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Antonio Gramsci
Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno

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  • I. Il moderno principe
    • Note sparse
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Note sparse

 

 

[Internazionalismo e politica nazionale.] Scritto (a domande e risposte) di Giuseppe Bessarione del settembre 1927 su alcuni punti essenziali di scienza e di arte politica. Il punto che mi pare sia da svolgere è questo: come secondo la filosofia della prassi (nella sua manifestazione politica) sia nella formulazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del suo piú recente grande teorico, la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto «nazionale» è il risultato di una combinazione «originale» unica (in un certo senso) che in questa originalità e unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo lo sviluppo è verso l'internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive. Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici e Bessarione come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si vede che la sua originalità consiste nel depurare l'internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica. Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sfiorino. Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve «nazionalizzarsi», in un certo senso, e questo senso non è d'altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie. D'altronde non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a quando l'iniziativa non sia nettamente passata dalla parte delle forze che tendono alla costruzione secondo un piano, di pacifica e solidale divisione del lavoro.

Che i concetti non nazionali (cioè non riferibili a ogni singolo paese) siano sbagliati si vede per assurdo: essi hanno portato alla passività e all'inerzia in due fasi ben distinte: 1) nella prima fase, nessuno credeva di dover incominciare, cioè riteneva che incominciando si sarebbe trovato isolato; nell'attesa che tutti insieme si muovessero, nessuno intanto si muoveva e organizzava il movimento; 2) la seconda fase è forse peggiore, perché si aspetta una forma di «napoleonismo» anacronistico e antinaturale (poiché non tutte le fasi storiche si ripetono nella stessa forma). Le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente.

 

 

Interpretazione del Principe. Se, come è stato scritto in altre note, l'interpretazione del Principe deve (o può) esser fatta ponendo come centro del libro l'invocazione finale, è da rivedere quanto di «reale» ci sia nella interpretazione cosí detta «satirica e rivoluzionaria» di esso (come si esprime Enrico Carrara nella nota al passo rispettivo dei Sepolcri nella sua opera scolastica Storia ed esempi della Letteratura Italiana, VII, L'ottocento, p. 59 (ed. Signorelli, Milano). Per ciò che riguarda il Foscolo non pare debba parlarsi di una particolare interpretazione del Principe, cioè dell'attribuzione al Machiavelli di intenzioni riposte democratiche e rivoluzionarie; piú giusto pare l'accenno del Croce (nel libro sulla Storia del Barocco) che risponde alla lettera dei Sepolcri, e cioè: «Il Machiavelli, per il fatto stesso di "temprare" lo scettro, ecc., di rendere il potere dei principi piú coerente e consapevole, ne sfronda gli allori, distrugge i miti, mostra cosa sia realmente questo potere ecc.»; cioè la scienza politica, in quanto scienza, è utile sia ai governanti che ai governati per comprendersi reciprocamente.

Nei Ragguagli del Parnaso del Boccalini la quistione del Principe è invece posta in modo tutto diverso che nei Sepolcri. Ma è da domandare: chi vuole satireggiare il Boccalini? Machiavelli o i suoi avversari? La quistione è dal Boccalini posta cosí: «I nemici del Machiavelli reputano il Machiavelli uomo degno di punizione perché ha esposto come i principi governano e cosí facendo ha istruito il popolo; ha "messo alle pecore denti di cane", ha distrutto i miti del potere, il prestigio dell'autorità, ha reso piú difficile il governare, poiché i governati ne possono sapere quanto i governanti, le illusioni sono rese impossibili ecc.». È da vedere tutta l'impostazione politica del Boccalini, che in questo ragguaglio mi pare faccia la satira degli antimachiavellici, i quali non sono tali perché non facciano in realtà ciò che il Machiavelli ha scritto, cioè non sono antimachiavellici perché il Machiavelli abbia avuto torto, ma perché ciò che il Machiavelli scrive «si fa e non si dice», anzi è fattibile appunto perché non è criticamente spiegato e sistemato. Il Machiavelli è odiato perché «ha scoperto gli altarini» dell'arte di governo ecc.

La quistione si pone anche oggi e l'esperienza della vita dei partiti moderni è istruttiva; quante volte si è sentito il rimprovero per aver mostrato criticamente gli errori dei governanti: «mostrando ai governanti gli errori che essi fanno, voi insegnate loro a non fare errori», cioè «fate il loro gioco» Z.. Questa concezione [è] legata alla teoria fanciullesca del «tanto peggio, tanto meglio». La paura di «fare il gioco» degli avversari è delle piú comiche ed è legata al concetto balordo di ritenere sempre gli avversari degli stupidi; è anche legata alla non comprensione delle «necessità» storico-politiche, per cui «certi errori devono essere fatti» e il criticarli è utile per educare la propria parte.

Pare che le intenzioni del Machiavelli nello scrivere il Principe siano state piú complesse e anche «piú democratiche» di quanto non sarebbero secondo l'interpretazione «democratica». Cioè il Machiavelli ritiene che la necessità dello Stato unitario nazionale è cosí grande che tutti accetteranno che per raggiungere questo altissimo fine siano impiegati i soli mezzi che sono idonei. Si può quindi dire che il Machiavelli si sia proposto di educare il popolo, ma non nel senso che di solito si a questa espressione o almeno gli hanno dato certe correnti democratiche. Per il Machiavelli «educare il popolo» può aver significato solo renderlo convinto e consapevole che può esistere una sola politica, quella realistica, per raggiungere il fine voluto e che pertanto occorre stringersi intorno e obbedire proprio a quel principe che tali metodi impiega per raggiungere il fine, perché solo chi vuole il fine vuole i mezzi idonei a raggiungerlo. La posizione del Machiavelli, in tal senso, sarebbe da avvicinare a quella dei teorici e dei politici della filosofia della prassi, che anche essi hanno cercato di costruire e diffondere un «realismo» popolare, di massa e hanno dovuto lottare contro una forma di «gesuitismo» adeguato ai tempi diversi. La «democrazia» del Machiavelli è di un tipo adatto ai tempi suoi, è cioè il consenso attivo delle masse popolari per la monarchia assoluta, in quanto limitatrice e distruttrice dell'anarchia feudale e signorile e del potere dei preti, in quanto fondatrice di grandi Stati territoriali nazionali, funzione che la monarchia assoluta non poteva adempiere senza l'appoggio della borghesia e di un esercito stanziale, nazionale, centralizzato, ecc.

 

 

«Doppiezza» e «ingenuità» del Machiavelli. Cfr. articolo di Adolfo Oxilia Machiavelli nel teatro Cultura» dell'ottobre-dicembre 1933). Interpretazione romantico-liberale del Machiavelli (Rousseau nel Contratto Sociale, III, 6; Foscolo nei Sepolcri; Mazzini nel breve saggio sul Machiavelli). Mazzini scrive: «Ecco ciò che i vostri principi, deboli e vili quanti sono, faranno per dominarvi: or pensateci». Rousseau vede nel Machiavelli un «gran republicano», il quale fu costretto dai tempi – senza che ne derivi alcuna menomazione della sua dignità morale – a «déguiser son amour pour la liberté» e a fingere di dare lezioni ai re per darne «des grandes aux peuples». Filippo Burzio ha notato che una tale interpretazione, invece di giustificare moralmente il machiavellismo, in realtà prospetta un «machiavellismo al quadrato»: giacché l'autore del Principe non solo darebbe consigli di frode bensí anche con frode, a rovina di coloro stessi cui sono rivolti.

Questa interpretazione «democratica» del Machiavelli risalirebbe al Cardinale Polo e ad Alberico Gentili (sarà da vedere il libro del Villari e quello del Tommasini nella parte che riguarda la fortuna del Machiavelli). A me pare che il brano di Traiano Boccalini nei Ragguagli del Parnaso sia molto piú significativo di tutte le impostazioni dei «grandi studiosi di politica» e che tutto si riduca a un'applicazione del proverbio volgare «chi sa il gioco non l'insegni». La corrente «antimachiavellica» non è che la manifestazione teorica di questo principio di arte politica elementare: che certe cose si fanno ma non si dicono.

Proprio da questo pare nasca il problema piú interessante: perché il Machiavelli ha scritto il Principe, non come una «memoria» segreta o riservata, come «istruzioni» di un consigliere a un principe, ma come un libro che avrebbe dovuto andare nelle mani di tutti? Per scrivere un'opera di «scienza» disinteressata, come potrebbe arguirsi dagli accenni del Croce? Pare ciò sia contro lo spirito dei tempi, sia una concezione anacronistica. Per «ingenuità», dato che il Machiavelli è visto come un teorico e non come uomo d'azione? Non pare accettabile l'ipotesi dell'«ingenuità» vanitosa e «chiacchierona». Bisogna ricostruire i tempi, e le esigenze che il Machiavelli vedeva in essi. In realtà, pare si possa dire, nonostante che il Principe abbia una destinazione precisa, che il libro non è scritto per nessuno e per tutti: è scritto per un ipotetico «uomo della provvidenza» che potrebbe manifestarsi cosí come si era manifestato il Valentino o altri condottieri, dal nulla, senza tradizione dinastica, per le sue qualità militari eccezionali. La conclusione del Principe giustifica tutto il libro anche verso le masse popolari che realmente dimenticano i mezzi impiegati per raggiungere un fine se questo fine è storicamente progressivo, cioè risolve i problemi essenziali dell'epoca e stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente. Nell'interpretare il Machiavelli si dimentica che la monarchia assoluta era in quei tempi una forma di reggimento popolare e che essa si appoggiava sui borghesi contro i nobili e anche contro il clero. (L'Oxilia accenna all'ipotesi che l'interpretazione democratica del Machiavelli nel periodo '700-800 sia stata rafforzata e resa piú ovvia dal Giorno del Parini, «satirico istitutore del giovin signore, come il Machiavelli – in altri tempi, con altre nature e misure d'uomini – sarebbe stato il tragico istitutore del principe»).

 

[1.] Cfr. ciò che scrive l'Alfieri sul Machiavelli nel libro Del principe e delle lettere. Parlando delle «massime immorali e tiranniche» che si potrebbero ricavare «qua e » dal Principe l'Alfieri nota: «e queste dall'autore sono messe in luce (a chi ben riflette) molto piú per disvelare ai popoli le ambizioni ed avvedute crudeltà dei principi che non certamente per insegnare ai principi a praticarle: poiché essi piú o meno sempre le adoprano, le hanno adoperate e le adopereranno, secondo il loro bisogno, ingegno e destrezza». A parte l'interpretazione democratica, la nota è giusta: ma certo il Machiavelli non voleva «solo» insegnare ai principi le «massime» che essi conoscevano e adoperavano. Voleva invece insegnare la «coerenza» nell'arte di governo e la coerenza impiegata ad un certo fine: la creazione di uno Stato unitario italiano. Cioè il Principe non è un libro di «scienza», accademicamente inteso, ma di «passione politica immediata», un «manifesto» di partito, che si fonda su una concezione «scientifica» dell'arte politica. Il Machiavelli insegna davvero la «coerenza» dei mezzi «bestiali», e ciò è contro la tesi dell'Alderisio (di cui occorre vedere lo scritto Intorno all'arte dello Stato del Machiavelli. Discussione ulteriore dell'interpretazione di essa come «pura politica», nei «Nuovi Studi» del giugno-ottobre 1932) ma questa «coerenza» non è una cosa meramente formale, ma la forma necessaria di una determinata linea politica attuale. Che poi dalla esposizione del Machiavelli si possano trarre elementi di una «pura politica» è altra quistione: ciò riguarda il posto che il Machiavelli occupa nel processo di formazione della scienza politica «moderna», che non è piccolo. L'Alderisio imposta male tutto il problema, e le qualche buone ragioni che può avere si perdono nella sconnessione del quadro generale sbagliato.

II. La quistione del perché il Machiavelli abbia scritto il Principe e le altre opere non è una semplice quistione di cultura o di psicologia dell'autore: essa serve a spiegare in parte il fascino di questi scritti, la loro vivacità e originalità. Non si tratta certo di «trattati» del tipo medioevale; neppure si tratta di opere di un avvocato curiale che voglia giustificare le operazioni o il modo di operare dei suoi «sostentatori» o sia pure del suo principe. Le opere del Machiavelli sono di carattere «individualistico», espressioni di una personalità che vuole intervenire nella politica e nella storia del suo paese e in tal senso sono di origine «democratica». C'è la «passione» del «giacobino» nel Machiavelli e perciò egli doveva tanto piacere ai giacobini e agli illuministi: è questo un elemento «nazionale» in senso proprio e dovrebbe essere studiato preliminarmente in ogni ricerca sul Machiavelli.

 

Articolo di Luigi Cavina nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1927: Il sogno nazionale di Niccolò Machiavelli in Romagna e il governo di Francesco Guicciardini.

L'argomento del saggio è interessante, ma il Cavina non ne sa trarre tutte le conseguenze necessarie, dato il carattere superficialmente descrittivo e retorico dello scritto.

