III.
Note sull'attrezzamento
nazionale
e sulla politica italiana
L'attrezzamento
nazionale. Nella ricerca sulle condizioni economiche e sulla
struttura dell'economia italiana, inquadrare nel concetto di
«attrezzamento nazionale». Fissare questo concetto
esattamente ecc.
Economia nazionale.
Tutta l'attività economica di un paese può essere
giudicata solo in rapporto al mercato internazionale, «esiste»
ed è da valutarsi in quanto è inserita in una unità
internazionale. Da ciò l'importanza del principio dei costi
comparati e la saldezza che mantengono i teoremi fondamentali
dell'economia classica di contro alle critiche verbalistiche dei
teorici di ogni nuova forma di mercantilismo (protezionismo, economia
diretta, corporativismo ecc.). Non esiste un «bilancio»
puramente nazionale dell'economia, né per il suo complesso, e
neppure per una attività particolare. Tutto il complesso
economico nazionale si proietta nell'eccedente che viene esportato in
cambio di una corrispondente importazione, e se nel complesso
economico nazionale una qualsiasi merce o servizio costa troppo, è
prodotta in modo antieconomico, questa perdita si riflette
nell'eccedente esportato, diventa un «regalo» che il
paese fa all'estero, o per lo meno (giacché non sempre può
parlarsi di «regalo») una perdita secca del paese, nei
confronti con l'estero, nella valutazione della sua statura relativa
e assoluta nel mondo economico internazionale.
Se il grano in un paese è
prodotto a caro prezzo, le merci industriali esportate e prodotte da
lavoratori nutriti con quel grano, a prezzo uguale con l'equivalente
merce estera, contengono congelata una maggior quantità di
lavoro nazionale, una maggior quantità di sacrifizi di quanto
contenga la stessa merce estera. Si lavora per l'«estero»
a sacrifizio; i sacrifizi sono fatti per l'estero, non per il proprio
paese. Le classi che all'interno si giovano esse di tali sacrifizi,
non sono la «nazione» ma rappresentano uno sfruttamento
esercitato da «stranieri» sulle forze realmente nazionali
ecc.
Struttura economica
italiana. Giuseppe Paratore in un articolo della «Nuova
Antologia» del 1° marzo 1929 La Economia, la Finanza, il
Denaro d'Italia scrive che l'Italia ha «una doppia
costituzione economica (industriale capitalistica al nord, agraria di
risparmio al sud)» e nota come tale situazione abbia reso
difficile nel '26-27 la stabilizzazione della lira. Il metodo piú
semplice e diretto, di consolidare rapidamente la svalutazione
monetaria, creando subito una nuova parità – secondo le
prescrizioni di Kemmerer, Keynes, Cassel ecc. – non era
consigliabile ecc.
Sarebbe interessante sapere
quale fattore risultò, in ultima analisi, meglio difeso: se
l'economia del Nord o quella del Sud, e ciò perché, in
realtà, la stabilizzazione fu compiuta dopo molte esitazioni e
sotto il panico di un crollo fulmineo (corso del dollaro nel 1928:
gennaio 477,93, febbraio 479,93, marzo 480,03, aprile 479,63, maggio
500,28, giugno 527,72, luglio 575,41); bisogna inoltre tener conto
che il Sud era piú omogeneo rispetto al Nord nelle sue
rivendicazioni e aveva la solidarietà di tutti i risparmiatori
nazionali; nel Nord i capitalisti divisi, esportatori favorevoli
inflazione, per il mercato interno ecc. ecc. Inoltre: la bassa
stabilizzazione avrebbe provocato una crisi sociale-politica e non
solo puramente economica, perché avrebbe mutato la posizione
sociale di milioni di cittadini.
Nella «Riforma
Sociale» del maggio-giugno 1932 è stata pubblicata una
recensione del libro di Rodolfo Morandi (Storia della grande
industria in Italia, ed. Laterza, Bari, 1931) recensione che
contiene alcuni spunti metodici di un certo interesse (la recensione
è anonima, ma l'autore potrebbe essere identificato nel prof.
