatori la distinzione è data dal fatto
che questo secondo gruppo non solo elabora direttive che dovrebbero
diventare norma di condotta per gli altri, ma nello stesso tempo
elabora gli strumenti attraverso i quali le direttive stesse saranno
«imposte» e se ne verificherà l'esecuzione. Di
questo secondo gruppo il massimo di potere legislativo è nel
personale statale (funzionari elettivi e di carriera) che hanno a
loro disposizione le forze coercitive legali dello Stato. Ma non è
detto che anche i dirigenti di organismi e organizzazioni «private»
non abbiano sanzioni coercitive a loro disposizione, fino anche alla
pena di morte. Il massimo di capacità del legislatore si può
desumere dal fatto che alla perfetta elaborazione delle direttive
corrisponde una perfetta predisposizione degli organismi di
esecuzione e di verifica e una perfetta preparazione del consenso
«spontaneo» delle masse che devono «vivere»
quelle direttive, modificando le proprie abitudini, la propria
volontà, le proprie convinzioni conformemente a queste
direttive e ai fini che esse si propongono di raggiungere.
Se ognuno è
legislatore nel senso piú largo del concetto, ognuno continua
ad essere legislatore anche se accetta direttive di altri, ed
eseguendole controlla che anche gli altri le eseguano, avendole
comprese nel loro spirito, le divulga, quasi facendone dei
regolamenti di applicazione particolare a zone di vita ristretta e
individuata.
In uno studio di teoria
finanziaria (delle imposte) di Mauro Fasiani (Schemi teorici ed
«exponibilia» finanziari, nella
«Riforma Sociale» del settembre-ottobre 1932) si parla di
«volontà supposta di quell'essere un po' mitico,
chiamato legislatore». L'espressione cautelosa ha due
significati, cioè si riferisce a due ordini ben distinti di
osservazioni critiche. Da una parte, si riferisce al fatto che le
conseguenze di una legge possono essere diverse da quelle «previste»
cioè volute coscientemente dal legislatore individuale, per
cui «obbiettivamente», alla «voluntas
legislatoris», cioè agli effetti previsti dal
legislatore individuale, si sostituisce la «voluntas legis»,
cioè l'insieme di conseguenze effettuali che il legislatore
individuale non aveva previsto ma che di fatto conseguono dalla legge
data. (Naturalmente sarebbe da vedere se gli effetti che il
legislatore individuale prevede a parole sono da lui previsti «bona
fide» oppure solo per creare l'ambiente favorevole
all'approvazione della legge, se i «fini» che il
legislatore individuale pretende di voler conseguire non sono un
semplice mezzo di propaganda ideologica o demagogica). Ma
l'espressione cautelosa ha anche un altro significato che precisa il
primo e lo definisce: la parola «legislatore» può
essere infatti interpretata in senso molto ampio, «fino ad
indicare con essa l'insieme di credenze, di sentimenti, di interessi
e di ragionamenti diffusi in una collettività in un dato
periodo storico». Ciò in realtà significa: 1) che
il legislatore individuale (e legislatore individuale deve intendersi
non solo nel caso ristretto dell'attività
parlamentare-statale, ma anche in ogni altra attività
«individuale» che cerchi, in sfere piú o meno
larghe di vita sociale, di modificare la realtà secondo certe
linee direttive) non può mai svolgere azioni «arbitrarie»,
antistoriche, perché il suo atto d'iniziativa, una volta
avvenuto, opera come una forza a sé nella cerchia sociale
determinata, provocando azioni e reazioni che sono intrinseche a
questa cerchia oltre che all'atto in sé; 2) che ogni atto
legislativo, o di volontà direttiva e normativa, deve anche e
specialmente essere valutato obbiettivamente, per le conseguenze
effettuali che potrà avere; 3) che ogni legislatore non può
essere che astrattamente e per comodità di linguaggio
considerato come individuo, perché in realtà esprime
una determinata volontà collettiva disposta a rendere
effettuale la sua «volontà», che è volontà
solo perché la collettività è disposta a darle
effettualità; 4) che pertanto ogni individuo che prescinda da
una volontà collettiva e non cerchi di crearla, suscitarla,
estenderla, rafforzarla, organizzarla, è semplicemente una
mosca cocchiera, un «profeta disarmato», un fuoco fatuo.
Su questo argomento è
da vedere ciò che dice il Pareto sulle azioni logiche e
non logiche nella sua Sociologia. Secondo il Fasiani
per il Pareto sono «azioni logiche quelle che uniscono
logicamente il mezzo al fine non solo secondo il giudizio del
soggetto agente (fine soggettivo) ma anche secondo il giudizio
dell'osservatore (fine oggettivo). Le azioni non-logiche non hanno
tale carattere. Il loro fine oggettivo differisce dal fine
soggettivo». Il Fasiani non è soddisfatto da questa
terminologia paretiana, ma la sua critica rimane nello stesso terreno
puramente formale e schematico del Pareto.
Arte politica e arte
militare. Lo scrittore italiano di cose militari generale De
Cristoforis nel suo libro Che cosa sia la guerra dice che per
«distruzione dell'esercito nemico» (fine strategico) non
si intende «la morte dei soldati, ma lo scioglimento del loro
legame come massa organica». La formula è felice e può
essere impiegata anche nella terminologia politica. Si tratta di
identificare quale sia nella vita politica il legame organico
essenziale, che non può consistere solo nei rapporti giuridici
(libertà di associazione e riunione ecc., con la sequela dei
partiti e dei sindacati ecc.) ma si radica nei piú profondi
rapporti economici, cioè nella funzione sociale nel mondo
produttivo (forme di proprietà e di direzione ecc.).
[«Funzione di
governo».] Articolo di Sergio Panunzio nella «Gerarchia»
dell'aprile 1933 (La fine del parlamentarismo e l'accentramento
delle responsabilità). Superficiale. Un punto curioso è
quello in cui il Panunzio scrive che le funzioni dello Stato
non sono solo tre «secondo i vecchi figurini costituzionalisti»
e cioè la «legislativa», l'«amministrativa»
e la «giudiziaria», ma «che a queste bisogna
aggiungerne un'altra, che è poi, anche nel regime
parlamentare, la principale, la primigenia, e la fondamentale, la
«funzione di governo», ossia la determinazione
dell'indirizzo politico. Indirizzo politico rispetto al quale la
stessa legislazione si comporta come un esecutivo (!), inquantoché
è il programma politico di governo che si traduce come in
tanti capitoli successivi nelle leggi ed è il presupposto di
queste». Presupposto e contenuto, e quindi nesso inscindibile?
Il Panunzio in realtà ragiona per figurini, cioè
formalisticamente, peggio dei vecchi costituzionalisti. Ciò
che egli dovrebbe spiegare, per il suo assunto, è come mai sia
avvenuto il distacco e la lotta tra parlamento e governo in modo che
l'unità di queste due istituzioni non riesca piú a
costruire un indirizzo permanente di governo, ma ciò non si
può spiegare per schemi logici ma solo riferendosi ai
mutamenti avvenuti nella struttura politica del paese, cioè
realisticamente, con un'analisi storico-politica. Si tratta infatti
di difficoltà di costruire un indirizzo politico permanente e
di vasta portata, non di difficoltà senz'altro. L'analisi non
può prescindere dall'esame: 1) del perché si siano
moltiplicati i partiti politici; 2) del perché sia diventato
difficile formare una maggioranza permanente tra tali partiti
parlamentari; 3) quindi del perché i grandi partiti
tradizionali abbiano perduto il potere di guidare, il prestigio ecc.