Dopo la battaglia di Pavia e la definitiva sconfitta dei Francesi, che assicurava l'egemonia spagnola nella penisola, i signori italiani sono invasi dal panico. Il Machiavelli che si era recato a Roma per consegnare personalmente a Clemente VII le Istorie Fiorentine che aveva ultimato, propone al papa di creare una milizia nazionale (significato preciso del termine) e lo convince a fare un esperimento. Il papa invia il Machiavelli in Romagna presso Francesco Guicciardini che ne era Presidente, con un breve in data 6 giugno 1525. Il Machiavelli doveva esporre al Guicciardini il suo progetto e il Guicciardini doveva dare il suo parere.

Il breve di Clemente VII deve essere tutto interessante; egli espone lo sconvolgimento in cui si trova l'Italia, cosí grande da indurre a cercare anche rimedi nuovi e inconsueti e conclude: «Res magna est, ut iudicamus, et salus est in ea cum status ecclesiastici, tum totius Italiae ac prope universae cristianitatis reposita», dove si vede come l'Italia era per il papa il termine medio tra lo Stato ecclesiastico e la cristianità.

Perché l'esperienza in Romagna? Oltre alla fiducia che il papa aveva nella prudenza politica del Guicciardini, occorre forse pensare ad altri elementi: i Romagnoli erano buoni soldati, avevano combattuto con valore e fedeltà ad Agnadello, sia pure da mercenari. C'era poi stato in Romagna il precedente del Valentino, che aveva reclutato tra il popolo buoni soldati, ecc.

Il Guicciardini fino dal 1512 aveva scritto che il dare le armi ai cittadini «non è cosa aliena da uno vivere di repubblica e populare, perché quando vi si una giustizia buona e ordinate leggi, quelle armi non si adoperano in pernizie, ma in utilità della patria» e aveva lodato anche l'istituzione dell'ordinanza ideata dal Machiavelli (tentativo di creare a Firenze una milizia cittadina, che preparò la resistenza durante l'assedio).

Ma il Guicciardini non credeva possibile fare il tentativo in Romagna per le fierissime divisioni di parte che vi dominavano (interessanti i giudizi del Guicciardini sulla Romagna): i ghibellini dopo la vittoria di Pavia sono pronti ad ogni novità; anche se non si danno le armi nascerà qualche subbuglio; non si può dare le armi per opporsi agli imperiali proprio ai fautori degli imperiali. La difficoltà inoltre è accresciuta dal fatto che lo Stato è ecclesiastico, cioè senza direttive a lunga scadenza e con facili grazie e impunità, alla piú lunga ad ogni nuova elezione di papa. In altro Stato le fazioni si potrebbero domare, non nello Stato della Chiesa. Poiché Clemente VII col suo breve aveva detto che al buon risultato dell'impresa occorrevano non solo ordine e diligenza, ma anche l'impegno e l'amore del popolo, il Guicciardini dice che ciò non può essere perché «La Chiesa in effetto non ci ha amici, né quelli che desidererebbero bene vivere, né per diverse ragioni i faziosi e tristi».

Ma l'iniziativa non ebbe altro seguito, perché il papa lasciò cadere il progetto. L'episodio è tuttavia del massimo interesse, per mostrare quanto grande fosse la volontà e la virtú di persuasione del Machiavelli, per i giudizi pratici immediati del Guicciardini e anche per l'atteggiamento del papa che evidentemente rimase per qualche tempo sotto l'influsso del Machiavelli; il breve può assumersi come un compendio della concezione del Machiavelli adattata alla mentalità pontificia.

Non si conoscono le ragioni che il Machiavelli (deve) aver contrapposto alle osservazioni del Guicciardini, perché questi non ne parla nelle sue lettere e le lettere del Machiavelli a Roma non si conoscono. Si può osservare che le innovazioni militari sostenute dal Machiavelli non potevano essere improvvisate in pieno sviluppo dell'invasione spagnola e che le sue proposte al papa in quel momento non potevano avere risultati concreti.

 

 

Armi e religione. Affermazione del Guicciardini che per la vita di uno Stato due cose sono assolutamente necessarie: le armi e la religione. La formula del Guicciardini può essere tradotta in varie formule, meno drastiche: forza e consenso, coercizione e persuasione, Stato e Chiesa, società politica e società civile, politica e morale (storia etico-politica del Croce), diritto e libertà, ordine e disciplina, o, con un giudizio implicito di sapore libertario, violenza e frode. In ogni caso nella concezione politica del Rinascimento la religione era il consenso e la Chiesa era la Società civile, l'apparato di egemonia del gruppo dirigente, che non aveva un apparato proprio, cioè non aveva una propria organizzazione culturale e intellettuale, ma sentiva come tale l'organizzazione ecclesiastica universale. Non si è fuori del Medio Evo che per il fatto che apertamente si concepisce e si analizza la religione come «instrumentum regni».

Da questo punto di vista è da studiare l'iniziativa giacobina dell'istituzione del culto dell'«Ente supremo», che appare pertanto come un tentativo di creare identità tra Stato e società civile, di unificare dittatorialmente gli elementi costitutivi dello Stato in senso organico e piú largo (Stato propriamente detto e società civile) in una disperata ricerca di stringere in pugno tutta la vita popolare e nazionale, ma appare anche come la prima radice dello Stato moderno laico, indipendente dalla Chiesa, che cerca e trova in se stesso, nella sua vita complessa, tutti gli elementi della sua personalità storica.

 

Nel libro di Clemenceau, Grandeurs et misères d'une victoire, Plon, 1930, nel capitolo «Les critiques de l'escalier» sono contenute alcune delle osservazioni generali da me fatte nella nota sull'articolo di Paolo Treves, Il realismo politico di Guicciardini: per es. la distinzione tra politici e diplomatici. I diplomatici sono stati formati (dressés) per l'esecuzione, non per l'iniziativa, dice Clemenceau, ecc. Il capitolo è tutto di polemica contro Poincaré che aveva rimproverato il non impiego dei diplomatici nella preparazione dei trattato di Versailles. Clemenceau, da puro uomo d'azione, da puro politico, è estremamente sarcastico contro Poincaré, il suo spirito avvocatesco, le sue illusioni che si possa creare la storia coi cavilli, coi sotterfugi, con le abilità formali, ecc. «La diplomatie est instituée [plutôt] pour le maintien des inconciliables que pour l'innovation des imprévus. Dans le mot "diplomate" il y a la racine double, au sens de plier». (È vero però che questo concetto di doppio non si riferisce ai «diplomatici» ma ai «diplomi» che i diplomatici conservavano e aveva un significato materiale, di foglio piegato).

 

 

Teoria e pratica. Riletta la famosa dedica del Bandello a Giovanni delle Bande Nere dove si parla del Machiavelli e dei suoi tentativi inutili per ordinare secondo le sue teorie dell'arte della guerra una moltitudine di soldati in campo, mentre Giovanni delle Bande Nere «in un batter d'occhio con l'aita dei tamburini» ordinò «quella gente in vari modi e forme, con ammirazione grandissima di chi vi si ritrovò». Appare chiaro che né in Bandello e neanche in Giovanni vi fu alcun proposito di «sfottere» il Machiavelli per la sua incapacità, e che lo stesso Machiavelli non se l'ebbe a male. L'impiego di questo aneddoto per trarre conseguenze sull'astrattezza del Machiavelli è un non senso e dimostra che non si capisce la sua portata esatta. Il Machiavelli non era un militare di professione, ecco tutto; cioè non sapeva il «linguaggio» degli ordini e dei segnali militari (trombe, tamburi ecc.). D'altronde prima che un complesso di soldati, graduati, sottufficiali, ufficiali, abbia preso l'abitudine a evolvere in un certo senso, ci vuole molto tempo. Un ordinamento teorico delle milizie può essere ottimo in tutto, ma per essere applicato deve diventare «regolamento», disposizioni d'esercizio, ecc., «linguaggio» subito capito e quasi automaticamente attuato. Si sa che molti legislatori di primo ordine non sanno compilare i «regolamenti» burocratici e organizzare gli uffici e selezionare il personale atto ad applicare le leggi, ecc. Si può dire dunque solo questo del Machiavelli, che fu troppo corrivo ad improvvisarsi «tamburino».

La quistione è tuttavia importante: non si può scindere l'amministratore-funzionario dal legislatore, l'organizzatore dal dirigente, ecc. Ma ciò non si è attuato neanche oggi e la «divisione del lavoro» supplisce non solo all'incapacità relativa, ma integra «economicamente» l'attività principale del grande stratega, del legislatore, del capo politico, che si fanno aiutare da specialisti in compilare «regolamenti», «istruzioni», «ordinamenti pratici», ecc.

 

 

Machiavelli ed Emanuele Filiberto. Un articolo della «Civiltà Cattolica» del 15 dicembre 1928 (Emanuele Filiberto di Savoia nel IV Centenario della nascita) si inizia cosí: «La coincidenza della morte del Machiavelli con la nascita di Emanuele Filiberto, non è senza ammaestramento. È piena di alto significato l'antitesi rappresentata dai due personaggi, l'uno dei quali scompare dalla scena del mondo, amareggiato e deluso, mentre l'altro sta per affacciarsi alla vita, ancora circondata di mistero, in quegli anni appunto che possiamo considerare come la linea di distacco tra l'età del Rinascimento e la Riforma cattolica. Machiavelli ed Emanuele Filiberto: chi può meglio personificare i due volti diversi, le due correnti opposte che si contendono il dominio del secolo XVI? Avrebbe mai immaginato il Segretario Fiorentino che proprio quel secolo, al quale aveva auspicato un Principe, in sostanza, pagano nel pensiero e nell'opera, avrebbe invece veduto il monarca che piú si avvicinò all'ideale del perfetto principe cristiano?».

Le cose sono molto diverse da quelle che paiono allo scrittore della «Civiltà Cattolica», ed Emanuele Filiberto continua e realizza Machiavelli piú di quanto non possa sembrare per esempio nell'ordinamento delle milizie nazionali. D'altronde, Emanuele Filiberto per altre cose poteva richiamarsi al Machiavelli; egli non rifuggiva anche dal far sopprimere con la violenza e con la frode i suoi nemici.

Questo articolo della «Civiltà Cattolica» interessa per i rapporti tra Emanuele Filiberto e i gesuiti e per la parte presa da questi nella lotta contro i Valdesi.

 

Su Emanuele Filiberto, è interessante, scritto con serietà (non agiografico) l'articolo di Pietro Egidi nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928, Emanuele Filiberto di Savoia. Le capacità militari di Emanuele Filiberto sono delineate con perspicuità: Emanuele Filiberto segna il passaggio dalla strategia degli eserciti di ventura alla nuova strategia che troverà poi i suoi rappresentanti in Federico II e in Napoleone: la grande guerra di movimento per obbiettivi capitali e decisivi. A Cateau Cambrésis riesce a riottenere, per l'aiuto della Spagna, il suo Stato, ma nel trattato è stabilita la «neutralità» del Piemonte, cioè è stabilita l'indipendenza sia da Francia che da Spagna (l'Egidi sostiene che sia stato Emanuele Filiberto a suggerire ai francesi di domandare questa neutralità, per essere in grado di sfuggire alla soggezione spagnola, ma si tratta di ipotesi: in questo caso gli interessi della Francia e quelli del Piemonte coincidevano perfettamente): cosí si inizia la politica estera moderna dei Savoia di equilibrio tra le due potenze principali dell'Europa. Ma dopo questa pace il Piemonte perde già da allora irreparabilmente alcune terre: Ginevra e le terre intorno al lago di Ginevra.

In una storia bisognerebbe almeno accennare alle varie fasi territoriali attraversate dal Piemonte, da prevalentemente francese a franco-piemontese, a italiano. (Emanuele Filiberto fu fondamentalmente un generale della Controriforma).

L'Egidi delinea abbastanza perspicuamente anche la politica estera di Emanuele Filiberto, ma non che cenni insufficienti sulla politica interna e specialmente militare, e i pochi cenni sono legati a quei fatti di politica interna che dipendevano strettamente dall'estero, cioè dall'unificazione territoriale dello Stato per le retrocessioni delle terre ancora occupate da francesi e spagnoli dopo Cateau Cambrésis o dagli accordi coi Cantoni Svizzeri per riacquistare qualche elemento delle terre perdute. (Per lo studio su Machiavelli studiare specialmente gli ordinamenti militari di Emanuele Filiberto e la sua politica interna per rispetto all'equilibrio di classi su cui si fondò il principato assoluto dei Savoia).