De Viti De Marco).
Si obbietta prima di tutto
al Morandi di non tener conto di ciò che è costata
l'industria italiana: «All'economista non basta che gli vengano
mostrate fabbriche che danno lavoro a migliaia di operai, bonifiche
che creano terre coltivabili, ed altri simili fatti di cui il
pubblico generalmente si contenta nei suoi giudizi su un paese, su
un'epoca. L'economista sa bene che lo stesso risultato può
rappresentare un miglioramento o un peggioramento di una certa
situazione economica, a seconda che sia ottenuto con un complesso di
sacrifici minori o maggiori».
(È giusto il
criterio generale che occorra esaminare il costo dell'introduzione di
una certa industria in un paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha
ricavato i vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano essere fatti
in altra direzione piú utilmente, ma tutto questo esame deve
essere fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata.
D'altronde il solo criterio dell'utilità economica non è
sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione
economica ad un'altra; occorre tener conto anche del criterio
politico, cioè se il passaggio sia stato obbiettivamente
necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a
scadenza lunga. Che l'unificazione della penisola dovesse costare
sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità
inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però
occorre esaminare se tali sacrifizi sono stati distribuiti equamente
e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati
in una direzione giusta. Che l'introduzione e lo sviluppo del
capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista
nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti
gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti,
determinando un'emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è
cessata la necessità, e rovinando economicamente intere
regioni, è certissimo. L'emigrazione infatti deve essere
considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte,
e dall'altra come una manifestazione del fatto che il regime
economico interno non assicurava uno standard di vita che si
avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i
rischi e i sacrifizi connessi con l'abbandono del proprio paese a
lavoratori già occupati).
Il Morandi non riesce a
valutare il significato del protezionismo nello sviluppo della grande
industria italiana. Cosí il Morandi rimprovera assurdamente
alla borghesia «il proposito deliberato e funestissimo di non
aver tentato l'avventura salutare del sud, dove malamente la
produzione agricola può ripagare i grandi sforzi che all'uomo
richiede». Il Morandi non si domanda se la miseria del Sud non
fosse determinata dalla legislazione protezionistica che ha
consentito lo sviluppo industriale del Nord e come poteva esistere un
mercato interno da sfruttare coi dazi e altri privilegi, se il
sistema protettivo si fosse esteso a tutta la penisola, trasformando
l'economia rurale del Sud in economia industriale (tuttavia si può
pensare a un tale regime protezionistico panitaliano, come un sistema
per assicurare determinati redditi a certi gruppi sociali, cioè
come un «regime salariale»; e si può vedere
qualcosa del genere nella protezione cerealicola, connessa alla
protezione industriale, che funziona solo a favore dei grandi
proprietari e dell'industria molitoria ecc.). Si rimprovera al
Morandi l'eccessiva severità con cui giudica e condanna uomini
e cose del passato, poiché basta fare un confronto tra le
condizioni prima e dopo l'indipendenza per vedere che qualcosa si è
pur fatta.