Questo fatto è puramente parlamentare, o è il riflesso
parlamentare di radicali mutazioni avvenute nella società
stessa, nella funzione che i gruppi sociali hanno nella vita
produttiva ecc.? Pare che la sola via di ricercare l'origine del
decadimento dei regimi parlamentari sia questa, cioè sia da
ricercare nella società civile e certo in questa via non si
può fare a meno di studiare il fenomeno sindacale; ma ancora,
non il fenomeno sindacale inteso nel suo senso elementare di
associazionismo di tutti i gruppi sociali e per qualsiasi fine, ma
quello tipico per eccellenza, cioè degli elementi sociali di
nuova formazione, che precedentemente non avevano «voce in
capitolo» e che per il solo fatto di unirsi modificano la
struttura politica della società.
Sarebbe da ricercare come
sia avvenuto che i vecchi sindacalisti sorelliani (o quasi) a un
certo punto siano divenuti semplicemente degli associazionisti o
unionisti in generale. Forse il germe di questo decadimento era nello
stesso Sorel, cioè in un certo feticismo sindacale o
economistico.
La quistione posta dal
Panunzio sull'esistenza di un «quarto» potere statale,
quello di «determinazione dell'indirizzo politico» pare
che debba essere posta in connessione coi problemi suscitati dalla
scomparsa dei partiti politici e quindi dallo svuotamento del
Parlamento. È un modo «burocratico» di porre un
problema che prima era risolto dal normale funzionamento della vita
politica nazionale, ma non appare come possa essere la soluzione
«burocratica» di esso. I partiti erano appunto gli
organismi che nella società civile elaboravano gli indirizzi
politici non solo, ma educavano e presentavano gli uomini supposti in
grado di applicarli. Nel terreno parlamentare gli «indirizzi»
elaborati, totali o parziali, di lunga portata o di carattere
immediato, venivano confrontati, sfrondati dai caratteri
particolaristici ecc. e uno di essi diventava «statale»
in quanto il gruppo parlamentare del partito piú forte
diventava il «governo» o guidava il governo. Che, per la
disgregazione parlamentare, i partiti siano divenuti incapaci di
svolgere questo compito non ha annullato il compito stesso né
ha mostrato una via nuova di soluzione: cosí anche per
l'educazione e la messa in valore delle personalità. La
soluzione «burocratica» di fatto maschera un regime di
partiti della peggiore specie in quanto operano nascostamente, senza
controllo; i partiti sono sostituiti da camarille e influssi
personali non confessabili: senza contare che restringe le
possibilità di scelta e ottunde la sensibilità politica
e l'elasticità tattica. È opinione di Max Weber, per
esempio, che una gran parte delle difficoltà attraversate
dallo Stato tedesco nel dopoguerra sono dovute all'assenza di una
tradizione politico-parlamentare e di vita di partito prima del 1914.
[La classe politica.]
La quistione della classe politica, come è presentata nelle
opere di Gaetano Mosca, è diventata un puzzle. Non si
capisce esattamente cosa il Mosca intenda precisamente per classe
politica, tanto la nozione è elastica ed ondeggiante. Talvolta
pare che per classe politica si intenda la classe media, altre volte
l'insieme delle classi possidenti, altre volte ciò che si
chiama la «parte colta» della società, o il
«personale politico» (ceto parlamentare) dello Stato:
talvolta pare che la burocrazia, anche nel suo strato superiore, sia
esclusa dalla classe politica in quanto deve appunto essere
controllata e guidata dalla classe politica. La deficienza della
trattazione del Mosca appare nel fatto che egli non affronta nel suo
complesso il problema del «partito politico» e ciò
si capisce, dato il carattere dei libri del Mosca e specialmente
degli Elementi di scienza politica: l'interesse del Mosca
infatti ondeggia tra una posizione «obbiettiva» e
disinteressata di scienziato e una posizione appassionata di
immediato uomo di parte che vede svolgersi avvenimenti che lo
angustiano e ai quali vorrebbe reagire. D'altronde il Mosca
inconsapevolmente riflette le discussioni suscitate dal materialismo
storico, ma le riflette come il provinciale che «sente
nell'aria» le discussioni che avvengono nella capitale e non ha
il mezzo di procurarsene i documenti e i testi fondamentali: nel caso
del Mosca «non avere i mezzi» di procurarsi i testi e i
documenti del problema che tuttavia tratta significa che il Mosca
appartiene a quella parte di universitari che mentre ritengono loro
dovere fare sfoggio di tutte le cautele del metodo storico quando
studiano le ideuzze di un pubblicista medioevale di terzo ordine, non
ritengono o non ritenevano degne «del metodo» le dottrine
del materialismo storico, non ritenevano necessario risalire alle
fonti e si accontentavano di orecchiare articolucci di giornale e
opuscoletti popolari.
[Grande politica e
piccola politica.] Grande politica (alta politica) –
piccola politica (politica del giorno per giorno, politica
parlamentare, di corridoio, d'intrigo). La grande politica comprende
le quistioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta
per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate
strutture organiche economico-sociali. La piccola politica le
quistioni parziali e quotidiane che si pongono nell'interno di una
struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le
diverse frazioni di una stessa classe politica. È pertanto
grande politica il tentare di escludere la grande politica
dall'ambito interno della vita statale e di ridurre tutto a piccola
politica (Giolitti, abbassando il livello delle lotte interne faceva
della grande politica; ma i suoi succubi, erano oggetto di
grande politica, ma facevano essi della piccola politica). È
invece da dilettanti porre le quistioni in modo tale che ogni
elemento di piccola politica debba necessariamente diventare
quistione di grande politica, di radicale riorganizzazione dello
Stato. Gli stessi termini si ripresentano nella politica
internazionale: 1) la grande politica nelle quistioni che riguardano
la statura relativa dei singoli Stati nei confronti reciproci; 2) la
piccola politica nelle quistioni diplomatiche che nascono
nell'interno di un equilibrio già costituito e che non tentano
di superare l'equilibrio stesso per creare nuovi rapporti.
Il Machiavelli esamina
specialmente le quistioni di grande politica: creazione di nuovi
Stati, conservazione e difesa di strutture organiche nel complesso;
quistioni di dittatura e di egemonia su vasta scala, cioè su
tutta l'area statale. Il Russo nei Prolegomeni fa del Principe
il trattato della dittatura (momento dell'autorità e
dell'individuo) e dei Discorsi quello dell'egemonia (momento
dell'universale e della libertà). L'osservazione del Russo è
esatta, sebbene anche nel Principe non manchino gli accenni al
momento dell'egemonia o del consenso accanto a quelli dell'autorità
o della forza. Cosí è giusta l'osservazione che non c'è
opposizione di principio tra principato e repubblica, ma si tratti
piuttosto della ipostasi dei due momenti di autorità e
universalità.