 

 

Lo Stato. Il prof. Giulio Miskolczy, direttore dell'Accademia ungherese di Roma, nella «Magyar Szemle» (articolo riportato nella «Rassegna della Stampa Estera» del 3-10 gennaio 1933) scrive che in Italia il «Parlamento, che prima era, per cosí dire, fuori dello Stato, è rimasto un collaboratore prezioso, ma è stato inserito nello Stato ed ha subito un cambiamento essenziale nella sua composizione ecc.». Che il Parlamento possa essere «inserito» nello Stato è una scoperta di scienza e di tecnica politica degna dei Cristoforo Colombo del forcaiolismo moderno. Tuttavia l'affermazione è interessante, per vedere come concepiscono lo Stato praticamente molti uomini politici. E in realtà è da porsi la domanda: i Parlamenti fanno parte della struttura degli Stati, anche nei paesi dove pare che i Parlamenti abbiano il massimo di efficienza, oppure che funzione reale hanno? E in che modo, se la risposta è positiva, essi fanno parte dello Stato, e in che modo esplicano la loro funzione particolare? Tuttavia: l'esistenza dei Parlamenti, anche se essi organicamente non fanno parte dello Stato, è senza significato statale? E quale fondamento hanno le accuse che si fanno al parlamentarismo e al regime dei partiti, che è inseparabile dal parlamentarismo? (fondamento obbiettivo, s'intende, cioè legato al fatto che l'esistenza dei Parlamenti, di per sé, ostacola e ritarda l'azione tecnica del governo). Che il regime rappresentativo possa politicamente «dar noia» alla burocrazia di carriera s'intende; ma non è questo il punto. Il punto è se [il] regime rappresentativo e dei partiti invece di essere un meccanismo idoneo a scegliere funzionari eletti che integrino ed equilibrino i burocratici nominati, per impedire [ad essi] di pietrificarsi, sia divenuto un inciampo e un meccanismo a rovescio e per quali ragioni. Del resto, anche una risposta affermativa a queste domande non esaurisce la quistione: perché anche ammesso (ciò che è da ammettere) che il parlamentarismo è divenuto inefficiente e anzi dannoso, non è da concludere che il regime burocratico sia riabilitato ed esaltato. È da vedere se parlamentarismo e regime rappresentativo si identificano e se non sia possibile una diversa soluzione sia del parlamentarismo che del regime burocratico, con un nuovo tipo di regime rappresentativo.

 

 

I limiti dell'attività dello Stato. Vedere la discussione avvenuta in questi anni a questo proposito: è la discussione piú importante di dottrina politica e serve a segnare i confini tra liberali e non liberali. Può servire di punto di riferimento il volumetto di Carlo Alberto Biggini, Il fondamento dei limiti all'attività dello Stato, Città di Castello, Casa ed. «Il Solco», pp. 150, L. 10. L'affermazione del Biggini che si ha tirannia solo se si vuol regnare fuor «delle regole costitutive della struttura sociale» può avere ampliamenti ben diversi da quelli che il Biggini suppone, purché per «regole costitutive» non si intendano gli articoli delle Costituzioni, come pare non intenda neanche il Biggini (prendo lo spunto da una recensione dell'ICS dell'ottobre 1929 scritta da Alfredo Poggi). (In quanto lo Stato è la stessa società ordinata, è sovrano. Non può avere limite giuridico: non può avere limite nei diritti pubblici soggettivi, né può dirsi che si autolimiti. Il diritto positivo non può essere limite allo Stato perché può essere dallo Stato ad ogni momento modificato in nome di nuove esigenze sociali, ecc.).

A questo risponde il Poggi che sta bene e che ciò è già implicito nella dottrina del limite giuridico cioè finché un ordinamento giuridico è, lo Stato vi è costretto; se lo vuol modificare, lo sostituirà con un altro ordinamento, cioè lo Stato non può agire che [per] via giuridica (ma siccome tutto ciò che fa lo Stato, è per ciò stesso giuridico, si può continuare all'infinito). Veder quanto delle concezioni del Biggini è marxismo camuffato e reso astratto.

Per lo svolgimento storico di queste due concezioni dello Stato mi pare debba essere interessante il libretto di Widar Cesarini Sforza, «Jus» et «directum». Note sull'origine storica dell'idea di diritto, in , pp. 90, Bologna, Stab. tipogr. riuniti, 1930. I romani foggiarono la parola jus per esprimere il diritto come potere della volontà e intesero l'ordine giuridico come un sistema di poteri non contenuti nella loro sfera reciproca da norme oggettive e razionali: tutte le espressioni da essi usate di aequitas, Justitia, recta o naturalis ratio devono intendersi nei limiti di questo significato fondamentale. Il Cristianesimo piú che il concetto di jus ha elaborato il concetto di directum nella sua tendenza a subordinare la volontà alla norma, a trasformare il potere in dovere. Il concetto di diritto come potenza è riferito solo a Dio, la cui volontà diventa norma di condotta inspirata al principio dell'eguaglianza. La Justitia non si distingue ormai dall'aequitas ed entrambe implicano la rectitudo che è qualità soggettiva del volere di conformarsi a ciò che è retto e giusto. Traggo questi spunti da una recensione (nel «Leonardo» dell'agosto 1930) di G. Solari che fa rapide obbiezioni al Cesarini Sforza.

 

 

Stato e società regolata. Nelle nuove tendenze «giuridiche» rappresentate specialmente dai «Nuovi Studi» del Volpicelli e dello Spirito è da notare, come spunto critico iniziale, la confusione tra il concetto di Stato-classe e il concetto di società regolata. Questa confusione è specialmente notevole nella memoria La libertà economica svolta dallo Spirito nella XIX Riunione della Società per il progresso delle Scienze tenuta a Bolzano nel settembre 1930 e stampata nei «Nuovi Studi» del settembre-ottobre 1930. Finché esiste lo Stato-classe non può esistere la società regolata, altro che per metafora, cioè solo nel senso che anche lo Stato-classe è una società regolata. Gli utopisti, in quanto esprimevano una critica della società esistente al loro tempo, comprendevano benissimo che lo Stato-classe non poteva essere la società regolata, tanto vero che nei tipi di società rappresentati dalle diverse utopie, s'introduce l'uguaglianza economica come base necessaria della riforma progettata: ora in questo gli utopisti non erano utopisti, ma concreti scienziati della politica e critici congruenti. Il carattere utopistico di alcuni di essi era dato dal fatto che ritenevano si potesse introdurre la uguaglianza economica con leggi arbitrarie, con un atto di volontà, ecc. Rimane però esatto il concetto, che si trova anche in altri scrittori di politica (anche di destra, cioè nei critici della democrazia, in quanto essa si serve del modello svizzero o danese per ritenere il sistema ragionevole in tutti i paesi) che non può esistere eguaglianza politica completa e perfetta senza eguaglianza economica: negli scrittori del Seicento questo concetto si ritrova, per esempio, in Ludovico Zuccolo e nel suo libro Il Belluzzi e credo anche in Machiavelli. Il Maurras ritiene che in Svizzera sia possibile quella certa forma di democrazia, appunto perché c'è una certa mediocrità delle fortune economiche, ecc.

La confusione di Stato-classe e Società regolata è propria delle classi medie e dei piccoli intellettuali, che sarebbero lieti di una qualsiasi regolarizzazione che impedisse le lotte acute e le catastrofi: è concezione tipicamente reazionaria e regressiva.

 

 

Stato etico o di cultura. Mi pare che ciò che di piú sensato e concreto si possa dire a proposito dello Stato etico e di cultura è questo: ogni Stato è etico in quanto una delle sue funzioni piú importanti è quella di elevare la grande massa della popolazione a un determinato livello culturale e morale, livello (o tipo) che corrisponde alle necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi dominanti. La scuola come funzione educativa positiva e i tribunali come funzione educativa repressiva e negativa sono le attività statali piú importanti in tal senso: ma in realtà alfine tendono una molteplicità di altre iniziative e attività cosidette private che formano l'apparato dell'egemonia politica e culturale delle classi dominanti. La concezione di Hegel è propria di un periodo in cui lo sviluppo in estensione della borghesia poteva apparire illimitato, quindi l'eticità o universalità di essa poteva essere affermata: tutto il genere umano sarà borghese. Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale.

 

 

Hegel e l'associazionismo. La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama «privata» dello Stato. Essa derivò storicamente dalle esperienze politiche della Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituzionalismo. Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell'istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche «educa» questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all'iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo senso, supera già, cosí, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime dei partiti. La sua concezione dell'associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l'economico, secondo l'esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello «corporativo» (politica innestata nell'economia).

Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell'organizzazione rimane ancora impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica. La Rivoluzione francese offre due tipi prevalenti: i clubs, che sono organizzazioni non rigide, tipo «comizio popolare», centralizzate da singole individualità politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con cui tiene desta l'attenzione e l'interesse di una determinata clientela sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle riunioni del club. È certo che in mezzo agli assidui dei clubs dovevano esistere aggruppamenti ristretti e selezionati di gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva a parte e preparava l'atmosfera delle riunioni per sostenere l'una o l'altra corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi concreti in gioco. Le cospirazioni segrete, che poi ebbero tanta diffusione in Italia prima del '48, dovettero svilupparsi dopo il Termidoro in Francia, tra i seguaci di seconda linea del giacobinismo, con molte difficoltà nel periodo napoleonico per l'occhiuto controllo della polizia, con piú facilità dal '15 al '30 sotto la Restaurazione, che fu abbastanza liberale alla base e non aveva certe preoccupazioni. In questo periodo dal '15 al '30 dovette avvenire la differenziazione del campo politico popolare, che appare già notevole nelle «gloriose giornate» del 1830, in cui affiorano le formazioni venutesi costituendo nel quindicennio precedente. Dopo il '30 e fino al '48 questo processo di differenziazione si perfeziona e dei tipi abbastanza compiuti con Blanqui e con Filippo Buonarroti.

È difficile che Hegel potesse conoscere da vicino queste esperienze storiche, che invece erano piú vivaci in Marx (su questa serie di fatti vedere come primo materiale le pubblicazioni di Paul Louis e il Dizionario politico di Maurice Block; per la Rivoluzione francese specialmente Aulard; vedere anche le note dell'Andler al Manifesto; per l'Italia il libro del Luzio sulla Massoneria e il Risorgimento, molto tendenzioso).

 

 

Lo Stato e la concezione del diritto. La rivoluzione portata dalla classe borghese nella concezione del diritto e quindi nella funzione dello Stato consiste specialmente nella volontà di conformismo (quindi eticità del diritto e dello Stato). Le classi dominanti precedenti erano essenzialmente conservatrici nel senso che non tendevano ad elaborare un passaggio organico dalle altre classi alla loro, ad allargare cioè la loro sfera di classe «tecnicamente» e ideologicamente: la concezione di casta chiusa. La classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico: tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato diventa «educatore», ecc. Come avvenga un arresto e si ritorni alla concezione dello Stato come pura forza ecc. La classe borghese è «saturata»: non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente piú numerose delle assimilazioni). Una classe che ponga se stessa come passibile di assimilare tutta la società, e sia nello stesso tempo realmente capace di esprimere questo processo, porta alla perfezione questa concezione dello Stato e del diritto, tanto da concepire la fine dello Stato e del diritto come diventati inutili per aver esaurito il loro compito ed essere stati assorbiti dalla società civile.

 

 

Concetto di Stato. Che il concetto comune di Stato sia unilaterale e conduca a errori madornali si può dimostrare parlando del recente libro di Daniele Halévy Decadenza della libertà di cui ho letto una recensione nelle «Nouvelles Littéraires». Per Halévy «Stato» è l'apparato rappresentativo ed egli scopre che i fatti piú importanti della storia francese dal '70 ad oggi non sono dovuti ad iniziative degli organismi politici derivanti dal suffragio universale, ma o da organismi privati (società capitalistiche, Stato maggiore, ecc.) o da grandi funzionari sconosciuti al paese, ecc. Ma cosa significa ciò se non che per Stato deve intendersi oltre all'apparato governativo anche l'apparato «privato» di egemonia o società civile. È da notare come da questa critica dello «Stato» che non interviene, che è alla coda degli avvenimenti, ecc., nasce la corrente ideologica dittatoriale di destra, col suo rafforzamento dell'esecutivo, ecc. Bisognerebbe però leggere il libro dell'Halévy per vedere se anch'egli è entrato in questa via: non è difficile in linea di principio, dati i suoi precedenti (simpatie soreliane, per Maurras, ecc.).

 

Curzio Malaparte nell'introduzione al suo volumetto sulla Tecnica del colpo di Stato pare affermi l'equivalenza della formula: «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato» con la proposizione: «dove c'è la libertà non c'è lo Stato». In questa proposizione il termine «libertà» non è inteso nel significato comune di «libertà politica, ossia di stampa ecc.», ma come contrapposto a «necessità» ed è in relazione alla proposizione di Engels sul passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Il Malaparte non ha neanche annasato il significato della proposizione.

 

 

Lo Stato «veilleur de nuit». Nella polemica (del resto superficiale) sulle funzioni dello Stato (e si intende dello Stato come organizzazione politico-giuridica in senso stretto) l'espressione di «Stato - veilleur de nuit» corrisponde all'italiano di «Stato carabiniere» e vorrebbe significare uno Stato le cui funzioni sono limitate alla tutela dell'ordine pubblico e del rispetto delle leggi. Non si insiste sul fatto che in questa forma di regime (che poi non è mai esistito altro che, come ipotesi-limite, sulla carta) la direzione dello sviluppo storico appartiene alle forze private, alla società civile, che è anch'essa «Stato», anzi è lo Stato stesso. Pare che l'espressione «veilleur de nuit», che dovrebbe avere un valore piú sarcastico di «Stato carabiniere» o di «Stato poliziotto», sia di Lassalle. Il suo opposto dovrebbe essere lo «Stato etico» o lo «Stato intervenzionista» in generale, ma ci sono differenze tra una e l'altra espressione: il concetto di Stato etico è di origine filosofica e intellettuale (propria degli intellettuali: Hegel) e in verità potrebbe essere congiunta con quello di «Stato - veilleur de nuit», poiché si riferisce piuttosto all'attività, autonoma, educativa e morale dello Stato laico in contrapposto al cosmopolitismo e all'ingerenza dell'organizzazione religioso-ecclesiastica come residuo medioevale; il concetto di Stato intervenzionista è di origine economica ed è connesso, da una parte, alle correnti protezionistiche o di nazionalismo economico e, dall'altra, al tentativo di far assumere a un personale statale determinato, di origine terriera e feudale, la «protezione» delle classi lavoratrici contro gli eccessi del capitalismo (politica di Bismarck e Disraeli). Queste diverse tendenze possono combinarsi in vario modo e di fatto si sono combinate. Naturalmente i liberali «economisti» sono per lo «Stato - veilleur de nuit» e vorrebbero che l'iniziativa storica fosse lasciata alla società civile e alle diverse forze che vi pullulano con lo «Stato» guardiano della «lealtà del gioco» e delle leggi di esso: gli intellettuali fanno distinzioni molto importanti quando sono liberali e anche quando sono intervenzionisti (possono essere liberali nel campo economico e intervenzionisti in quello culturale, ecc.).