Pare dubbio che si possa
fare una storia della grande industria astraendo dai principali
fattori (sviluppo demografico, politica finanziaria e doganale,
ferrovie ecc.) che hanno contribuito a determinare le caratteristiche
economiche del periodo considerato (critica molto giusta; una gran
parte dell'attività della Destra storica da Cavour al 1876 fu
dedicata infatti a creare le condizioni tecniche generali in cui una
grande industria fosse possibile e un grande capitalismo potesse
diffondersi e prosperare; solo con l'avvento della Sinistra e
specialmente con Crispi si ha la «fabbricazione dei
fabbricanti» attraverso il protezionismo e i privilegi d'ogni
genere. La politica finanziaria della Destra rivolta al pareggio
rende possibile la politica «produttivistica»
successiva). «Cosí, ad esempio, non si riesce a capire
come mai vi fosse tanta abbondanza di mano d'opera in Lombardia nei
primi decenni dopo la unificazione, e quindi il livello dei salari
rimanesse tanto basso, se si rappresenta il capitalismo come una
piovra che allunga i suoi tentacoli per far sempre nuove prede nelle
campagne, invece di tener conto della trasformazione che
contemporaneamente avviene nei contratti agrari ed in genere
nell'economia rurale. Ed è facile concludere
semplicisticamente sulla caparbietà e sulla ristrettezza di
mente delle classi padronali osservando la resistenza che esse fanno
ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni delle classi
operaie, se non si tiene anche presente quello che è stato
l'incremento della popolazione rispetto alla formazione di nuovi
capitali». (La quistione però non è cosí
semplice. Il saggio del risparmio o di capitalizzazione era basso
perché i capitalisti avevano voluto mantenere tutta l'eredità
di parassitismo del periodo precedente, affinché non venisse
meno la forza politica della loro classe e dei loro alleati).
Critica della definizione
di «grande industria» data dal Morandi, il quale, non si
sa perché, ha escluso dal suo studio molte delle piú
importanti attività industriali (trasporti, industrie
alimentari ecc.). Eccessiva simpatia del Morandi per i colossali
organismi industriali, considerati troppo spesso, senz'altro, come
forme superiori di attività economica, malgrado siano
ricordati i crolli disastrosi dell'Ilva, dell'Ansaldo, della Banca di
Sconto, della Snia Viscosa, dell'Italgas. «Un altro punto di
dissenso, il quale merita di essere rilevato, perché nasce da
un errore molto diffuso, è quello in cui l'A. considera che un
paese debba necessariamente rimaner soffocato dalla concorrenza degli
altri paesi se inizia dopo di essi la propria organizzazione
industriale. Questa inferiorità economica, a cui sarebbe
condannata anche l'Italia, non sembra affatto dimostrata, perché
le condizioni del mercato, della tecnica, degli ordinamenti politici,
sono in continuo movimento e quindi le mète da raggiungere e
le strade da percorrere si spostano tanto spesso e subitamente che
possono trovarsi in vantaggio individui e popoli che erano rimasti
piú indietro o quasi non s'erano mossi. Se ciò non
fosse si spiegherebbe male come continuamente possono sorgere e
prosperare nuove industrie accanto alle piú vecchie nello
stesso paese e come abbia potuto realizzarsi l'enorme sviluppo
industriale del Giappone alla fine del secolo scorso». (A
questo proposito sarebbe da ricercare se molte industrie italiane,
invece di nascere sulla base della tecnica piú progredita nel
paese piú progredito, come sarebbe stato razionale, non siano
nate con le macchine fruste di altri paesi, acquistate a buon prezzo
sí, ma ormai superate, e se questo fatto non si presentasse
«piú utile» per gli industriali che speculavano
sul basso prezzo della mano d'opera e sui privilegi governativi piú
che su una produzione tecnicamente perfezionata).