(Nuovo Machiavelli, cfr. quaderno speciale ecc). A proposito del
Rinascimento, di Lorenzo dei Medici ecc., quistione di «grande
politica e di piccola politica», politica creativa, e politica
di equilibrio, di conservazione, anche se si tratta di conservare una
situazione miserabile. Accusa ai francesi (e ai Galli fin da Giulio
Cesare) di essere volubili ecc. E in questo senso gli italiani del
Rinascimento non sono mai stati «volubili», anzi forse
occorre distinguere tra la grande politica che gli italiani facevano
all'«estero», come forza cosmopolita (finché la
funzione cosmopolita durò) e la piccola politica all'interno,
la piccola diplomazia, l'angustia dei programmi ecc., quindi la
debolezza di coscienza nazionale che avrebbe domandato una attività
audace e di fiducia nelle forze popolari-nazionali. Finito il periodo
della funzione cosmopolita, rimase quello della «piccola
politica» all'interno, lo sforzo immane per impedire ogni
mutamento radicale. In realtà il «piede di casa»,
le mani nette ecc. che tanto sono rimproverati alle generazioni
dell'Ottocento non sono che la coscienza della fine di una funzione
cosmopolita nel modo tradizionale e l'incapacità di crearsene
una nuova facendo leva sul popolo-nazione.
Morale e politica.
Si verifica una lotta. Si giudica della «equità» e
della «giustizia» delle pretese delle parti in conflitto.
Si giunge alla conclusione che una delle parti non ha ragione, che le
sue pretese non sono eque, o addirittura che esse mancano di senso
comune. Queste conclusioni sono il risultato di modi di pensare
diffusi, popolari, condivisi dalla stessa parte che in tal modo viene
colpita da biasimo. Eppure questa parte continua a sostenere di «aver
ragione», di essere nell'«equo» e ciò che
piú conta, continua a lottare, facendo dei sacrifici, ciò
che significa che le sue convinzioni non sono superficiali e a fior
di labbra, non sono ragioni polemiche, per salvar la faccia, ma
realmente profonde e operose nelle coscienze. Significherà che
la quistione è mal posta e mal risolta. Che i concetti di
equità e di giustizia sono puramente formali. Infatti può
avvenire che di due parti in conflitto, ambedue abbiano ragione,
«cosí stando le cose», e una appaia aver piú
ragione dell'altra «cosí stando le cose», ma non
abbia ragione «se le cose dovessero mutare». Ora appunto
in un conflitto ciò che occorre valutare non sono le cose cosí
come stanno, ma il fine che le parti in conflitto si propongono col
conflitto stesso; e come questo fine, che non esiste ancora come
realtà effettuale e giudicabile, potrà essere
giudicato? E da chi potrà essere giudicato? Il giudizio stesso
non diventerà un elemento del conflitto, cioè non sarà
niente altro che una forza del giuoco a favore o a danno di una o
dell'altra parte? In ogni caso si può dire: 1) che in un
conflitto ogni giudizio di moralità è assurdo perché
esso può essere fatto sui dati di fatto esistenti che appunto
il conflitto tende a modificare; 2) che l'unico giudizio possibile è
quello «politico» cioè di conformità del
mezzo al fine (quindi implica una identificazione del fine o dei fini
graduati in una scala successiva di approssimazione). Un conflitto è
«immorale» in quanto allontana dal fine o non crea
condizioni che approssimano al fine (cioè non crea mezzi piú
conformi al raggiungimento del fine) ma non è «immorale»
da altri punti di vista «moralistici». Cosí non si
può giudicare l'uomo politico dal fatto che esso è o
meno onesto, ma dal fatto che mantiene o no i suoi impegni (e in
questo mantenimento può essere compreso l'«essere
onesto», cioè l'essere onesto può essere un
fattore politico necessario, e in generale lo è, ma il
giudizio è politico e non morale), viene giudicato non dal
fatto che opera equamente, ma dal fatto che ottiene o no dei
risultati positivi o evita un male e in questo può essere
necessario l'«operare equamente», ma come mezzo politico
e non come giudizio morale.
Distacco tra dirigenti e
diretti. Assume aspetti diversi a seconda delle circostanze e
delle condizioni generali. Diffidenza reciproca: il dirigente dubita
che il «diretto» lo inganni, esagerando i dati positivi e
favorevoli all'azione e perciò nei suoi calcoli deve tener
conto di questa incognita che complica l'equazione. Il «diretto»
dubita dell'energia e dello spirito di risolutezza del dirigente e
perciò è tratto anche inconsciamente a esagerare i dati
positivi e a nascondere o sminuire i dati negativi. C'è un
inganno reciproco, origine di nuove esitazioni, di diffidenze, di
quistioni personali ecc. Quando ciò avviene, significa che: 1)
c'è crisi di comando; 2) l'organizzazione, il blocco sociale
del gruppo in parola, non ha ancora avuto il tempo di saldarsi,
creando l'affiatamento reciproco, la reciproca lealtà;
3) ma c'è un terzo elemento: l'incapacità del «diretto»
a svolgere il suo compito che significa poi incapacità del
«dirigente» a scegliere, a controllare, a dirigere il suo
personale.
Esempi pratici: un
ambasciatore può ingannare il suo governo: 1) perché
vuole ingannarlo per interesse personale; caso di slealtà per
tradimento di carattere nazionale o statale: l'ambasciatore è
o diventa l'agente di un governo diverso da quello che rappresenta;
2) perché vuole ingannarlo, essendo avversario della politica
del governo e favorevole alla politica di altro partito governativo
del suo stesso paese, quindi perché vuole che nel suo paese al
governo vada un partito piuttosto che un altro: caso di slealtà
che in ultima analisi può diventare altrettanto grave che il
precedente, sebbene possa essere accompagnato da circostanze
attenuanti, come sarebbe il caso che il governo non faccia una
politica nazionale e l'ambasciatore ne abbia le prove perentorie:
sarebbe allora slealtà verso uomini transitori per poter
essere leali verso lo Stato immanente: quistione terribile perché
questa giustificazione ha servito a uomini indegni moralmente
(Fouché, Talleyrand e, meno, i marescialli di Napoleone); 3)
perché non sa d'ingannarlo, per incapacità o
incompetenza o per scorrettezza (trascura il servizio) ecc. In questo
caso la responsabilità del governo deve essere graduata: 1) se
avendo possibilità di scelta adeguate ha scelto male per
ragioni estrinseche al servizio (nepotismo, corruzione, limitazioni
di spese per servizio importante per cui invece di capaci si scelgono
i «ricchi» per la diplomazia o i «nobili»
ecc.); 2) se non ha possibilità di scelta (Stato nuovo, come
l'Italia nel 1861-70) e non crea le condizioni generali per sanare la
deficienza e procurarsi la possibilità di scelta.
Città e campagna.
Giuseppe De Michelis, Premesse e contributo allo studio
dell'esodo rurale, «Nuova Antologia», 16 gennaio
1930. Articolo interessante da molti punti di vista. Il De Michelis
pone il problema abbastanza realisticamente. Intanto cos'è
l'esodo rurale? Se ne parla da 200 anni e la quistione non è
mai stata posta nei termini economici precisi.
(Anche il De Michelis
dimentica due elementi fondamentali della quistione: 1) i lamenti per
l'esodo rurale hanno una delle loro ragioni negli interessi dei
proprietari che vedono elevarsi i salari per la concorrenza delle
industrie urbane e per la vita piú «legale», meno
esposta agli arbitrii ed abusi che sono la trama quotidiana della
vita rurale; 2) per l'Italia non accenna all'emigrazione dei
contadini che è la forma internazionale dell'esodo rurale
verso paesi industriali ed è una critica reale del regime
agrario italiano, in quanto il contadino si reca a fare il contadino
altrove, migliorando il proprio tenor di vita).