I cattolici vorrebbero lo Stato intervenzionista in loro completo favore; in mancanza di ciò, o dove sono minoranza, domandano lo Stato «indifferente», perché non sostenga i loro avversari.

 

 

Stato gendarme-guardiano notturno, ecc. È da meditare questo argomento: la concezione dello Stato gendarme - guardiano notturno, ecc. (a parte la specificazione di carattere polemico: gendarme, guardiano notturno, ecc.) non è poi la concezione dello Stato che sola superi le estreme fasi «corporative-economiche»? Siamo sempre nel terreno della identificazione di Stato e Governo, identificazione che appunto è un ripresentarsi della forma corporativa-economica, cioè della confusione tra società civile e società politica, poiché è da notare che nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione). In una dottrina dello Stato che concepisca questo come passibile tendenzialmente di esaurimento e di risoluzione nella società regolata, l'argomento è fondamentale. L'elemento Stato-coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre piú cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile). Le espressioni di Stato etico o di società civile verrebbero a significare che quest'«immagine» di Stato senza Stato era presente ai maggiori scienziati della politica e del diritto in quanto si ponevano nel terreno della pura scienza (= pura utopia, in quanto basata sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e quindi ugualmente ragionevoli e morali, cioè passibili di accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza). Occorre ricordare che l'espressione di guardiano notturno per lo Stato liberale è di Lassalle, cioè di uno statalista dogmatico e non dialettico. (Cfr. bene la dottrina di Lassalle su questo punto e sullo Stato in generale, in contrasto col marxismo). Nella dottrina dello Statosocietà regolata, da una fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato si identificherà con società civile, si dovrà passare a una fase di Stato-guardiano notturno, cioè di una organizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento, e pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi. Né ciò può far pensare a un nuovo «liberalismo», sebbene sia per essere l'inizio di un'era di libertà organica.

 

 

Fase economica-corporativa dello Stato. Se è vero che nessun tipo di Stato non può non attraversare una fase di primitivismo economico-corporativa, se ne deduce che il contenuto dell'egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione. Gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sarà di previsione e di lotta, ma con elementi «di piano» ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo, di critica del passato, tenderà a far dimenticare e a distruggere: le linee della costruzione saranno ancora «grandi linee», abbozzi, che potrebbero (e dovrebbero) essere cambiate in ogni momento, perché siano coerenti con la nuova struttura in formazione. Ciò appunto non si verifica nel periodo dei Comuni; anzi la cultura, che rimane funzione della Chiesa, è proprio di carattere antieconomico (dell'economia capitalistica nascente), non è indirizzata a dare l'egemonia alla nuova classe, ma anzi a impedire che questa l'acquisti: l'Umanesimo e il Rinascimento perciò sono reazionari, perché segnano la sconfitta della nuova classe, la negazione del mondo economico che le è proprio ecc.

 

1) Altro elemento da esaminare è quello dei rapporti organici tra la politica interna e la politica estera di uno Stato. È la politica interna che determina quella estera o viceversa? Anche in questo caso occorrerà distinguere: tra grandi potenze, con relativa autonomia internazionale, e altre potenze, e ancora tra diverse forme di governo (un governo come quello di Napoleone III aveva due politiche, apparentemente, reazionaria all'interno e liberale all'estero).

2) Condizioni di uno Stato prima e dopo una guerra. È evidente che contano, in una alleanza, le condizioni in cui uno Stato si trova al momento della pace. Può avvenire perciò che chi ha avuto l'egemonia durante la guerra, finisca col perderla per l'indebolimento subito nella lotta e debba vedere un «subalterno» che è stato piú abile o piú «fortunato» diventare egemone. Ciò si verifica nelle «guerre mondiali» quando la situazione geografica costringe uno Stato a gettare tutte le sue risorse nel crogiolo: vince per le alleanze, ma la vittoria lo trova prostrato ecc. Ecco perché nel concetto di «grande potenza» occorre tener conto di molti elementi e specialmente di quelli «permanenti», cioè specialmente «potenzialità economica e finanziaria» e popolazione.

 

 

Organizzazione delle società nazionali. Ho notato altra volta che in una determinata società nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si intendano organizzazione e partito in senso largo e non formale. In questa molteplicità di società particolari, di carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario, una o piú prevalgono relativamente o assolutamente, costituendo l'apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione (o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato governativo-coercitivo.

Avviene sempre che le singole persone appartengano a piú di una società particolare e spesso a società che essenzialmente sono in contrasto fra loro. Una politica totalitaria tende appunto: 1) a ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei; 2) a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore. Ciò avviene: 1) quando il partito dato è portatore di una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2) quando il partito dato vuole impedire che un'altra forza, portatrice di una nuova cultura, diventi essa «totalitaria»; e si ha una fase regressiva e reazionaria oggettivamente, anche se la reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura.

 

Luigi Einaudi, nella «Riforma Sociale» del maggio-giugno 1931, recensisce un volume francese Les sociétés de la nation. Étude sur les éléments constitutifs de la nation française, di Etienne Martin - Saint-Léon (vol. di pp. 413, Ed. Spes, 17, rue Soufflot, Parigi, 1930, frs. 45) dove una parte di queste organizzazioni sono studiate, ma solo quelle che esistono formalmente. (Per es., i lettori di un giornale formano o no una organizzazione?, ecc.). In ogni modo, se l'argomento fosse trattato, vedere il libro e anche la recensione dell'Einaudi.

 

 

I costumi e le leggi. È opinione molto diffusa e anzi è opinione ritenuta realistica e intelligente che le leggi devono essere precedute dal costume, che la legge è efficace solo in quanto sanziona i costumi. Questa opinione è contro la storia reale dello sviluppo del diritto, che ha domandato sempre una lotta per affermarsi e che in realtà è lotta per la creazione di un nuovo costume. Nell'opinione su citata esiste un residuo molto appariscente di moralismo intruso nella politica.

Si suppone che il diritto sia espressione integrale dell'intera società, ciò che è falso: invece espressione piú aderente della società sono quelle regole di condotta che i giuristi chiamano «giuridicamente indifferenti» e la cui zona cambia coi tempi e con l'estensione dell'intervento statale nella vita dei cittadini. Il diritto non esprime tutta la società (per cui i violatori del diritto sarebbero esseri antisociali per natura, o minorati psichici), ma la classe dirigente, che «impone» a tutta la società quelle norme di condotta che sono piú legate alla sua ragion d'essere e al suo sviluppo. La funzione massima del diritto è questa: di presupporre che tutti i cittadini devono accettare liberamente il conformismo segnato dal diritto, in quanto tutti possono diventare elementi della classe dirigente; nel diritto moderno cioè è implicita l'utopia democratica del secolo XVIII.

Qualche cosa di vero tuttavia esiste nell'opinione che il costume deve precedere il diritto: infatti nelle rivoluzioni contro gli Stati assoluti, esisteva già come costume e come aspirazione una gran parte di ciò che poi divenne diritto obbligatorio: è con il nascere e lo svilupparsi delle disuguaglianze che il carattere obbligatorio del diritto andò aumentando, cosí come andò aumentando la zona dell'intervento statale e dell'obbligazionismo giuridico. Ma in questa seconda fase, pur affermando che il conformismo deve essere libero e spontaneo, si tratta di ben altro: si tratta di reprimere e soffocare un diritto nascente e non di conformare.

L'argomento rientra in quello piú generale della diversa posizione che hanno avuto le classi subalterne prima di diventare dominanti. Certe classi subalterne devono avere un lungo periodo di intervento giuridico rigoroso e poi attenuato, a differenza di altre; c'è differenza anche nei modi: in certe classi l'espansività non cessa mai, fino all'assorbimento completo della società; in altre, al primo periodo di espansione succede un periodo di repressione. Questo carattere educativo, creativo, formativo del diritto è stato messo poco in luce da certe correnti intellettuali: si tratta di un residuo dello spontaneismo, del razionalismo astratto che si basa su un concetto della «natura umana» astrattamente ottimistico e facilone. Un altro problema si pone per queste correnti: quale deve essere l'organo legislativo «in senso lato», cioè la necessità di portare le discussioni legislative in tutti gli organismi di massa: una trasformazione organica del concetto di «referendum», pur mantenendo al governo la funzione di ultima istanza legislativa.

 

 

Chi è legislatore? Il concetto di «legislatore» non può non identificarsi col concetto di «politico». Poiché tutti sono «uomini politici» tutti sono anche «legislatori». Ma occorrerà fare delle distinzioni. «Legislatore» ha un preciso significato giuridico-statale, cioè significa quelle persone che sono abilitate dalle leggi a legiferare. Ma può avere anche altri significati. Ogni uomo, in quanto è attivo, cioè vivente, contribuisce a modificare l'ambiente sociale in cui si sviluppa (a modificarne determinati caratteri o a conservarne altri), cioè tende a stabilire «norme», regole di vita e di condotta. La cerchia di attività sarà maggiore o minore, la consapevolezza della propria azione e dei fini sarà maggiore o minore; inoltre, il potere rappresentativo sarà maggiore o minore, e sarà piú o meno attuato dai «rappresentati» nella sua espressione sistematica normativa. Un padre è un legislatore per i figli, ma l'autorità paterna sarà piú o meno consapevole e piú o meno obbedita e cosí via. In generale si può dire che tra la comune degli uomini e altri uomini piú specificatamente legislatori la distinzione è data dal fatto che questo secondo gruppo non solo elabora direttive che dovrebbero diventare norma di condotta per gli altri, ma nello stesso tempo elabora gli strumenti attraverso i quali le direttive stesse saranno «imposte» e se ne verificherà l'esecuzione. Di questo secondo gruppo il massimo di potere legislativo è nel personale statale (funzionari elettivi e di carriera) che hanno a loro disposizione le forze coercitive legali dello Stato. Ma non è detto che anche i dirigenti di organismi e organizzazioni «private» non abbiano sanzioni coercitive a loro disposizione, fino anche alla pena di morte. Il massimo di capacità del legislatore si può desumere dal fatto che alla perfetta elaborazione delle direttive corrisponde una perfetta predisposizione degli organismi di esecuzione e di verifica e una perfetta preparazione del consenso «spontaneo» delle masse che devono «vivere» quelle direttive, modificando le proprie abitudini, la propria volontà, le proprie convinzioni conformemente a queste direttive e ai fini che esse si propongono di raggiungere.

Se ognuno è legislatore nel senso piú largo del concetto, ognuno continua ad essere legislatore anche se accetta direttive di altri, ed eseguendole controlla che anche gli altri le eseguano, avendole comprese nel loro spirito, le divulga, quasi facendone dei regolamenti di applicazione particolare a zone di vita ristretta e individuata.

 

In uno studio di teoria finanziaria (delle imposte) di Mauro Fasiani (Schemi teorici ed «exponibilia» finanziari, nella «Riforma Sociale» del settembre-ottobre 1932) si parla di «volontà supposta di quell'essere un po' mitico, chiamato legislatore». L'espressione cautelosa ha due significati, cioè si riferisce a due ordini ben distinti di osservazioni critiche. Da una parte, si riferisce al fatto che le conseguenze di una legge possono essere diverse da quelle «previste» cioè volute coscientemente dal legislatore individuale, per cui «obbiettivamente», alla «voluntas legislatoris», cioè agli effetti previsti dal legislatore individuale, si sostituisce la «voluntas legis», cioè l'insieme di conseguenze effettuali che il legislatore individuale non aveva previsto ma che di fatto conseguono dalla legge data. (Naturalmente sarebbe da vedere se gli effetti che il legislatore individuale prevede a parole sono da lui previsti «bona fide» oppure solo per creare l'ambiente favorevole all'approvazione della legge, se i «fini» che il legislatore individuale pretende di voler conseguire non sono un semplice mezzo di propaganda ideologica o demagogica). Ma l'espressione cautelosa ha anche un altro significato che precisa il primo e lo definisce: la parola «legislatore» può essere infatti interpretata in senso molto ampio, «fino ad indicare con essa l'insieme di credenze, di sentimenti, di interessi e di ragionamenti diffusi in una collettività in un dato periodo storico». Ciò in realtà significa: 1) che il legislatore individuale (e legislatore individuale deve intendersi non solo nel caso ristretto dell'attività parlamentare-statale, ma anche in ogni altra attività «individuale» che cerchi, in sfere piú o meno larghe di vita sociale, di modificare la realtà secondo certe linee direttive) non può mai svolgere azioni «arbitrarie», antistoriche, perché il suo atto d'iniziativa, una volta avvenuto, opera come una forza a sé nella cerchia sociale determinata, provocando azioni e reazioni che sono intrinseche a questa cerchia oltre che all'atto in sé; 2) che ogni atto legislativo, o di volontà direttiva e normativa, deve anche e specialmente essere valutato obbiettivamente, per le conseguenze effettuali che potrà avere; 3) che ogni legislatore non può essere che astrattamente e per comodità di linguaggio considerato come individuo, perché in realtà esprime una determinata volontà collettiva disposta a rendere effettuale la sua «volontà», che è volontà solo perché la collettività è disposta a darle effettualità; 4) che pertanto ogni individuo che prescinda da una volontà collettiva e non cerchi di crearla, suscitarla, estenderla, rafforzarla, organizzarla, è semplicemente una mosca cocchiera, un «profeta disarmato», un fuoco fatuo.