Nel fare l'analisi della
relazione della Banca Commerciale Italiana all'assemblea sociale per
l'esercizio 1931, Attilio Cabiati (nella «Riforma Sociale»
luglio-agosto 1932, p. 464) scrive: «Risalta da queste
considerazioni il vizio fondamentale che ha sempre afflitto la vita
economica italiana: la creazione e il mantenimento di una impalcatura
industriale troppo superiore sia alla rapidità di formazione
di risparmio nel paese, che alla capacità di assorbimento dei
consumatori interni; vivente quindi per una parte cospicua solo per
la forza del protezionismo e di aiuti statali di svariate forme. Ma
il patrio protezionismo che in taluni casi raggiunge e supera il
cento per cento del valore internazionale del prodotto, rincarando la
vita rallentava a sua volta la formazione del risparmio, che per di
piú veniva conteso all'industria dallo Stato stesso, spesso
stretto dai suoi bisogni, sproporzionati alla nostra impalcatura. La
guerra, allargando oltre misura tale impalcatura, costrinse le nostre
banche, come scrive la relazione precitata, "ad una politica di
tesoreria coraggiosa e pertinace", la quale consisté nel
prendere a prestito "a rotazione" all'estero, per prestare
a piú lunga scadenza all'interno. "Una tale politica di
tesoreria aveva però – dice la relazione – il suo
limite naturale nella necessità per le banche di conservare ad
ogni costo congrue riserve di investimenti liquidi o di facile
realizzo". Quando scoppiò la crisi mondiale, gli
"investimenti liquidi" non si potevano realizzare se non ad
uno sconto formidabile: il risparmio estero arrestò il suo
flusso: le industrie nazionali non poterono ripagare. Sicché,
exceptis excipiendis, il sistema bancario italiano si trovò
in una situazione per piú aspetti identica a quella del
mercato finanziario inglese nella metà del 1931... (l'errore)
antico consisteva nell'aver voluto dare vita ad un organismo
industriale sproporzionato alle nostre forze, creato con lo scopo di
renderci "indipendenti dall'estero": senza riflettere che,
a mano a mano che non "dipendevamo" dall'estero per i
prodotti, si rimaneva sempre piú dipendenti per il capitale».
Si pone il problema se in
un altro stato di cose si potrà allargare la base industriale
del paese senza ricorrere all'estero per i capitali. L'esempio di
altri paesi (per esempio il Giappone) mostra che ciò è
possibile: ogni forma di società ha una sua legge di
accumulazione del risparmio ed è da ritenere che anche in
Italia si può ottenere una piú rapida accumulazione.
L'Italia è il paese, che, nelle condizioni create dal
Risorgimento e dal suo modo di svolgimento, ha il maggior peso di
popolazione parassitaria, che vive cioè senza intervenire per
nulla nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità
di piccola e media borghesia rurale e urbana che consuma una frazione
grande del reddito nazionale per risparmiarne una frazione
insufficiente alle necessità nazionali.
Giuseppe Paratore, La
economia, la finanza, il denaro d'Italia alla fine del 1928,
«Nuova Antologia», 1° marzo 1929.
Articolo interessante ma
troppo rapido e troppo conformista. Da tener presente per ricostruire
la situazione del '26 fino alle leggi eccezionali. Il Paratore fa una
lista delle principali contraddizioni del dopo guerra: 1) le
divisioni territoriali hanno moltiplicato le barriere doganali; 2) ad
una complessiva riduzione di capacità di consumo ha risposto
dappertutto un aumento di impianti industriali; 3) ad una tendenziale
depressione economica, un accentuato spirito di nazionalismo
economico (ogni nazione vuole produrre tutto e vuole vendere senza
comprare); 4) ad un impoverimento complessivo, una tendenza
all'aumento reale delle spese statali; 5) ad una maggiore
disoccupazione, una minore emigrazione (nell'anteguerra lasciavano
annualmente l'Europa circa 1.300.000 lavoratori, oggi emigrano solo
600-700 mila uomini); 6) la ricchezza distrutta dalla guerra in parte
è stata capitalizzata e dà luogo ad interessi che per
molto tempo sono stati pagati con altro debito; 7) un indebitamento
verso gli Stati Uniti d'America (per debiti politici e commerciali)
che se dovesse dar luogo a reali trasferimenti, metterebbe in
pericolo qualunque stabilità monetaria.
Per l'Italia il Paratore
nota questi elementi della sua situazione post-bellica: 1)
considerevole diminuzione del suo capitale umano; 2) debito di circa
100 miliardi di lire; 3) volume di debito fluttuante preoccupante; 4)
bilancio statale dissestato; 5) ordinamento monetario sconvolto,
espresso da una profonda riduzione e da una pericolosa instabilità
del valore interno ed esterno della unità di denaro; 6)
bilancia commerciale singolarmente passiva, aggravata da un completo
disorientamento dei suoi rapporti commerciali con l'estero; 7) molti
ordinamenti finanziari riguardanti la pubblica e privata economia
logorati.
Sui bilanci dello Stato.