È giusta
l'osservazione del De Michelis che l'agricoltura non ha sofferto per
l'esodo: 1) perché la popolazione agraria su scala
internazionale non è diminuita; 2) perché la
produzione non è diminuita, anzi c'è sopraproduzione,
come dimostra la crisi dei prezzi di prodotti agricoli. (Nella
passata crisi, quando cioè esse corrispondevano a fasi di
prosperità industriale, ciò era vero; oggi, però,
che la crisi agraria accompagna la crisi industriale, non si può
parlare di sopraproduzione, ma di sottoconsumo). Nell'articolo sono
citate statistiche che dimostrano la progressiva estensione della
superficie coltivata a cereali e piú ancora di quella
coltivata per prodotti per le industrie (canapa, cotone, ecc.) e
dell'aumento della produzione. Il problema è osservato da un
punto di vista internazionale (per un gruppo di 21 paesi) cioè
di divisione internazionale del lavoro. (Dal punto di vista delle
singole nazioni il problema può cambiare e in ciò
consiste la crisi odierna: essa è una resistenza reazionaria
ai nuovi rapporti mondiali, all'intensificarsi dell'importanza del
mercato mondiale).
L'articolo cita qualche
fonte bibliografica: occorrerà rivederlo. Finisce con un
colossale errore: secondo il De Michelis: «La formazione delle
città nei tempi remoti non fu che il lento e progressivo
distacco del mestiere dall'attività agricola, con cui era
prima confuso, per assurgere ad attività distinta. Il
progresso dei venturi decenni consisterà, grazie soprattutto
all'incremento della forza elettrica, nel riportare il mestiere alla
campagna per ricongiungerlo, con forme mutate e con procedimenti
perfezionati, al lavoro propriamente agricolo. In questa opera
redentrice dell'artigianato rurale l'Italia si appresta ad essere
anche una volta antesignana e maestra». Il De Michelis fa molte
confusioni: 1) il ricongiungimento della città alla campagna
non può avvenire sulla base dell'artigianato, ma solo sulla
base della grande industria razionalizzata e standardizzata. L'utopia
«artigianesca» si è basata sull'industria tessile:
si pensava che con la verificatasi possibilità di distribuire
l'energia elettrica a distanza, sarebbe diventato possibile ridare
alla famiglia contadina il telaio meccanico moderno mosso
dall'elettricità; ma già oggi un solo operaio fa
azionare (pare) fino a 24 telai, ciò che pone nuovi problemi
di concorrenza e di capitale ingenti, oltre che di organizzazione
generale irrisolvibili dalla famiglia contadina; 2) l'utilizzazione
industriale del tempo che il contadino deve rimanere disoccupato
(questo è il problema fondamentale dell'agricoltura moderna,
che pone il contadino in condizione di inferiorità economica
di fronte alla città che «può» lavorare
tutto l'anno) può avvenire solo in un'economia secondo un
piano, molto sviluppata, che sia in grado di essere indipendente
dalle fluttuazioni temporali di vendita che già si verificano
e portano alle morte stagioni anche nell'industria; 3) La grande
concentrazione dell'industria e la produzione a serie di pezzi
intercambiabili permette di trasportare reparti di fabbrica in
campagna, decongestionando la grande città e rendendo piú
igienica la vita industriale. Non l'artigiano tornerà in
campagna, ma viceversa l'operaio piú moderno e standardizzato.
[Miti storici.]
Studio delle parole d'ordine come quella del «terzo Reich»
delle correnti di destra germaniche, di questi miti storici, che non
sono altro che una forma concreta ed efficace di presentare il mito
della «missione storica» di un popolo. Il punto da
studiare è appunto questo: perché una tale forma sia
«concreta ed efficace» o piú efficace di un'altra.
In Germania la continuità ininterrotta (non interrotta da
invasioni straniere permanenti) tra il periodo medioevale del Sacro
Romano Impero (primo Reich) e quello moderno (da Federico il Grande
al 1914) rende immediatamente comprensibile il concetto di terzo
Reich. In Italia, il concetto di «terza Italia» del
Risorgimento non poteva essere facilmente compreso dal popolo per la
non continuità storica e la non omogeneità tra la Roma
antica e quella papale (in vero anche tra la Roma repubblicana e
quella imperiale non c'era omogeneità perfetta). Quindi la
relativa fortuna della parola mazziniana di «Italia del
popolo» che tendeva a indicare un rinnovamento completo, in
senso democratico, di iniziativa popolare, della nuova storia
italiana in contrapposto al «primato» giobertiano che
tendeva a presentare il passato come continuità ideale
possibile col futuro, cioè con un determinato programma
politico presente presentato come di larga portata. Ma il Mazzini non
riuscí a radicare la sua formula mitica e i suoi successori la
diluirono e la immeschinirono nella retorica libresca. Un precedente
per il Mazzini sarebbero potuti essere i Comuni medioevali che furono
un rinnovamento storico effettivo e radicale, ma essi furono
sfruttati piuttosto dai federalisti come Cattaneo. (L'argomento è
da porre in rapporto con le prime note scritte nel quaderno speciale
su Machiavelli).
Centro. Uno studio
accurato dei partiti di centro in senso largo sarebbe oltremodo
educativo. Termine esatto, estensione del termine, cambiamento
storico del termine e dell'accezione. Per esempio, i giacobini furono
un partito estremo: oggi sono tipicamente di centro; cosí i
cattolici (nella loro massa); cosí anche i socialisti, ecc.
Credo che un'analisi dei partiti di centro e della loro funzione sia
parte importante della storia contemporanea.
E non lasciarsi illudere
dalle parole o dal passato: è certo per esempio che i
«nichilisti» russi sono da considerarsi partito di
centro, e cosí perfino gli «anarchici» moderni. La
quistione è se per simbiosi un partito di centro non serva a
un partito «storico», esempio il partito hitleriano (di
centro) a Hugenberg e Papen (estremisti: estremisti in un certo
senso, agrari e in parte industriali, data la storia tedesca
particolare). Partiti di centro e partiti «demagogici» o
borghesi-demagogici.
Lo studio della politica
tedesca e francese nell'inverno 1932-33 dà una massa di
materiale per questa ricerca, cosí la contrapposizione della
politica estera a quella interna (mentre è sempre la politica
interna che detta le decisioni, s'intende di un paese determinato:
infatti è chiaro che l'iniziativa, dovuta a ragioni interne,
di un paese, diventerà «estera» per il paese che
subisce l'iniziativa).
La forza dei partiti
agrari. Uno dei fenomeni caratteristici dell'epoca moderna è
questo: che nei parlamenti, o almeno in una serie di essi, i partiti
agrari hanno una forza relativa che non corrisponde alla loro
funzione storica, sociale, economica. Ciò è dovuto al
fatto che nelle campagne si è mantenuto un blocco di tutti gli
elementi della produzione agraria, blocco che spesso è guidato
dalla parte piú retriva di questi elementi, mentre nelle città
e nelle popolazioni di tipo urbano, già da alcune generazioni,
un blocco simile si è disciolto, se pure è mai esistito
(poiché non poteva esistere, non si allargava il suffragio
elettorale). Cosí avviene che in paesi eminentemente
industriali, dato il disgregarsi dei partiti medi, gli agrari abbiano
il sopravvento «parlamentare» e impongano indirizzi
politici «antistorici». È da fissare perché
questo avvenga e se non ne siano responsabili i partiti urbani e il
loro corporativismo o gretto economismo.