Su questo argomento è da vedere ciò che dice il Pareto sulle azioni logiche e non logiche nella sua Sociologia. Secondo il Fasiani per il Pareto sono «azioni logiche quelle che uniscono logicamente il mezzo al fine non solo secondo il giudizio del soggetto agente (fine soggettivo) ma anche secondo il giudizio dell'osservatore (fine oggettivo). Le azioni non-logiche non hanno tale carattere. Il loro fine oggettivo differisce dal fine soggettivo». Il Fasiani non è soddisfatto da questa terminologia paretiana, ma la sua critica rimane nello stesso terreno puramente formale e schematico del Pareto.

 

 

Arte politica e arte militare. Lo scrittore italiano di cose militari generale De Cristoforis nel suo libro Che cosa sia la guerra dice che per «distruzione dell'esercito nemico» (fine strategico) non si intende «la morte dei soldati, ma lo scioglimento del loro legame come massa organica». La formula è felice e può essere impiegata anche nella terminologia politica. Si tratta di identificare quale sia nella vita politica il legame organico essenziale, che non può consistere solo nei rapporti giuridici (libertà di associazione e riunione ecc., con la sequela dei partiti e dei sindacati ecc.) ma si radica nei piú profondi rapporti economici, cioè nella funzione sociale nel mondo produttivo (forme di proprietà e di direzione ecc.).

 

 

Funzione di governo».] Articolo di Sergio Panunzio nella «Gerarchia» dell'aprile 1933 (La fine del parlamentarismo e l'accentramento delle responsabilità). Superficiale. Un punto curioso è quello in cui il Panunzio scrive che le funzioni dello Stato non sono solo tre «secondo i vecchi figurini costituzionalisti» e cioè la «legislativa», l'«amministrativa» e la «giudiziaria», ma «che a queste bisogna aggiungerne un'altra, che è poi, anche nel regime parlamentare, la principale, la primigenia, e la fondamentale, la «funzione di governo», ossia la determinazione dell'indirizzo politico. Indirizzo politico rispetto al quale la stessa legislazione si comporta come un esecutivo (!), inquantoché è il programma politico di governo che si traduce come in tanti capitoli successivi nelle leggi ed è il presupposto di queste». Presupposto e contenuto, e quindi nesso inscindibile? Il Panunzio in realtà ragiona per figurini, cioè formalisticamente, peggio dei vecchi costituzionalisti. Ciò che egli dovrebbe spiegare, per il suo assunto, è come mai sia avvenuto il distacco e la lotta tra parlamento e governo in modo che l'unità di queste due istituzioni non riesca piú a costruire un indirizzo permanente di governo, ma ciò non si può spiegare per schemi logici ma solo riferendosi ai mutamenti avvenuti nella struttura politica del paese, cioè realisticamente, con un'analisi storico-politica. Si tratta infatti di difficoltà di costruire un indirizzo politico permanente e di vasta portata, non di difficoltà senz'altro. L'analisi non può prescindere dall'esame: 1) del perché si siano moltiplicati i partiti politici; 2) del perché sia diventato difficile formare una maggioranza permanente tra tali partiti parlamentari; 3) quindi del perché i grandi partiti tradizionali abbiano perduto il potere di guidare, il prestigio ecc. Questo fatto è puramente parlamentare, o è il riflesso parlamentare di radicali mutazioni avvenute nella società stessa, nella funzione che i gruppi sociali hanno nella vita produttiva ecc.? Pare che la sola via di ricercare l'origine del decadimento dei regimi parlamentari sia questa, cioè sia da ricercare nella società civile e certo in questa via non si può fare a meno di studiare il fenomeno sindacale; ma ancora, non il fenomeno sindacale inteso nel suo senso elementare di associazionismo di tutti i gruppi sociali e per qualsiasi fine, ma quello tipico per eccellenza, cioè degli elementi sociali di nuova formazione, che precedentemente non avevano «voce in capitolo» e che per il solo fatto di unirsi modificano la struttura politica della società.

Sarebbe da ricercare come sia avvenuto che i vecchi sindacalisti sorelliani (o quasi) a un certo punto siano divenuti semplicemente degli associazionisti o unionisti in generale. Forse il germe di questo decadimento era nello stesso Sorel, cioè in un certo feticismo sindacale o economistico.

 

La quistione posta dal Panunzio sull'esistenza di un «quarto» potere statale, quello di «determinazione dell'indirizzo politico» pare che debba essere posta in connessione coi problemi suscitati dalla scomparsa dei partiti politici e quindi dallo svuotamento del Parlamento. È un modo «burocratico» di porre un problema che prima era risolto dal normale funzionamento della vita politica nazionale, ma non appare come possa essere la soluzione «burocratica» di esso. I partiti erano appunto gli organismi che nella società civile elaboravano gli indirizzi politici non solo, ma educavano e presentavano gli uomini supposti in grado di applicarli. Nel terreno parlamentare gli «indirizzi» elaborati, totali o parziali, di lunga portata o di carattere immediato, venivano confrontati, sfrondati dai caratteri particolaristici ecc. e uno di essi diventava «statale» in quanto il gruppo parlamentare del partito piú forte diventava il «governo» o guidava il governo. Che, per la disgregazione parlamentare, i partiti siano divenuti incapaci di svolgere questo compito non ha annullato il compito stesso né ha mostrato una via nuova di soluzione: cosí anche per l'educazione e la messa in valore delle personalità. La soluzione «burocratica» di fatto maschera un regime di partiti della peggiore specie in quanto operano nascostamente, senza controllo; i partiti sono sostituiti da camarille e influssi personali non confessabili: senza contare che restringe le possibilità di scelta e ottunde la sensibilità politica e l'elasticità tattica. È opinione di Max Weber, per esempio, che una gran parte delle difficoltà attraversate dallo Stato tedesco nel dopoguerra sono dovute all'assenza di una tradizione politico-parlamentare e di vita di partito prima del 1914.

 

 

[La classe politica.] La quistione della classe politica, come è presentata nelle opere di Gaetano Mosca, è diventata un puzzle. Non si capisce esattamente cosa il Mosca intenda precisamente per classe politica, tanto la nozione è elastica ed ondeggiante. Talvolta pare che per classe politica si intenda la classe media, altre volte l'insieme delle classi possidenti, altre volte ciò che si chiama la «parte colta» della società, o il «personale politico» (ceto parlamentare) dello Stato: talvolta pare che la burocrazia, anche nel suo strato superiore, sia esclusa dalla classe politica in quanto deve appunto essere controllata e guidata dalla classe politica. La deficienza della trattazione del Mosca appare nel fatto che egli non affronta nel suo complesso il problema del «partito politico» e ciò si capisce, dato il carattere dei libri del Mosca e specialmente degli Elementi di scienza politica: l'interesse del Mosca infatti ondeggia tra una posizione «obbiettiva» e disinteressata di scienziato e una posizione appassionata di immediato uomo di parte che vede svolgersi avvenimenti che lo angustiano e ai quali vorrebbe reagire. D'altronde il Mosca inconsapevolmente riflette le discussioni suscitate dal materialismo storico, ma le riflette come il provinciale che «sente nell'aria» le discussioni che avvengono nella capitale e non ha il mezzo di procurarsene i documenti e i testi fondamentali: nel caso del Mosca «non avere i mezzi» di procurarsi i testi e i documenti del problema che tuttavia tratta significa che il Mosca appartiene a quella parte di universitari che mentre ritengono loro dovere fare sfoggio di tutte le cautele del metodo storico quando studiano le ideuzze di un pubblicista medioevale di terzo ordine, non ritengono o non ritenevano degne «del metodo» le dottrine del materialismo storico, non ritenevano necessario risalire alle fonti e si accontentavano di orecchiare articolucci di giornale e opuscoletti popolari.

 

 

[Grande politica e piccola politica.] Grande politica (alta politica) – piccola politica (politica del giorno per giorno, politica parlamentare, di corridoio, d'intrigo). La grande politica comprende le quistioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economico-sociali. La piccola politica le quistioni parziali e quotidiane che si pongono nell'interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica. È pertanto grande politica il tentare di escludere la grande politica dall'ambito interno della vita statale e di ridurre tutto a piccola politica (Giolitti, abbassando il livello delle lotte interne faceva della grande politica; ma i suoi succubi, erano oggetto di grande politica, ma facevano essi della piccola politica). È invece da dilettanti porre le quistioni in modo tale che ogni elemento di piccola politica debba necessariamente diventare quistione di grande politica, di radicale riorganizzazione dello Stato. Gli stessi termini si ripresentano nella politica internazionale: 1) la grande politica nelle quistioni che riguardano la statura relativa dei singoli Stati nei confronti reciproci; 2) la piccola politica nelle quistioni diplomatiche che nascono nell'interno di un equilibrio già costituito e che non tentano di superare l'equilibrio stesso per creare nuovi rapporti.

Il Machiavelli esamina specialmente le quistioni di grande politica: creazione di nuovi Stati, conservazione e difesa di strutture organiche nel complesso; quistioni di dittatura e di egemonia su vasta scala, cioè su tutta l'area statale. Il Russo nei Prolegomeni fa del Principe il trattato della dittatura (momento dell'autorità e dell'individuo) e dei Discorsi quello dell'egemonia (momento dell'universale e della libertà). L'osservazione del Russo è esatta, sebbene anche nel Principe non manchino gli accenni al momento dell'egemonia o del consenso accanto a quelli dell'autorità o della forza. Cosí è giusta l'osservazione che non c'è opposizione di principio tra principato e repubblica, ma si tratti piuttosto della ipostasi dei due momenti di autorità e universalità.

 

(Nuovo Machiavelli, cfr. quaderno speciale ecc). A proposito del Rinascimento, di Lorenzo dei Medici ecc., quistione di «grande politica e di piccola politica», politica creativa, e politica di equilibrio, di conservazione, anche se si tratta di conservare una situazione miserabile. Accusa ai francesi (e ai Galli fin da Giulio Cesare) di essere volubili ecc. E in questo senso gli italiani del Rinascimento non sono mai stati «volubili», anzi forse occorre distinguere tra la grande politica che gli italiani facevano all'«estero», come forza cosmopolita (finché la funzione cosmopolita durò) e la piccola politica all'interno, la piccola diplomazia, l'angustia dei programmi ecc., quindi la debolezza di coscienza nazionale che avrebbe domandato una attività audace e di fiducia nelle forze popolari-nazionali. Finito il periodo della funzione cosmopolita, rimase quello della «piccola politica» all'interno, lo sforzo immane per impedire ogni mutamento radicale. In realtà il «piede di casa», le mani nette ecc. che tanto sono rimproverati alle generazioni dell'Ottocento non sono che la coscienza della fine di una funzione cosmopolita nel modo tradizionale e l'incapacità di crearsene una nuova facendo leva sul popolo-nazione.

 

 

Morale e politica. Si verifica una lotta. Si giudica della «equità» e della «giustizia» delle pretese delle parti in conflitto. Si giunge alla conclusione che una delle parti non ha ragione, che le sue pretese non sono eque, o addirittura che esse mancano di senso comune. Queste conclusioni sono il risultato di modi di pensare diffusi, popolari, condivisi dalla stessa parte che in tal modo viene colpita da biasimo. Eppure questa parte continua a sostenere di «aver ragione», di essere nell'«equo» e ciò che piú conta, continua a lottare, facendo dei sacrifici, ciò che significa che le sue convinzioni non sono superficiali e a fior di labbra, non sono ragioni polemiche, per salvar la faccia, ma realmente profonde e operose nelle coscienze. Significherà che la quistione è mal posta e mal risolta. Che i concetti di equità e di giustizia sono puramente formali. Infatti può avvenire che di due parti in conflitto, ambedue abbiano ragione, «cosí stando le cose», e una appaia aver piú ragione dell'altra «cosí stando le cose», ma non abbia ragione «se le cose dovessero mutare». Ora appunto in un conflitto ciò che occorre valutare non sono le cose cosí come stanno, ma il fine che le parti in conflitto si propongono col conflitto stesso; e come questo fine, che non esiste ancora come realtà effettuale e giudicabile, potrà essere giudicato? E da chi potrà essere giudicato? Il giudizio stesso non diventerà un elemento del conflitto, cioè non sarà niente altro che una forza del giuoco a favore o a danno di una o dell'altra parte? In ogni caso si può dire: 1) che in un conflitto ogni giudizio di moralità è assurdo perché esso può essere fatto sui dati di fatto esistenti che appunto il conflitto tende a modificare; 2) che l'unico giudizio possibile è quello «politico» cioè di conformità del mezzo al fine (quindi implica una identificazione del fine o dei fini graduati in una scala successiva di approssimazione). Un conflitto è «immorale» in quanto allontana dal fine o non crea condizioni che approssimano al fine (cioè non crea mezzi piú conformi al raggiungimento del fine) ma non è «immorale» da altri punti di vista «moralistici». Cosí non si può giudicare l'uomo politico dal fatto che esso è o meno onesto, ma dal fatto che mantiene o no i suoi impegni (e in questo mantenimento può essere compreso l'«essere onesto», cioè l'essere onesto può essere un fattore politico necessario, e in generale lo è, ma il giudizio è politico e non morale), viene giudicato non dal fatto che opera equamente, ma dal fatto che ottiene o no dei risultati positivi o evita un male e in questo può essere necessario l'«operare equamente», ma come mezzo politico e non come giudizio morale.