Vedere i discorsi in Senato dell'on. Federico Ricci, ex Sindaco
di Genova. Questi discorsi sono da leggere prima di ogni lavoro sulla
storia di questi anni.
Nel discorso del 16
dicembre 1929 sul rendiconto dell'esercizio finanziario 1927-28 il
Ricci osservò:
1) A proposito della Cassa
d'ammortamento del debito estero istituito con decreto-legge 3 marzo
1926 dopo gli accordi di Washington (14 novembre 1925) e di Londra
(27 gennaio 1926): che gli avanzi realizzati sulla differenza fra
quota pagata dalla Germania e quota pagata dall'Italia all'America e
all'Inghilterra viene imprestata alla Tesoreria che a un certo punto
dovrà restituirla (si arriverà a miliardi) quando
l'Italia dovrà pagare piú di quanto riceve. Pericolo
che la Tesoreria non possa pagare. L'Italia ha ricevuto dalla
Germania pagamenti in natura e in denaro. Non vengono piú
pubblicati i resoconti dettagliati delle vendite fatte dallo Stato
delle merci ricevute dalla Germania, e delle somme realizzate: non si
sa se esse sono maggiori o minori di quelle accreditate.
2) A proposito della Cassa
d'ammortamento dei debiti interni, istituita con decreto-legge 5
agosto 1927 per provvedere all'estinzione del Consolidato e degli
altri debiti di Stato. Doveva essere dotata cogli avanzi di bilancio,
coi proventi degli interessi dei capitali, coi ricuperi per capitale
e interesse dei prestiti fatti dallo Stato a certe industrie private,
ecc. Dopo il primo anno, tutti i cespiti principali sono
mancati, specialmente gli avanzi di bilancio. Essa è
accreditata semplicemente per tali somme, sicché nei residui
passivi il suo credito è di lire 1.728 milioni. Le offerte dei
privati nel resoconto ultimo fino al dicembre 1928 sono di 4.800.000
[lire], somma molto inferiore a quella pubblicata nei giornali.
3) Polizze di assicurazione
per i combattenti, istituite con decreto-legge 10 dicembre 1917, in
ragione di 500 lire per i soldati, 1.000 lire per i sottufficiali e
5.000 lire per gli ufficiali (è esatto? O non si parlava di
1.000 lire per i soldati?) Esse verranno a scadenza nel 1947 o 1948,
rappresentando un carico grandissimo per il bilancio (naturalmente
gli interessati non hanno avuto quasi nulla e gli accaparratori
saranno loro a riscuotere: ecco un argomento interessante). Il
Governo con decreto 10 maggio 1923 aveva provvisto alla
costituzione di una riserva presso la Cassa depositi e prestiti dando
una prima dotazione di 600 milioni e piú di 50 milioni annui.
1600 milioni però non furono mai versati: sono iscritti fra i
residui all'attivo come prestito da contrarre al 3,50% (portato poi
al 4,75% con decreto 10 maggio 1925, n. 852) e al passivo come
credito della C.D.P. Quanto ai 50 milioni, furono inscritti in
bilancio per qualche anno e poi intervenne un decreto ministeriale il
quale cancellò per l'anno in corso (1927) e per i successivi
quel versamento (Decreto ministeriale 6 ottobre 1927, n. 116635). («È
curioso (!!?) che sia possibile mutare radicalmente la fisionomia del
bilancio solennemente (!) approvato dalle Camere, con semplici
decreti ministeriali, che non compaiono sulla "Gazzetta
Ufficiale", dei quali lo stesso Capo del Governo potrebbe non
saper nulla; e lo stesso ministro competente potrebbe averli firmati
inavvertitamente»; queste parole del Ricci sono di colore
oscuro).