[Religione, Stato,
partito.] Nel Mein Kampf, Hitler scrive: «La
fondazione o la distruzione di una religione è gesto
incalcolabilmente piú rilevante che la fondazione o la
distruzione di uno Stato: non dico di un partito...».
Superficiale e acritico: i tre elementi: religione (o concezione del
mondo «attiva»), Stato, partito, sono indissolubili e nel
processo reale dello sviluppo storico-politico si passa dall'uno
all'altro necessariamente. Nel Machiavelli, nei modi e nel linguaggio
del tempo, si osserva la comprensione di questa necessaria omogeneità
e interferenza dei tre elementi. Perdere l'anima per salvare la
patria o lo Stato, è un elemento di laicismo assoluto, di
concezione del mondo positiva e negativa (contro la religione o
concezione dominante). Nel mondo moderno, un partito è tale,
integralmente e non, come avviene, frazione di un partito piú
grande, quando esso è concepito, organizzato e diretto in modi
e forme tali da svilupparsi integralmente in uno Stato (integrale, e
non in un governo tecnicamente inteso) e in una concezione del mondo.
Lo sviluppo del partito in Stato reagisce sul partito e ne domanda
una continua riorganizzazione e sviluppo, cosí come lo
sviluppo del partito e dello Stato in concezione del mondo, cioè
in trasformazione totale e molecolare (individuale) dei modi di
pensare e operare, reagisce sullo Stato e sul partito, costringendoli
a riorganizzarsi continuamente e ponendo loro dei problemi nuovi e
originali da risolvere. È evidente che tale concezione è
intralciata nello sviluppo pratico dal fanatismo cieco e unilaterale
di «partito» (in questo caso di setta, di frazione di un
piú ampio partito, nel cui seno si lotta), cioè
dall'assenza sia di una concezione statale sia di una concezione del
mondo che siano capaci di sviluppo in quanto storicamente necessarie.
La vita politica attuale dà una larga testimonianza di queste
angustie e ristrettezze mentali, che d'altronde provocano lotte
drammatiche, perché esse stesse sono il modo con cui lo
sviluppo storico si verifica praticamente. Ma il passato, e il
passato italiano che piú interessa, da Machiavelli in poi, non
è meno ricco di esperienze; perché tutta la storia è
testimone del presente.
Classe media. Il
significato dell'espressione «classe media» muta da un
paese all'altro (come muta quello di «popolo» o di
«volgo» in rapporto alla boria di certi strati sociali) e
perciò dà luogo spesso a equivoci molto curiosi
(ricordare come il sindaco Frola di Torino firmasse un manifesto in
inglese col titolo «Lord Mayor»). Il termine è
venuto dalla letteratura politica inglese ed esprime la particolare
forma dello sviluppo sociale inglese. Pare che in Inghilterra la
borghesia non sia mai stata concepita come una parte integrante del
popolo, ma sempre come una entità staccata da questo: è
avvenuto anzi, nella storia inglese, che non la borghesia abbia
guidato il popolo e si sia fatta aiutare da esso per abbattere i
privilegi feudali, ma la nobiltà (o una frazione di essa)
abbia formato il blocco nazionale-popolare contro la Corona prima e
poi contro la borghesia industriale. Tradizione inglese di un torismo
popolare (Disraeli, ecc.). Dopo le grandi riforme liberali che
conformarono lo Stato agli interessi e ai bisogni della classe media,
i due partiti fondamentali della vita politica inglese si distinsero
su quistioni interne riguardanti la stessa classe, la nobiltà
acquistò sempre piú un carattere particolare di
«aristocrazia borghese» legata a certe funzioni della
società civile e di quella politica (Stato) riguardanti la
tradizione, l'educazione del ceto dirigente, la conservazione di una
data mentalità che garantisce da bruschi rivolgimenti, ecc.,
la consolidazione della struttura imperiale, ecc.
In Francia il termine
«classe media» dà luogo ad equivoci, nonostante
che l'aristocrazia, di fatto, abbia conservato molta importanza come
casta chiusa: il termine viene adoperato sia nel senso inglese, sia
nel senso italiano di piccola e media borghesia. In Italia dove
l'aristocrazia feudale è stata distrutta dai Comuni
(fisicamente distrutta nelle guerre civili, eccetto che nell'Italia
meridionale e in Sicilia), poiché manca la classe «alta»
tradizionale, il termine di «media» si è abbassato
di un gradino. Classe media significa «negativamente»
non-popolo, cioè «non operai e contadini»;
significa positivamente i ceti intellettuali, i professionisti, gli
impiegati.
È da notare come il
termine «signore» sia diffuso in Italia da molto tempo
per indicare anche i non-nobili; il «don» meridionale,
«galantuomini», «civili», «borghesi»,
ecc.; in Sardegna «signore» non è mai il rurale,
anche quello ricco ecc.
L'uomo-individuo e
l'uomo-massa. Il proverbio latino: «Senatores boni viri,
senatus mala bestia» è diventato un luogo comune. Cosa
significa questo proverbio e quale significato ha assunto? Che una
folla di persone dominate dagli interessi immediati o in preda alla
passione suscitata dalle impressioni del momento trasmesse
acriticamente di bocca in bocca, si unifica nella decisione
collettiva peggiore, che corrisponde ai piú bassi istinti
bestiali. L'osservazione è giusta e realistica in quanto si
riferisce alle folle casuali, raccoltesi come «una moltitudine
durante un acquazzone sotto una tettoia», composte di uomini
che non sono legati da vincoli di responsabilità verso altri
uomini o gruppi di uomini o verso una realtà economica
concreta, il cui sfacelo si ripercuota nel disastro degli individui.
Si può dire perciò che in tali folle l'individualismo
non solo non è superato ma è esasperato per la certezza
dell'impunità e della irresponsabilità.
È però anche
osservazione comune che un'assemblea «bene ordinata» di
elementi riottosi e indisciplinati si unifica in decisioni collettive
superiori alla media individuale: la quantità diventa qualità.
Se cosí non fosse, non sarebbe possibile l'esercito, per
esempio non sarebbero possibili i sacrifizi inauditi che gruppi umani
ben disciplinati sanno compiere in determinate occasioni, quando il
loro senso di responsabilità sociale è svegliato
fortemente dal senso immediato del pericolo comune e l'avvenire
appare piú importante del presente. Si può far
l'esempio di un comizio in piazza che è diverso da un comizio
in sala chiusa ed è diverso da un comizio sindacale di
categoria professionale e cosí via. Una seduta di ufficiali di
Stato Maggiore sarà ben diversa da un'assemblea di soldati di
un plotone ecc.
Tendenza al conformismo nel
mondo contemporaneo piú estesa e piú profonda che nel
passato: [la] standardizzazione del modo di pensare e di operare
assume estensioni nazionali o addirittura continentali. La base
economica dell'uomo-collettivo: grandi fabbriche, taylorizzazione,
razionalizzazione ecc. Ma nel passato esisteva o no
l'uomo-collettivo? Esisteva sotto forma della direzione carismatica,
per dirla con Michels: cioè si otteneva una volontà
collettiva sotto l'impulso e la suggestione immediata di un «eroe»,
di un uomo rappresentativo; ma questa volontà collettiva era
dovuta a fattori estrinseci e si componeva e scomponeva
continuamente. L'uomo-collettivo odierno si forma invece
essenzialmente dal basso in alto, sulla base della posizione occupata
dalla collettività nel mondo della produzione: l'uomo
rappresentativo ha anche oggi una funzione nella formazione
dell'uomo-collettivo, ma inferiore di molto a quella del passato,
tanto che esso può sparire senza che il cemento collettivo si
disfaccia e la costruzione crolli.