 

 

Distacco tra dirigenti e diretti. Assume aspetti diversi a seconda delle circostanze e delle condizioni generali. Diffidenza reciproca: il dirigente dubita che il «diretto» lo inganni, esagerando i dati positivi e favorevoli all'azione e perciò nei suoi calcoli deve tener conto di questa incognita che complica l'equazione. Il «diretto» dubita dell'energia e dello spirito di risolutezza del dirigente e perciò è tratto anche inconsciamente a esagerare i dati positivi e a nascondere o sminuire i dati negativi. C'è un inganno reciproco, origine di nuove esitazioni, di diffidenze, di quistioni personali ecc. Quando ciò avviene, significa che: 1) c'è crisi di comando; 2) l'organizzazione, il blocco sociale del gruppo in parola, non ha ancora avuto il tempo di saldarsi, creando l'affiatamento reciproco, la reciproca lealtà; 3) ma c'è un terzo elemento: l'incapacità del «diretto» a svolgere il suo compito che significa poi incapacità del «dirigente» a scegliere, a controllare, a dirigere il suo personale.

Esempi pratici: un ambasciatore può ingannare il suo governo: 1) perché vuole ingannarlo per interesse personale; caso di slealtà per tradimento di carattere nazionale o statale: l'ambasciatore è o diventa l'agente di un governo diverso da quello che rappresenta; 2) perché vuole ingannarlo, essendo avversario della politica del governo e favorevole alla politica di altro partito governativo del suo stesso paese, quindi perché vuole che nel suo paese al governo vada un partito piuttosto che un altro: caso di slealtà che in ultima analisi può diventare altrettanto grave che il precedente, sebbene possa essere accompagnato da circostanze attenuanti, come sarebbe il caso che il governo non faccia una politica nazionale e l'ambasciatore ne abbia le prove perentorie: sarebbe allora slealtà verso uomini transitori per poter essere leali verso lo Stato immanente: quistione terribile perché questa giustificazione ha servito a uomini indegni moralmente (Fouché, Talleyrand e, meno, i marescialli di Napoleone); 3) perché non sa d'ingannarlo, per incapacità o incompetenza o per scorrettezza (trascura il servizio) ecc. In questo caso la responsabilità del governo deve essere graduata: 1) se avendo possibilità di scelta adeguate ha scelto male per ragioni estrinseche al servizio (nepotismo, corruzione, limitazioni di spese per servizio importante per cui invece di capaci si scelgono i «ricchi» per la diplomazia o i «nobili» ecc.); 2) se non ha possibilità di scelta (Stato nuovo, come l'Italia nel 1861-70) e non crea le condizioni generali per sanare la deficienza e procurarsi la possibilità di scelta.

 

 

Città e campagna. Giuseppe De Michelis, Premesse e contributo allo studio dell'esodo rurale, «Nuova Antologia», 16 gennaio 1930. Articolo interessante da molti punti di vista. Il De Michelis pone il problema abbastanza realisticamente. Intanto cos'è l'esodo rurale? Se ne parla da 200 anni e la quistione non è mai stata posta nei termini economici precisi.

(Anche il De Michelis dimentica due elementi fondamentali della quistione: 1) i lamenti per l'esodo rurale hanno una delle loro ragioni negli interessi dei proprietari che vedono elevarsi i salari per la concorrenza delle industrie urbane e per la vita piú «legale», meno esposta agli arbitrii ed abusi che sono la trama quotidiana della vita rurale; 2) per l'Italia non accenna all'emigrazione dei contadini che è la forma internazionale dell'esodo rurale verso paesi industriali ed è una critica reale del regime agrario italiano, in quanto il contadino si reca a fare il contadino altrove, migliorando il proprio tenor di vita).

È giusta l'osservazione del De Michelis che l'agricoltura non ha sofferto per l'esodo: 1) perché la popolazione agraria su scala internazionale non è diminuita; 2) perché la produzione non è diminuita, anzi c'è sopraproduzione, come dimostra la crisi dei prezzi di prodotti agricoli. (Nella passata crisi, quando cioè esse corrispondevano a fasi di prosperità industriale, ciò era vero; oggi, però, che la crisi agraria accompagna la crisi industriale, non si può parlare di sopraproduzione, ma di sottoconsumo). Nell'articolo sono citate statistiche che dimostrano la progressiva estensione della superficie coltivata a cereali e piú ancora di quella coltivata per prodotti per le industrie (canapa, cotone, ecc.) e dell'aumento della produzione. Il problema è osservato da un punto di vista internazionale (per un gruppo di 21 paesi) cioè di divisione internazionale del lavoro. (Dal punto di vista delle singole nazioni il problema può cambiare e in ciò consiste la crisi odierna: essa è una resistenza reazionaria ai nuovi rapporti mondiali, all'intensificarsi dell'importanza del mercato mondiale).

L'articolo cita qualche fonte bibliografica: occorrerà rivederlo. Finisce con un colossale errore: secondo il De Michelis: «La formazione delle città nei tempi remoti non fu che il lento e progressivo distacco del mestiere dall'attività agricola, con cui era prima confuso, per assurgere ad attività distinta. Il progresso dei venturi decenni consisterà, grazie soprattutto all'incremento della forza elettrica, nel riportare il mestiere alla campagna per ricongiungerlo, con forme mutate e con procedimenti perfezionati, al lavoro propriamente agricolo. In questa opera redentrice dell'artigianato rurale l'Italia si appresta ad essere anche una volta antesignana e maestra». Il De Michelis fa molte confusioni: 1) il ricongiungimento della città alla campagna non può avvenire sulla base dell'artigianato, ma solo sulla base della grande industria razionalizzata e standardizzata. L'utopia «artigianesca» si è basata sull'industria tessile: si pensava che con la verificatasi possibilità di distribuire l'energia elettrica a distanza, sarebbe diventato possibile ridare alla famiglia contadina il telaio meccanico moderno mosso dall'elettricità; ma già oggi un solo operaio fa azionare (pare) fino a 24 telai, ciò che pone nuovi problemi di concorrenza e di capitale ingenti, oltre che di organizzazione generale irrisolvibili dalla famiglia contadina; 2) l'utilizzazione industriale del tempo che il contadino deve rimanere disoccupato (questo è il problema fondamentale dell'agricoltura moderna, che pone il contadino in condizione di inferiorità economica di fronte alla città che «può» lavorare tutto l'anno) può avvenire solo in un'economia secondo un piano, molto sviluppata, che sia in grado di essere indipendente dalle fluttuazioni temporali di vendita che già si verificano e portano alle morte stagioni anche nell'industria; 3) La grande concentrazione dell'industria e la produzione a serie di pezzi intercambiabili permette di trasportare reparti di fabbrica in campagna, decongestionando la grande città e rendendo piú igienica la vita industriale. Non l'artigiano tornerà in campagna, ma viceversa l'operaio piú moderno e standardizzato.

 

 

[Miti storici.] Studio delle parole d'ordine come quella del «terzo Reich» delle correnti di destra germaniche, di questi miti storici, che non sono altro che una forma concreta ed efficace di presentare il mito della «missione storica» di un popolo. Il punto da studiare è appunto questo: perché una tale forma sia «concreta ed efficace» o piú efficace di un'altra. In Germania la continuità ininterrotta (non interrotta da invasioni straniere permanenti) tra il periodo medioevale del Sacro Romano Impero (primo Reich) e quello moderno (da Federico il Grande al 1914) rende immediatamente comprensibile il concetto di terzo Reich. In Italia, il concetto di «terza Italia» del Risorgimento non poteva essere facilmente compreso dal popolo per la non continuità storica e la non omogeneità tra la Roma antica e quella papale (in vero anche tra la Roma repubblicana e quella imperiale non c'era omogeneità perfetta). Quindi la relativa fortuna della parola mazziniana di «Italia del popolo» che tendeva a indicare un rinnovamento completo, in senso democratico, di iniziativa popolare, della nuova storia italiana in contrapposto al «primato» giobertiano che tendeva a presentare il passato come continuità ideale possibile col futuro, cioè con un determinato programma politico presente presentato come di larga portata. Ma il Mazzini non riuscí a radicare la sua formula mitica e i suoi successori la diluirono e la immeschinirono nella retorica libresca. Un precedente per il Mazzini sarebbero potuti essere i Comuni medioevali che furono un rinnovamento storico effettivo e radicale, ma essi furono sfruttati piuttosto dai federalisti come Cattaneo. (L'argomento è da porre in rapporto con le prime note scritte nel quaderno speciale su Machiavelli).

 

 

Centro. Uno studio accurato dei partiti di centro in senso largo sarebbe oltremodo educativo. Termine esatto, estensione del termine, cambiamento storico del termine e dell'accezione. Per esempio, i giacobini furono un partito estremo: oggi sono tipicamente di centro; cosí i cattolici (nella loro massa); cosí anche i socialisti, ecc. Credo che un'analisi dei partiti di centro e della loro funzione sia parte importante della storia contemporanea.

E non lasciarsi illudere dalle parole o dal passato: è certo per esempio che i «nichilisti» russi sono da considerarsi partito di centro, e cosí perfino gli «anarchici» moderni. La quistione è se per simbiosi un partito di centro non serva a un partito «storico», esempio il partito hitleriano (di centro) a Hugenberg e Papen (estremisti: estremisti in un certo senso, agrari e in parte industriali, data la storia tedesca particolare). Partiti di centro e partiti «demagogici» o borghesi-demagogici.

Lo studio della politica tedesca e francese nell'inverno 1932-33 una massa di materiale per questa ricerca, cosí la contrapposizione della politica estera a quella interna (mentre è sempre la politica interna che detta le decisioni, s'intende di un paese determinato: infatti è chiaro che l'iniziativa, dovuta a ragioni interne, di un paese, diventerà «estera» per il paese che subisce l'iniziativa).

 

 

La forza dei partiti agrari. Uno dei fenomeni caratteristici dell'epoca moderna è questo: che nei parlamenti, o almeno in una serie di essi, i partiti agrari hanno una forza relativa che non corrisponde alla loro funzione storica, sociale, economica. Ciò è dovuto al fatto che nelle campagne si è mantenuto un blocco di tutti gli elementi della produzione agraria, blocco che spesso è guidato dalla parte piú retriva di questi elementi, mentre nelle città e nelle popolazioni di tipo urbano, già da alcune generazioni, un blocco simile si è disciolto, se pure è mai esistito (poiché non poteva esistere, non si allargava il suffragio elettorale). Cosí avviene che in paesi eminentemente industriali, dato il disgregarsi dei partiti medi, gli agrari abbiano il sopravvento «parlamentare» e impongano indirizzi politici «antistorici». È da fissare perché questo avvenga e se non ne siano responsabili i partiti urbani e il loro corporativismo o gretto economismo.

 

 

[Religione, Stato, partito.] Nel Mein Kampf, Hitler scrive: «La fondazione o la distruzione di una religione è gesto incalcolabilmente piú rilevante che la fondazione o la distruzione di uno Stato: non dico di un partito...». Superficiale e acritico: i tre elementi: religione (o concezione del mondo «attiva»), Stato, partito, sono indissolubili e nel processo reale dello sviluppo storico-politico si passa dall'uno all'altro necessariamente. Nel Machiavelli, nei modi e nel linguaggio del tempo, si osserva la comprensione di questa necessaria omogeneità e interferenza dei tre elementi. Perdere l'anima per salvare la patria o lo Stato, è un elemento di laicismo assoluto, di concezione del mondo positiva e negativa (contro la religione o concezione dominante). Nel mondo moderno, un partito è tale, integralmente e non, come avviene, frazione di un partito piú grande, quando esso è concepito, organizzato e diretto in modi e forme tali da svilupparsi integralmente in uno Stato (integrale, e non in un governo tecnicamente inteso) e in una concezione del mondo. Lo sviluppo del partito in Stato reagisce sul partito e ne domanda una continua riorganizzazione e sviluppo, cosí come lo sviluppo del partito e dello Stato in concezione del mondo, cioè in trasformazione totale e molecolare (individuale) dei modi di pensare e operare, reagisce sullo Stato e sul partito, costringendoli a riorganizzarsi continuamente e ponendo loro dei problemi nuovi e originali da risolvere. È evidente che tale concezione è intralciata nello sviluppo pratico dal fanatismo cieco e unilaterale di «partito» (in questo caso di setta, di frazione di un piú ampio partito, nel cui seno si lotta), cioè dall'assenza sia di una concezione statale sia di una concezione del mondo che siano capaci di sviluppo in quanto storicamente necessarie. La vita politica attuale una larga testimonianza di queste angustie e ristrettezze mentali, che d'altronde provocano lotte drammatiche, perché esse stesse sono il modo con cui lo sviluppo storico si verifica praticamente. Ma il passato, e il passato italiano che piú interessa, da Machiavelli in poi, non è meno ricco di esperienze; perché tutta la storia è testimone del presente.