Una osservazione del Ricci:
La Cassa di ammortamento del debito interno, ha fatto un «debituccio»
di 80 milioni per ammortizzare il Debito Pubblico!!! La Tesoreria,
non sapendo dove sbattere la testa, si fece prestare denaro dall'Alto
Commissario della Città di Napoli, dal Consorzio del Porto di
Genova, ecc. Si fece prestare dalle Casse d'ammortamento del debito
estero e di quello interno, facendo loro un trattamento curioso, non
pagando cioè gli interessi!, ecc.
A proposito dei bilanci.
Occorre sempre confrontare il bilancio preventivo normale con le
aggiunte, correzioni e variazioni che di solito vengono fatte dopo
qualche mese; spesso in questo supplemento di bilancio, si annidano
delle voci interessanti (per es. nel preventivo le spese segrete
degli Esteri erano 1.500.000: nel supplemento ci fu un aumento di
10.000.000). Certo è che il supplemento interessa meno del
preventivo ordinario, e perciò suscita meno curiosità e
meno indagini: pare sia ordinaria amministrazione.
La marina mercantile
italiana. Estratti dall'articolo La nostra marina
transatlantica di L. Fontana Russo, nella «Nuova Antologia»
del 16 aprile 1927.
Le perdite complessive
della marina mercantile italiana per sottomarini e sequestri durante
la guerra salirono a 872.341 tonn. lorde (238 piroscafi per 769.450
tonn. e 395 velieri per 10.891), cioè il 49% dell'intera
flotta, mentre le perdite inglesi furono del 41% e le francesi del
46% («ciò nonostante la piú tarda entrata in
guerra, e la ritardata dichiarazione di guerra alla Germania»;
A. G.: come spiegare questa percentuale cosí alta?) Inoltre
altri 9 piroscafi per 57.440 tonn. affondarono per disgraziati
accidenti dovuti allo speciale regime imposto alla navigazione
(incagli per sfuggire ad attacchi di sommergibili, collisioni nella
navigazione in convoglio ecc.) («quanto fu la percentuale di
questi casi nelle altre marine», A. G.; la risposta interessa
per giudicare nostra organizzazione e capacità dei comandi;
inoltre interessante sapere l'età di questi piroscafi, per
vedere come era esposta la vita dei nostri marinai). Il danno
finanziario (navi e carico) fu di L. 2.202.733.047, cosí
ripartito: naviglio da pesca L. 4.391.706; velieri L. 59.792.591;
piroscafi di bandiera nazionale L. 1.595.467.786; piroscafi di
bandiera estera noleggiati dall'Italia (216 piroscafi affondati, 2
danneggiati: L. 543.080.964). (Evidentemente questi piroscafi esteri
non sono calcolati nel tonnellaggio precedente e anche in questo caso
sarebbe interessante sapere se essi furono affondati essendo guidati
da personale italiano: inoltre se le altre nazioni subirono perdite
dello stesso genere).
Il totale dei carichi
perduti fu di 1.271.252 tonn. I rifornimenti italiani durante la
guerra furono: 49 mil. di tonn. da Gibilterra e 2 milioni dal
Mediterraneo e da Suez. Le perdite subite durante la guerra furono
riparate subito. Il naviglio mondiale [perduto] durante la guerra fu
di 12.804.902 tonn. (piroscafi e velieri), cioè il 27% del
tonnellaggio complessivo. Nel 1913 la marina mondiale era di
43.079.000 tonn.; nel 1919 era di 48 milioni, nel '21 di 58.841.000,
nel '26 di 62.671.000. I cantieri, dal '13 al '19, dopo aver colmato
le perdite, accrebbero di 4 milioni il tonnellaggio. Le navi
impostate furono continuate dopo l'armistizio: cosí si spiega
che, nel '19, le navi varate raggiunsero i 7 milioni di tonnellate
(«ciò spiega la crisi dei noli del dopoguerra, in cui
coincise un naviglio anormale con una caduta del commercio»).
Italia. Il 31
dicembre 1914 il nostro naviglio (piroscafi superiori a 250 tonn.
lorde) era di 644 piroscafi per tonn. D. W. C. 1.958.838; le perdite
al 31 dicembre 1921 furono: piroscafi 354, per tonn. 1.270.348. Della
vecchia flotta rimanevano 290 piroscafi, per tonn. 688.496. Fino al
31 dicembre 1921 furono costruiti 122 piroscafi per tonn. D. W. C.