Si dice che «gli
scienziati occidentali ritengono che la psiche delle masse non sia
altro che il risorgere degli antichi istinti dell'orda primordiale e
pertanto un regresso a stadi culturali da tempo superati»; ciò
è da riferirsi alla cosí detta «psicologia delle
folle» cioè delle moltitudini casuali e l'affermazione è
pseudo-scientifica, è legata alla sociologia positivistica.
Sul «conformismo»
sociale occorre notare che la quistione non è nuova e che
l'allarme lanciato da certi intellettuali è solamente comico.
Il conformismo è sempre esistito: si tratta oggi di lotta tra
«due conformismi» cioè di una lotta di egemonia,
di una crisi della società civile. I vecchi dirigenti
intellettuali e morali della società sentono mancarsi il
terreno sotto i piedi, si accorgono che le loro «prediche»
sono diventate appunto «prediche», cioè cose
estranee alla realtà, pura forma senza contenuto, larva senza
spirito; quindi la loro disperazione e le loro tendenze reazionarie e
conservative: poiché la particolare forma di civiltà,
di cultura, di moralità che essi hanno rappresentato si
decompone, essi gridano alla morte di ogni civiltà, di ogni
cultura, di ogni moralità e domandano misure repressive allo
Stato o si costituiscono in gruppo di resistenza appartato dal
processo storico reale, aumentando in tal modo la durata della crisi,
poiché il tramonto di un modo di vivere e di pensare non può
verificarsi senza crisi. I rappresentanti del nuovo ordine in
gestazione, d'altronde, per odio «razionalistico» al
vecchio, diffondono utopie e piani cervellotici. Quale il punto di
riferimento per il nuovo mondo in gestazione? Il mondo della
produzione, il lavoro. Il massimo utilitarismo deve essere alla base
di ogni analisi degli istituti morali e intellettuali da creare e dei
principii da diffondere: la vita collettiva e individuale deve essere
organizzata per il massimo rendimento dell'apparato produttivo. Lo
sviluppo delle forze economiche sulle nuove basi e l'instaurazione
progressiva della nuova struttura saneranno le contraddizioni che non
possono mancare e avendo creato un nuovo «conformismo»
dal basso, permetteranno nuove possibilità di autodisciplina,
cioè di libertà anche individuale.
Psicologia e politica.
Specialmente nei periodi di crisi finanziaria si sente molto parlare
di «psicologia» come di causa efficiente di determinati
fenomeni marginali. Psicologia (sfiducia), panico, ecc. Ma cosa
significa in questo caso «psicologia»? È una
pudica foglia di fico per indicare la «politica», cioè
una determinata situazione politica. Poiché di solito per
«politica» s'intende l'azione delle frazioni
parlamentari, dei partiti, dei giornali e in generale ogni azione che
si esplica secondo una direttiva palese e predeterminata, si dà
il nome di «psicologia» ai fenomeni elementari di massa,
non predeterminati, non organizzati, non diretti palesemente, i quali
manifestano una frattura nell'unità sociale tra governati e
governanti. Attraverso queste «pressioni psicologiche» i
governati esprimono la loro sfiducia nei dirigenti e domandano che
siano mutate le persone e gli indirizzi dell'attività
finanziaria e quindi economica. I risparmiatori non investono
risparmi e disinvestono da determinate attività che appaiono
particolarmente rischiose, ecc.: si accontentano di interessi minimi
e anche di interessi zero; qualche volta preferiscono perdere
addirittura una parte del capitale per mettere al sicuro il resto.
Può bastare
l'«educazione» per evitare queste crisi di sfiducia
generica? Esse sono sintomatiche appunto perché «generiche»
e contro la «genericità» è difficile
educare una nuova fiducia. Il succedersi frequente di tali crisi
psicologiche indica che un organismo è malato, cioè che
l'insieme sociale non è piú in grado di esprimere
dirigenti capaci. Si tratta dunque di crisi politiche e anzi
politico-sociali del raggruppamento dirigente.
Storia politica e storia
militare. Nel «Marzocco» del 10 marzo 1929 è
riassunto un articolo di Ezio Levi nella «Glossa perenne»
sugli Almògavari, interessante per due rispetti. Da un lato
gli Almògavari (truppe leggere catalane, addestrate nelle
aspre lotte della «reconquista» a combattere contro gli
arabi col modo stesso degli arabi, cioè in ordine sparso,
senza una disciplina di guerra, ma con impeti, agguati, avventure
individuali) segnano l'introduzione in Europa di una nuova tattica,
che può essere paragonata a quella degli arditi, sebbene in
condizioni diverse. Dall'altro lato essi, secondo alcuni eruditi,
segnano l'inizio delle compagnie di ventura. Un corpo di Almògavari
fu mandato in Sicilia dagli Aragonesi per le guerre del Vespro:
finisce la guerra, ma parte degli Almògavari si reca in
Oriente al servizio del basileus dell'Impero bizantino Andronico.
L'altra parte fu arruolata da Roberto d'Angiò per la guerra
contro i ghibellini toscani. Poiché gli Almògavari
avevano mantelli neri, mentre i fiorentini, in processione o in
«cavallata» vestivano il camice bianco crociato e
gigliato, da ciò sarebbe nata, secondo Gino Masi, la
denominazione di Bianchi e Neri. Certo è che, quando gli
Angioini lasciarono Firenze, molti Almògavari rimasero al
soldo del Comune, rinnovando d'anno in anno la loro «condotta».
La «compagnia di
ventura» nacque cosí come un mezzo per determinare uno
squilibrio del rapporto delle forze politiche a favore della parte
piú ricca della borghesia, a danno dei ghibellini e del popolo
minuto.
Sullo sviluppo della
tecnica militare. Il tratto piú caratteristico e
significativo dello stadio attuale della tecnica militare e quindi
anche dell'indirizzo delle ricerche scientifiche in quanto sono
connesse con lo sviluppo della tecnica militare (o tendono a questo
fine) pare sia da ricercare in ciò, che la tecnica militare in
alcuni suoi aspetti tende a rendersi indipendente dal complesso della
tecnica generale e a diventare un'attività a parte, autonoma.
Fino alla guerra mondiale la tecnica militare era una semplice
applicazione specializzata della tecnica generale e pertanto la
potenza militare di uno Stato o di un gruppo di Stati (alleati per
integrarsi a vicenda) poteva essere calcolata con esattezza quasi
matematica sulla base della potenza economica (industriale, agricola,
finanziaria, tecnico-culturale). Dalla guerra mondiale in poi questo
calcolo non è piú possibile, almeno con pari esattezza,
e ciò costituisce la piú formidabile incognita
dell'attuale situazione politico-militare. Come punto di riferimento
basta accennare ad alcuni elementi: il sottomarino, l'aeroplano da
bombardamento, il gas e i mezzi chimici e batteriologici applicati
alla guerra. Ponendo la questione nei suoi termini limite, per
assurdo, si può dire che Andorra può produrre mezzi
bellici in gas e bacteri da sterminare l'intera Francia.
Questa situazione della tecnica militare è uno degli
elementi piú «silenziosamente» operanti di quella
trasformazione dell’arte politica che ha portato al passaggio,
anche in politica, dalla guerra di movimento alla guerra di posizione
o di assedio.