 

 

Classe media. Il significato dell'espressione «classe media» muta da un paese all'altro (come muta quello di «popolo» o di «volgo» in rapporto alla boria di certi strati sociali) e perciò luogo spesso a equivoci molto curiosi (ricordare come il sindaco Frola di Torino firmasse un manifesto in inglese col titolo «Lord Mayor»). Il termine è venuto dalla letteratura politica inglese ed esprime la particolare forma dello sviluppo sociale inglese. Pare che in Inghilterra la borghesia non sia mai stata concepita come una parte integrante del popolo, ma sempre come una entità staccata da questo: è avvenuto anzi, nella storia inglese, che non la borghesia abbia guidato il popolo e si sia fatta aiutare da esso per abbattere i privilegi feudali, ma la nobiltà (o una frazione di essa) abbia formato il blocco nazionale-popolare contro la Corona prima e poi contro la borghesia industriale. Tradizione inglese di un torismo popolare (Disraeli, ecc.). Dopo le grandi riforme liberali che conformarono lo Stato agli interessi e ai bisogni della classe media, i due partiti fondamentali della vita politica inglese si distinsero su quistioni interne riguardanti la stessa classe, la nobiltà acquistò sempre piú un carattere particolare di «aristocrazia borghese» legata a certe funzioni della società civile e di quella politica (Stato) riguardanti la tradizione, l'educazione del ceto dirigente, la conservazione di una data mentalità che garantisce da bruschi rivolgimenti, ecc., la consolidazione della struttura imperiale, ecc.

In Francia il termine «classe media» luogo ad equivoci, nonostante che l'aristocrazia, di fatto, abbia conservato molta importanza come casta chiusa: il termine viene adoperato sia nel senso inglese, sia nel senso italiano di piccola e media borghesia. In Italia dove l'aristocrazia feudale è stata distrutta dai Comuni (fisicamente distrutta nelle guerre civili, eccetto che nell'Italia meridionale e in Sicilia), poiché manca la classe «alta» tradizionale, il termine di «media» si è abbassato di un gradino. Classe media significa «negativamente» non-popolo, cioè «non operai e contadini»; significa positivamente i ceti intellettuali, i professionisti, gli impiegati.

È da notare come il termine «signore» sia diffuso in Italia da molto tempo per indicare anche i non-nobili; il «don» meridionale, «galantuomini», «civili», «borghesi», ecc.; in Sardegna «signore» non è mai il rurale, anche quello ricco ecc.

 

 

L'uomo-individuo e l'uomo-massa. Il proverbio latino: «Senatores boni viri, senatus mala bestia» è diventato un luogo comune. Cosa significa questo proverbio e quale significato ha assunto? Che una folla di persone dominate dagli interessi immediati o in preda alla passione suscitata dalle impressioni del momento trasmesse acriticamente di bocca in bocca, si unifica nella decisione collettiva peggiore, che corrisponde ai piú bassi istinti bestiali. L'osservazione è giusta e realistica in quanto si riferisce alle folle casuali, raccoltesi come «una moltitudine durante un acquazzone sotto una tettoia», composte di uomini che non sono legati da vincoli di responsabilità verso altri uomini o gruppi di uomini o verso una realtà economica concreta, il cui sfacelo si ripercuota nel disastro degli individui. Si può dire perciò che in tali folle l'individualismo non solo non è superato ma è esasperato per la certezza dell'impunità e della irresponsabilità.

È però anche osservazione comune che un'assemblea «bene ordinata» di elementi riottosi e indisciplinati si unifica in decisioni collettive superiori alla media individuale: la quantità diventa qualità. Se cosí non fosse, non sarebbe possibile l'esercito, per esempio non sarebbero possibili i sacrifizi inauditi che gruppi umani ben disciplinati sanno compiere in determinate occasioni, quando il loro senso di responsabilità sociale è svegliato fortemente dal senso immediato del pericolo comune e l'avvenire appare piú importante del presente. Si può far l'esempio di un comizio in piazza che è diverso da un comizio in sala chiusa ed è diverso da un comizio sindacale di categoria professionale e cosí via. Una seduta di ufficiali di Stato Maggiore sarà ben diversa da un'assemblea di soldati di un plotone ecc.

Tendenza al conformismo nel mondo contemporaneo piú estesa e piú profonda che nel passato: [la] standardizzazione del modo di pensare e di operare assume estensioni nazionali o addirittura continentali. La base economica dell'uomo-collettivo: grandi fabbriche, taylorizzazione, razionalizzazione ecc. Ma nel passato esisteva o no l'uomo-collettivo? Esisteva sotto forma della direzione carismatica, per dirla con Michels: cioè si otteneva una volontà collettiva sotto l'impulso e la suggestione immediata di un «eroe», di un uomo rappresentativo; ma questa volontà collettiva era dovuta a fattori estrinseci e si componeva e scomponeva continuamente. L'uomo-collettivo odierno si forma invece essenzialmente dal basso in alto, sulla base della posizione occupata dalla collettività nel mondo della produzione: l'uomo rappresentativo ha anche oggi una funzione nella formazione dell'uomo-collettivo, ma inferiore di molto a quella del passato, tanto che esso può sparire senza che il cemento collettivo si disfaccia e la costruzione crolli.

Si dice che «gli scienziati occidentali ritengono che la psiche delle masse non sia altro che il risorgere degli antichi istinti dell'orda primordiale e pertanto un regresso a stadi culturali da tempo superati»; ciò è da riferirsi alla cosí detta «psicologia delle folle» cioè delle moltitudini casuali e l'affermazione è pseudo-scientifica, è legata alla sociologia positivistica.

Sul «conformismo» sociale occorre notare che la quistione non è nuova e che l'allarme lanciato da certi intellettuali è solamente comico. Il conformismo è sempre esistito: si tratta oggi di lotta tra «due conformismi» cioè di una lotta di egemonia, di una crisi della società civile. I vecchi dirigenti intellettuali e morali della società sentono mancarsi il terreno sotto i piedi, si accorgono che le loro «prediche» sono diventate appunto «prediche», cioè cose estranee alla realtà, pura forma senza contenuto, larva senza spirito; quindi la loro disperazione e le loro tendenze reazionarie e conservative: poiché la particolare forma di civiltà, di cultura, di moralità che essi hanno rappresentato si decompone, essi gridano alla morte di ogni civiltà, di ogni cultura, di ogni moralità e domandano misure repressive allo Stato o si costituiscono in gruppo di resistenza appartato dal processo storico reale, aumentando in tal modo la durata della crisi, poiché il tramonto di un modo di vivere e di pensare non può verificarsi senza crisi. I rappresentanti del nuovo ordine in gestazione, d'altronde, per odio «razionalistico» al vecchio, diffondono utopie e piani cervellotici. Quale il punto di riferimento per il nuovo mondo in gestazione? Il mondo della produzione, il lavoro. Il massimo utilitarismo deve essere alla base di ogni analisi degli istituti morali e intellettuali da creare e dei principii da diffondere: la vita collettiva e individuale deve essere organizzata per il massimo rendimento dell'apparato produttivo. Lo sviluppo delle forze economiche sulle nuove basi e l'instaurazione progressiva della nuova struttura saneranno le contraddizioni che non possono mancare e avendo creato un nuovo «conformismo» dal basso, permetteranno nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale.

 

 

Psicologia e politica. Specialmente nei periodi di crisi finanziaria si sente molto parlare di «psicologia» come di causa efficiente di determinati fenomeni marginali. Psicologia (sfiducia), panico, ecc. Ma cosa significa in questo caso «psicologia»? È una pudica foglia di fico per indicare la «politica», cioè una determinata situazione politica. Poiché di solito per «politica» s'intende l'azione delle frazioni parlamentari, dei partiti, dei giornali e in generale ogni azione che si esplica secondo una direttiva palese e predeterminata, si il nome di «psicologia» ai fenomeni elementari di massa, non predeterminati, non organizzati, non diretti palesemente, i quali manifestano una frattura nell'unità sociale tra governati e governanti. Attraverso queste «pressioni psicologiche» i governati esprimono la loro sfiducia nei dirigenti e domandano che siano mutate le persone e gli indirizzi dell'attività finanziaria e quindi economica. I risparmiatori non investono risparmi e disinvestono da determinate attività che appaiono particolarmente rischiose, ecc.: si accontentano di interessi minimi e anche di interessi zero; qualche volta preferiscono perdere addirittura una parte del capitale per mettere al sicuro il resto.

Può bastare l'«educazione» per evitare queste crisi di sfiducia generica? Esse sono sintomatiche appunto perché «generiche» e contro la «genericità» è difficile educare una nuova fiducia. Il succedersi frequente di tali crisi psicologiche indica che un organismo è malato, cioè che l'insieme sociale non è piú in grado di esprimere dirigenti capaci. Si tratta dunque di crisi politiche e anzi politico-sociali del raggruppamento dirigente.

 

 

Storia politica e storia militare. Nel «Marzocco» del 10 marzo 1929 è riassunto un articolo di Ezio Levi nella «Glossa perenne» sugli Almògavari, interessante per due rispetti. Da un lato gli Almògavari (truppe leggere catalane, addestrate nelle aspre lotte della «reconquista» a combattere contro gli arabi col modo stesso degli arabi, cioè in ordine sparso, senza una disciplina di guerra, ma con impeti, agguati, avventure individuali) segnano l'introduzione in Europa di una nuova tattica, che può essere paragonata a quella degli arditi, sebbene in condizioni diverse. Dall'altro lato essi, secondo alcuni eruditi, segnano l'inizio delle compagnie di ventura. Un corpo di Almògavari fu mandato in Sicilia dagli Aragonesi per le guerre del Vespro: finisce la guerra, ma parte degli Almògavari si reca in Oriente al servizio del basileus dell'Impero bizantino Andronico. L'altra parte fu arruolata da Roberto d'Angiò per la guerra contro i ghibellini toscani. Poiché gli Almògavari avevano mantelli neri, mentre i fiorentini, in processione o in «cavallata» vestivano il camice bianco crociato e gigliato, da ciò sarebbe nata, secondo Gino Masi, la denominazione di Bianchi e Neri. Certo è che, quando gli Angioini lasciarono Firenze, molti Almògavari rimasero al soldo del Comune, rinnovando d'anno in anno la loro «condotta».

La «compagnia di ventura» nacque cosí come un mezzo per determinare uno squilibrio del rapporto delle forze politiche a favore della parte piú ricca della borghesia, a danno dei ghibellini e del popolo minuto.

 

 

Sullo sviluppo della tecnica militare. Il tratto piú caratteristico e significativo dello stadio attuale della tecnica militare e quindi anche dell'indirizzo delle ricerche scientifiche in quanto sono connesse con lo sviluppo della tecnica militare (o tendono a questo fine) pare sia da ricercare in ciò, che la tecnica militare in alcuni suoi aspetti tende a rendersi indipendente dal complesso della tecnica generale e a diventare un'attività a parte, autonoma. Fino alla guerra mondiale la tecnica militare era una semplice applicazione specializzata della tecnica generale e pertanto la potenza militare di uno Stato o di un gruppo di Stati (alleati per integrarsi a vicenda) poteva essere calcolata con esattezza quasi matematica sulla base della potenza economica (industriale, agricola, finanziaria, tecnico-culturale). Dalla guerra mondiale in poi questo calcolo non è piú possibile, almeno con pari esattezza, e ciò costituisce la piú formidabile incognita dell'attuale situazione politico-militare. Come punto di riferimento basta accennare ad alcuni elementi: il sottomarino, l'aeroplano da bombardamento, il gas e i mezzi chimici e batteriologici applicati alla guerra. Ponendo la questione nei suoi termini limite, per assurdo, si può dire che Andorra può produrre mezzi bellici in gas e bacteri da sterminare l'intera Francia.

Questa situazione della tecnica militare è uno degli elementi piú «silenziosamente» operanti di quella trasformazione dell’arte politica che ha portato al passaggio, anche in politica, dalla guerra di movimento alla guerra di posizione o di assedio.

 

Una massima del maresciallo Caviglia: «L'esperienza della meccanica applicata che la forza si esaurisce allontanandosi dal centro di produzione si ritrova dominante nell'arte della guerra. L'attacco si esaurisce avanzando; perciò la vittoria deve essere cercata quanto piú è possibile nelle vicinanze del punto di partenza» (Le tre battaglie del Piave, p. 244).

Massima simile in Clausewitz. Ma lo stesso Caviglia osserva che le truppe di rottura devono essere aiutate da truppe di manovra: le truppe di rottura tendono a fermarsi dopo ottenuta la «vittoria» immediata nel loro obbiettivo di rompere il fronte avversario. Un'azione strategica ai fini non territoriali ma decisivi ed organici può essere svolta in due momenti: con la rottura del fronte avversario e con una successiva manovra, operazioni assegnate a truppe distinte.

La massima, applicata all'arte politica, deve essere adattata alle diverse condizioni; ma rimane il punto che tra il punto di partenza e l'obbiettivo occorre una gradazione organica, cioè una serie di obbiettivi parziali. Si può avvicinare alla parola d'ordine quarantottesca.

 

 

Arte militare e politica. Sentenze tradizionali rispondenti al senso comune delle masse di uomini: «I generali, dice Senofonte, devono avanzar gli altri non nella sontuosità della tavola e nei piaceri, ma nella capacità e nelle fatiche». «Difficilmente si possono indurre i soldati a soffrire la penuria e i disagi che derivano da ignoranza o da colpa nel loro comandante; ma quando sono prodotti dalla necessità, ognuno è pronto a soffrirli». «L'ardire col proprio pericolo è valore, con l'altrui è arroganza (Pietro Colletta)».

Differenza tra ardimento-intrepidità e coraggio: il primo è istintivo e impulsivo; il coraggio invece è acquisito con l'educazione e attraverso i costumi. A stare a lungo in trincea ci vuole «coraggio», cioè perseveranza nell'intrepidità, che può esser data o dal terrore (certezza di morire se non si rimane) o dalla convinzione di fare cosa necessaria (coraggio).

 

 

«Contraddizioni» dello storicismo ed espressioni letterarie di esse (ironia, sarcasmo). Vedere le pubblicazioni di Adriano Tilgher contro lo storicismo. Da un articolo di Bonaventura Tecchi (Il Demiurgo di Burzio, «Italia Letteraria», 20 ottobre 1929) sono estratti alcuni spunti di F. Burzio che sembrano mostrare nel Burzio una certa profondità (se si astrae dal linguaggio sforzato e dalle costruzioni a tendenza paradossale-letteraria) nello studio delle contraddizioni «psicologiche» che nascono sul terreno dello storicismo idealistico, ma anche in quello dello storicismo integrale.

È da meditare l'affermazione: «essere sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli», che potrebbe essere ricca di conseguenze. Infatti il nodo delle quistioni che sorgono a proposito dello storicismo, e che il Tilgher non riesce di districare, è proprio nella constatazione che «si può essere critici e uomini d'azione nello stesso tempo, in modo non solo che l'uno aspetto non indebolisca l'altro, ma anzi lo convalidi». Il Tilgher molto superficialmente e meccanicamente scinde i due termini della personalità umana (dato che non esiste e non è mai esistito [un] uomo tutto critico e uno tutto passionale), mentre invece si deve cercare di determinare come in diversi periodi storici i due termini si combinano sia nei singoli, sia per strati sociali (aspetto della quistione della funzione sociale degli intellettuali) facendo prevalere (apparentemente) un aspetto o l'altro (si parla di epoche di critica, di epoche di azione, ecc.). Ma non pare che neanche il Croce abbia analizzato a fondo il problema negli scritti dove vuol determinare il concetto «politica = passione»: se l'atto concreto politico, come dice il Croce, si attua nella persona del capo politico, è da osservare che la caratteristica del capo come tale non è certo la passionalità, ma il calcolo freddo, preciso, obbiettivamente quasi impersonale, delle forze in lotta e dei loro rapporti (tanto piú ciò vale se si tratta di politica nella sua forma piú decisiva e determinante, la guerra o qualsiasi altra forma di lotta armata). Il capo suscita e dirige le passioni, ma egli stesso ne è «immune» o le domina per meglio scatenarle, raffrenarle al momento dato, disciplinarle, ecc.; deve piú conoscerle, come elemento obbiettivo di fatto, come forza, che «sentirle» immediatamente, deve conoscerle e comprenderle, sia pure con «grande simpatia» (e allora la passione assume una forma superiore, che occorre analizzare, sulla traccia dello spunto del Burzio; tutta la quistione è da vedere sui «testi» autentici).

Dallo scritto del Tecchi pare che il Burzio accenni spesso all'elemento «ironia» come caratteristica (o una delle caratteristiche) della posizione riferita e condensata nella affermazione «essere sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli». Pare evidente che l'atteggiamento «ironico» non possa essere quello del capo politico o militare nei confronti delle passioni e sentimenti dei seguaci e diretti. «Ironia» può essere giusto per l'atteggiamento di intellettuali singoli, individuali, cioè senza responsabilità immediata sia pure nella costruzione di un mondo culturale o per indicare il distacco dell'artista dal contenuto sentimentale della sua creazione (che può «sentire» ma non «condividere», o può condividere ma in forma intellettualmente piú raffinata); ma nel caso dell'azione storica, l'elemento «ironia» sarebbe solo letterario o intellettualistico e indicherebbe una forma di distacco piuttosto connessa allo scetticismo piú o meno dilettantesco dovuto a disillusione, a stanchezza, a «super-ominismo». Invece nel caso dell'azione storico-politica l'elemento stilistico adeguato, l'atteggiamento caratteristico del distacco-comprensione, è il «sarcasmo» e ancora in una forma determinata, il «sarcasmo appassionato». Nei fondatori della filosofia della prassi si trova l'espressione piú alta, eticamente ed esteticamente, del sarcasmo appassionato. Altre forme. Di fronte alle credenze e illusioni popolari (credenza nella giustizia, nell'eguaglianza, nella fraternità, cioè negli elementi ideologici diffusi dalle tendenze democratiche eredi della Rivoluzione francese), c'è un sarcasmo appassionatamente «positivo», creatore, progressivo: si capisce che non si vuol dileggiare il sentimento piú intimo di quelle illusioni e credenze, ma la loro forma immediata, connesso a un determinato mondo «perituro», il puzzo di cadavere che trapela attraverso il belletto umanitario dei professionisti degli «immortali principii». Perché esiste anche un sarcasmo di «destra», che raramente è appassionato, ma è sempre «negativo», scettico e distruttivo non solo della «forma» contingente, ma del contenuto «umano» di quei sentimenti e credenze. (E a proposito dell'attributo «umano» si può vedere in alcuni libri, ma specialmente nella Sacra Famiglia, quale significato occorre dargli). Si cerca di dare al nucleo vivo delle aspirazioni contenute in quelle credenze una nuova forma (quindi di innovare, determinare meglio quelle aspirazioni), non di distruggerle. Il sarcasmo di destra cerca invece di distruggere proprio il contenuto delle aspirazioni (non, beninteso, nelle masse popolari, che allora si distruggerebbe anche il cristianesimo popolare, ma negli intellettuali), e perciò l'attacco alla «forma» non è che un espediente «didattico».

Come sempre avviene, le prime e originali manifestazioni del sarcasmo hanno avuto imitatori e pappagalli; lo stile è diventato una «stilistica», è divenuto una specie di meccanismo, una cifra, un gergo, che potrebbero dar luogo ad osservazioni piccanti (per es., quando la parola «civiltà» è sempre accompagnata dall'aggettivo «sedicente», è lecito pensare che si creda nell'esistenza di una «civiltà» esemplare, astratta, o almeno ci si comporta come se ciò si credesse, cioè dalla mentalità critica e storicistica si passa alla mentalità utopistica). Nella forma originaria il sarcasmo è da considerare come una espressione che mette in rilievo le contraddizioni di un periodo di transizione; si cerca di mantenere il contatto con le espressioni subalterne umane delle vecchie concezioni e nello stesso tempo si accentua il distacco da quelle dominanti e dirigenti, in attesa che le nuove concezioni, con la saldezza acquistata attraverso lo sviluppo storico, dominino fino ad acquistare la forza delle «credenze popolari». Queste nuove concezioni sono già acquisite saldamente in chi adopera il sarcasmo, ma devono essere espresse e divulgate in atteggiamento «polemico», altrimenti sarebbero una «utopia» perché apparirebbero «arbitrio» individuale o di conventicola: d'altronde, per la sua natura stessa, lo «storicismo» non può concepire se stesso come esprimibile in forma apodittica o predicatoria, e deve creare un gusto stilistico nuovo, persino un linguaggio nuovo come mezzi di lotta intellettuale. Il «sarcasmo» (come, nel piano letterario ristretto dell'educazione di piccoli gruppi, l'«ironia») appare pertanto come la componente letteraria di una serie di esigenze teoriche e pratiche che superficialmente, possono apparire come insanabilmente contraddittorie; il suo elemento essenziale è la «passionalità» che diventa criterio della potenza stilistica individuale (della sincerità, della profonda convinzione in opposto al pappagallismo e al meccacinismo).

Da questo punto di vista occorre esaminare le ultime notazioni del Croce nella prefazione del 1917 al volume sul Materialismo storico, dove si parla della «maga Alcina», e alcune osservazioni sullo stile del Loria. Cosí è da vedere il saggio di Mehring sull'«allegoria» nel testo tedesco, ecc.

 

 

Feticismo. Come si può descrivere il feticismo. Un organismo collettivo è costituito di singoli individui, i quali formano l'organismo in quanto si sono dati e accettano attivamente una gerarchia e una direzione determinata. Se ognuno dei singoli componenti pensa l'organismo collettivo come un'entità estranea a se stesso, è evidente che questo organismo non esiste piú di fatto, ma diventa un fantasma dell'intelletto, un feticcio. È da vedere se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della trascendenza cattolica e dei vecchi regimi paternalistici: esso è comune per una serie di organismi, dallo Stato, alla Nazione, ai Partiti politici ecc. È naturale che avvenga per la Chiesa, poiché, almeno in Italia, il lavorio secolare del centro vaticano per annientare ogni traccia di democrazia interna e di intervento dei fedeli nell'attività religiosa è pienamente riuscito ed è divenuto una seconda natura del fedele, sebbene abbia determinato per l'appunto quella speciale forma di cattolicismo che è propria del popolo italiano. Ciò che fa meraviglia, e che è caratteristico, è che il feticismo di questa specie si riproduca per organismi «volontari», di tipo non «pubblico» o statale, come i partiti e i sindacati. Si è portati a pensare i rapporti tra il singolo e l'organismo come un dualismo, e ad un atteggiamento critico esteriore del singolo verso l'organismo (se l'atteggiamento non è di una ammirazione entusiastica acritica). In ogni caso un rapporto feticistico. Il singolo s'aspetta che l'organismo faccia, anche se egli non opera e non riflette che appunto, essendo il suo atteggiamento molto diffuso, l'organismo è necessariamente inoperante.

Inoltre è da riconoscere che essendo molto diffusa una concezione deterministica e meccanica della storia (concezione che è del senso comune ed è legata alla passività delle grandi masse popolari) ogni singolo, vedendo che, nonostante il suo non intervento, qualcosa tuttavia avviene, è portato a pensare che appunto al disopra dei singoli esiste una entità fantasmagorica, l'astrazione dell'organismo collettivo, una specie di divinità autonoma, che non pensa con nessuna testa concreta, ma tuttavia pensa, che non si muove con determinate gambe di uomini, ma tuttavia si muove ecc.

Potrebbe sembrare che alcune ideologie, come quella dell'idealismo attuale (di Ugo Spirito) per cui si identifica l'individuo e lo Stato, dovrebbero rieducare le coscienze individuali, ma non pare ciò avvenga di fatto, perché questa identificazione è meramente verbale e verbalistica. Cosí è da dire di ogni forma del cosí detto «centralismo organico», il quale si fonda sul presupposto, che è vero solo in momenti eccezionali, di arroventatura delle passioni popolari, che il rapporto tra governanti e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati e pertanto «devono» averne il consenso, cioè deve verificarsi l'identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti. È da pensare che, come per la Chiesa cattolica, un tale concetto non solo è utile, ma necessario e indispensabile: ogni forma di intervento dal basso, disgregherebbe infatti la Chiesa (si vede ciò nelle chiese protestantiche); ma per altri organismi è quistione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli, anche se ciò provoca un'apparenza di disgregazione e di tumulto. Una coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità si è unificata attraverso l'attrito dei singoli: né si può dire che il «silenzio» non sia molteplicità. Un'orchestra che fa le prove, ogni strumento per conto suo, l'impressione della piú orribile cacofonia; eppure queste prove sono la condizione perché l'orchestra viva come un solo «strumento».

 

 

[Machiavellismo e antimachiavellismo.] Charles Benoist nella prefazione al Le Machiavélisme, Prima parte: Avant Machiavel (Parigi, Plon, 1907) scrive: «C'è machiavellismo e machiavellismo: c'è un machiavellismo vero e un machiavellismo falso; vi è un machiavellismo che è di Machiavelli e un machiavellismo che è qualche volta dei discepoli, piú spesso dei nemici di Machiavelli; sono già due, anzi tre machiavellismi, quello di Machiavelli, quello dei machiavellisti, e quello degli antimachiavellisti; ma eccone un quarto: quello di coloro che non han mai letto una riga di Machiavelli e che si servono a sproposito dei verbi (!), dei sostantivi e degli aggettivi derivati dal suo nome. Machiavelli perciò non dovrebbe essere tenuto responsabile di quel che dopo di lui il primo o l'ultimo venuto si sono compiaciuti di fargli dire». Un po' allumacato, il signor Carlo Benoist.




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