Una massima del maresciallo
Caviglia: «L'esperienza della meccanica applicata che la forza
si esaurisce allontanandosi dal centro di produzione si ritrova
dominante nell'arte della guerra. L'attacco si esaurisce avanzando;
perciò la vittoria deve essere cercata quanto piú è
possibile nelle vicinanze del punto di partenza» (Le tre
battaglie del Piave, p. 244).
Massima simile in
Clausewitz. Ma lo stesso Caviglia osserva che le truppe di rottura
devono essere aiutate da truppe di manovra: le truppe di rottura
tendono a fermarsi dopo ottenuta la «vittoria» immediata
nel loro obbiettivo di rompere il fronte avversario. Un'azione
strategica ai fini non territoriali ma decisivi ed organici può
essere svolta in due momenti: con la rottura del fronte avversario e
con una successiva manovra, operazioni assegnate a truppe distinte.
La massima, applicata
all'arte politica, deve essere adattata alle diverse condizioni; ma
rimane il punto che tra il punto di partenza e l'obbiettivo occorre
una gradazione organica, cioè una serie di obbiettivi
parziali. Si può avvicinare alla parola d'ordine
quarantottesca.
Arte militare e
politica. Sentenze tradizionali rispondenti al senso comune delle
masse di uomini: «I generali, dice Senofonte, devono avanzar
gli altri non nella sontuosità della tavola e nei piaceri, ma
nella capacità e nelle fatiche». «Difficilmente si
possono indurre i soldati a soffrire la penuria e i disagi che
derivano da ignoranza o da colpa nel loro comandante; ma quando sono
prodotti dalla necessità, ognuno è pronto a soffrirli».
«L'ardire col proprio pericolo è valore, con l'altrui è
arroganza (Pietro Colletta)».
Differenza tra
ardimento-intrepidità e coraggio: il primo è istintivo
e impulsivo; il coraggio invece è acquisito con l'educazione e
attraverso i costumi. A stare a lungo in trincea ci vuole «coraggio»,
cioè perseveranza nell'intrepidità, che può
esser data o dal terrore (certezza di morire se non si rimane) o
dalla convinzione di fare cosa necessaria (coraggio).
«Contraddizioni»
dello storicismo ed espressioni letterarie di esse (ironia,
sarcasmo). Vedere le pubblicazioni di Adriano Tilgher
contro lo storicismo. Da un articolo di Bonaventura Tecchi (Il
Demiurgo di Burzio, «Italia Letteraria», 20 ottobre
1929) sono estratti alcuni spunti di F. Burzio che sembrano mostrare
nel Burzio una certa profondità (se si astrae dal linguaggio
sforzato e dalle costruzioni a tendenza paradossale-letteraria) nello
studio delle contraddizioni «psicologiche» che nascono
sul terreno dello storicismo idealistico, ma anche in quello dello
storicismo integrale.
È da meditare
l'affermazione: «essere sopra alle passioni e ai sentimenti pur
provandoli», che potrebbe essere ricca di conseguenze. Infatti
il nodo delle quistioni che sorgono a proposito dello storicismo, e
che il Tilgher non riesce di districare, è proprio nella
constatazione che «si può essere critici e uomini
d'azione nello stesso tempo, in modo non solo che l'uno aspetto non
indebolisca l'altro, ma anzi lo convalidi». Il Tilgher molto
superficialmente e meccanicamente scinde i due termini della
personalità umana (dato che non esiste e non è mai
esistito [un] uomo tutto critico e uno tutto passionale), mentre
invece si deve cercare di determinare come in diversi periodi storici
i due termini si combinano sia nei singoli, sia per strati sociali
(aspetto della quistione della funzione sociale degli intellettuali)
facendo prevalere (apparentemente) un aspetto o l'altro (si parla di
epoche di critica, di epoche di azione, ecc.). Ma non pare che
neanche il Croce abbia analizzato a fondo il problema negli scritti
dove vuol determinare il concetto «politica = passione»:
se l'atto concreto politico, come dice il Croce, si attua nella
persona del capo politico, è da osservare che la
caratteristica del capo come tale non è certo la passionalità,
ma il calcolo freddo, preciso, obbiettivamente quasi impersonale,
delle forze in lotta e dei loro rapporti (tanto piú ciò
vale se si tratta di politica nella sua forma piú decisiva e
determinante, la guerra o qualsiasi altra forma di lotta armata). Il
capo suscita e dirige le passioni, ma egli stesso ne è
«immune» o le domina per meglio scatenarle, raffrenarle
al momento dato, disciplinarle, ecc.; deve piú conoscerle,
come elemento obbiettivo di fatto, come forza, che «sentirle»
immediatamente, deve conoscerle e comprenderle, sia pure con «grande
simpatia» (e allora la passione assume una forma superiore, che
occorre analizzare, sulla traccia dello spunto del Burzio; tutta la
quistione è da vedere sui «testi» autentici).
Dallo scritto del Tecchi
pare che il Burzio accenni spesso all'elemento «ironia»
come caratteristica (o una delle caratteristiche) della posizione
riferita e condensata nella affermazione «essere sopra alle
passioni e ai sentimenti pur provandoli». Pare evidente che
l'atteggiamento «ironico» non possa essere quello del
capo politico o militare nei confronti delle passioni e sentimenti
dei seguaci e diretti. «Ironia» può essere giusto
per l'atteggiamento di intellettuali singoli, individuali, cioè
senza responsabilità immediata sia pure nella costruzione di
un mondo culturale o per indicare il distacco dell'artista dal
contenuto sentimentale della sua creazione (che può «sentire»
ma non «condividere», o può condividere ma in
forma intellettualmente piú raffinata); ma nel caso
dell'azione storica, l'elemento «ironia» sarebbe solo
letterario o intellettualistico e indicherebbe una forma di distacco
piuttosto connessa allo scetticismo piú o meno dilettantesco
dovuto a disillusione, a stanchezza, a «super-ominismo».
Invece nel caso dell'azione storico-politica l'elemento stilistico
adeguato, l'atteggiamento caratteristico del distacco-comprensione, è
il «sarcasmo» e ancora in una forma determinata, il
«sarcasmo appassionato». Nei fondatori della filosofia
della prassi si trova l'espressione piú alta, eticamente ed
esteticamente, del sarcasmo appassionato. Altre forme. Di fronte alle
credenze e illusioni popolari (credenza nella giustizia,
nell'eguaglianza, nella fraternità, cioè negli elementi
ideologici diffusi dalle tendenze democratiche eredi della
Rivoluzione francese), c'è un sarcasmo appassionatamente
«positivo», creatore, progressivo: si capisce che non si
vuol dileggiare il sentimento piú intimo di quelle illusioni e
credenze, ma la loro forma immediata, connesso a un determinato mondo
«perituro», il puzzo di cadavere che trapela attraverso
il belletto umanitario dei professionisti degli «immortali
principii». Perché esiste anche un sarcasmo di «destra»,
che raramente è appassionato, ma è sempre «negativo»,
scettico e distruttivo non solo della «forma»
contingente, ma del contenuto «umano» di quei sentimenti
e credenze. (E a proposito dell'attributo «umano» si può
vedere in alcuni libri, ma specialmente nella Sacra Famiglia,
quale significato occorre dargli). Si cerca di dare al nucleo vivo
delle aspirazioni contenute in quelle credenze una nuova forma
(quindi di innovare, determinare meglio quelle aspirazioni), non di
distruggerle. Il sarcasmo di destra cerca invece di distruggere
proprio il contenuto delle aspirazioni (non, beninteso, nelle masse
popolari, che allora si distruggerebbe anche il cristianesimo
popolare, ma negli intellettuali), e perciò l'attacco alla
«forma» non è che un espediente «didattico».
Come sempre avviene, le
prime e originali manifestazioni del sarcasmo hanno avuto imitatori e
pappagalli; lo stile è diventato una «stilistica»,
è divenuto una specie di meccanismo, una cifra, un gergo, che
potrebbero dar luogo ad osservazioni piccanti (per es., quando la
parola «civiltà» è sempre accompagnata
dall'aggettivo «sedicente», è lecito pensare che
si creda nell'esistenza di una «civiltà»
esemplare, astratta, o almeno ci si comporta come se ciò si
credesse, cioè dalla mentalità critica e storicistica
si passa alla mentalità utopistica). Nella forma originaria il
sarcasmo è da considerare come una espressione che mette in
rilievo le contraddizioni di un periodo di transizione; si cerca di
mantenere il contatto con le espressioni subalterne umane delle
vecchie concezioni e nello stesso tempo si accentua il distacco da
quelle dominanti e dirigenti, in attesa che le nuove concezioni, con
la saldezza acquistata attraverso lo sviluppo storico, dominino fino
ad acquistare la forza delle «credenze popolari». Queste
nuove concezioni sono già acquisite saldamente in chi adopera
il sarcasmo, ma devono essere espresse e divulgate in atteggiamento
«polemico», altrimenti sarebbero una «utopia»
perché apparirebbero «arbitrio» individuale o di
conventicola: d'altronde, per la sua natura stessa, lo «storicismo»
non può concepire se stesso come esprimibile in forma
apodittica o predicatoria, e deve creare un gusto stilistico nuovo,
persino un linguaggio nuovo come mezzi di lotta intellettuale. Il
«sarcasmo» (come, nel piano letterario ristretto
dell'educazione di piccoli gruppi, l'«ironia») appare
pertanto come la componente letteraria di una serie di esigenze
teoriche e pratiche che superficialmente, possono apparire come
insanabilmente contraddittorie; il suo elemento essenziale è
la «passionalità» che diventa criterio della
potenza stilistica individuale (della sincerità, della
profonda convinzione in opposto al pappagallismo e al meccacinismo).
Da questo punto di vista
occorre esaminare le ultime notazioni del Croce nella prefazione del
1917 al volume sul Materialismo storico, dove si parla della
«maga Alcina», e alcune osservazioni sullo stile del
Loria. Cosí è da vedere il saggio di Mehring
sull'«allegoria» nel testo tedesco, ecc.
Feticismo. Come si
può descrivere il feticismo. Un organismo collettivo è
costituito di singoli individui, i quali formano l'organismo in
quanto si sono dati e accettano attivamente una gerarchia e una
direzione determinata. Se ognuno dei singoli componenti pensa
l'organismo collettivo come un'entità estranea a se stesso, è
evidente che questo organismo non esiste piú di fatto, ma
diventa un fantasma dell'intelletto, un feticcio. È da vedere
se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della
trascendenza cattolica e dei vecchi regimi paternalistici: esso è
comune per una serie di organismi, dallo Stato, alla Nazione, ai
Partiti politici ecc. È naturale che avvenga per la Chiesa,
poiché, almeno in Italia, il lavorio secolare del centro
vaticano per annientare ogni traccia di democrazia interna e di
intervento dei fedeli nell'attività religiosa è
pienamente riuscito ed è divenuto una seconda natura del
fedele, sebbene abbia determinato per l'appunto quella speciale forma
di cattolicismo che è propria del popolo italiano. Ciò
che fa meraviglia, e che è caratteristico, è che il
feticismo di questa specie si riproduca per organismi «volontari»,
di tipo non «pubblico» o statale, come i partiti e i
sindacati. Si è portati a pensare i rapporti tra il singolo e
l'organismo come un dualismo, e ad un atteggiamento critico esteriore
del singolo verso l'organismo (se l'atteggiamento non è di una
ammirazione entusiastica acritica). In ogni caso un rapporto
feticistico. Il singolo s'aspetta che l'organismo faccia, anche se
egli non opera e non riflette che appunto, essendo il suo
atteggiamento molto diffuso, l'organismo è necessariamente
inoperante.
Inoltre è da
riconoscere che essendo molto diffusa una concezione deterministica e
meccanica della storia (concezione che è del senso comune ed è
legata alla passività delle grandi masse popolari) ogni
singolo, vedendo che, nonostante il suo non intervento, qualcosa
tuttavia avviene, è portato a pensare che appunto al disopra
dei singoli esiste una entità fantasmagorica, l'astrazione
dell'organismo collettivo, una specie di divinità autonoma,
che non pensa con nessuna testa concreta, ma tuttavia pensa, che non
si muove con determinate gambe di uomini, ma tuttavia si muove ecc.
Potrebbe sembrare che
alcune ideologie, come quella dell'idealismo attuale (di Ugo Spirito)
per cui si identifica l'individuo e lo Stato, dovrebbero rieducare le
coscienze individuali, ma non pare ciò avvenga di fatto,
perché questa identificazione è meramente verbale e
verbalistica. Cosí è da dire di ogni forma del cosí
detto «centralismo organico», il quale si fonda sul
presupposto, che è vero solo in momenti eccezionali, di
arroventatura delle passioni popolari, che il rapporto tra governanti
e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi
dei governati e pertanto «devono» averne il consenso,
cioè deve verificarsi l'identificazione del singolo col tutto,
il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai
dirigenti. È da pensare che, come per la Chiesa cattolica, un
tale concetto non solo è utile, ma necessario e
indispensabile: ogni forma di intervento dal basso, disgregherebbe
infatti la Chiesa (si vede ciò nelle chiese protestantiche);
ma per altri organismi è quistione di vita non il consenso
passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione
quindi dei singoli, anche se ciò provoca un'apparenza di
disgregazione e di tumulto. Una coscienza collettiva, e cioè
un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità
si è unificata attraverso l'attrito dei singoli: né si
può dire che il «silenzio» non sia molteplicità.
Un'orchestra che fa le prove, ogni strumento per conto suo, dà
l'impressione della piú orribile cacofonia; eppure queste
prove sono la condizione perché l'orchestra viva come un solo
«strumento».
[Machiavellismo e
antimachiavellismo.] Charles Benoist nella prefazione al Le
Machiavélisme, Prima parte: Avant Machiavel (Parigi,
Plon, 1907) scrive: «C'è machiavellismo e
machiavellismo: c'è un machiavellismo vero e un machiavellismo
falso; vi è un machiavellismo che è di Machiavelli e un
machiavellismo che è qualche volta dei discepoli, piú
spesso dei nemici di Machiavelli; sono già due, anzi tre
machiavellismi, quello di Machiavelli, quello dei machiavellisti, e
quello degli antimachiavellisti; ma eccone un quarto: quello di
coloro che non han mai letto una riga di Machiavelli e che si servono
a sproposito dei verbi (!), dei sostantivi e degli aggettivi derivati
dal suo nome. Machiavelli perciò non dovrebbe essere tenuto
responsabile di quel che dopo di lui il primo o l'ultimo venuto si
sono compiaciuti di fargli dire». Un po' allumacato, il signor
Carlo Benoist.
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