698.979 e comprati all'estero 143 per 845.049, furono ricuperati
dalla Regia Marina 60 per 131.725 e incorporati dalla Venezia Giulia
210 per 763.945, cioè l'aumento complessivo fu di 535 per
2.437.698, portando la flotta complessiva a 856 per 3.297.987. Alla
fine del 1926 l'Italia aveva costruito inoltre 33 navi per 239.776
tonn. lorde. Le motonavi tendono ad aumentare in confronto dei
piroscafi. Le 763.945 tonn. provenienti dalla Venezia Giulia furono
il risultato di negoziati al Congresso della Pace con l'Inghilterra,
la Francia e la Jugoslavia.
Le perdite della marina di
linea (piroscafi per viaggiatori) furono meno gravi che per la flotta
da carico e perciò non prontamente riparate. Cosí, nel
dopoguerra si ebbe naviglio da carico eccessivo e di linea
manchevole. Disarmo e caduta di noli per quello, richiesta e rialzo
di noli per questo. Avvenne cosí specializzazione delle
compagnie: alcune si dedicarono al carico, altre alla linea,
alienando la propria flotta di carico e specializzandosi
(«teoricamente la specializzazione è un progresso,
perché porta a minor costo: ma in caso di crisi di uno o altro
ramo, la specializzazione porta al fallimento, perché non
esiste piú il compenso reciproco»; A. G.). Alla flotta
di linea si pose un problema fondamentale: navi per emigranti o navi
per viaggiatori di classe? Le maggiori compagnie si decisero nel
senso di dare maggior peso ai piroscafi di lusso. Crisi
dell'emigrazione per restrizioni legislative. Cosí si ebbe
sviluppo di grandi piroscafi di lusso, per i quali non c'è
limitazione di spazio e di comfort dati i noli alti.
Tendenza verso il grande
tonnellaggio. Per legge economica del rendimento crescente.
L'aumento della lunghezza, altezza, larghezza porta ad un aumento piú
che proporzionale della portata utile, cioè dello spazio
dedito al carico. Cresce pure, piú che proporzionalmente alla
spesa di costruzione e d'esercizio, il rendimento dell'armatore. La
velocità invece deve essere moderata, per essere
economica (non può oltrepassare per ora i 24 nodi). Altra è
la questione per la marina di guerra, i cui scopi sono bellici, non
di carattere economico. Le macchine marine capaci di imprimere grandi
velocità sono insaziabili divoratrici di combustibile. La
velocità segue la legge dei rendimenti decrescenti,
all'opposto di quella che regola la portata delle navi. Venti anni
fa: velocità di 11 nodi, costo orario 295 lire, 13 nodi 370
lire, 21 nodi 1.800 lire. Al criterio dei viaggi brevi, si sostituí
quello dei viaggi comodi («oggi la radio, e specialmente
l'aeroplano per chi ha veramente fretta, compensano la relativa
scarsa velocità delle navi di lusso; con la radio si può
sempre mantenersi in comunicazione e non interrompere gli affari; con
l'aeroplano si ottengono due effetti: 1°, percorrere in poche ore
spazi relativamente brevi – Parigi-Londra, ecc. – con
sicurezza; 2°, i transatlantici trasportano anche aeroplani e
giunti a una distanza dal capolinea che dà sicurezza di
traversata, permettono ai piú frettolosi di abbreviare il
viaggio»; A. G.). Alla velocità di 23 nodi si è
giunti sia trasformando le macchine motrici, sia adottando nuovo
combustibile. La turbina sostituí le macchine alternative: il
motore Diesel tende a sostituire la turbina. Il combustibile liquido
sostituisce il carbone. Notevole risparmio che permise una nuova
velocità economica (23 nodi).
Nuove e vecchie
costruzioni. Una nave nuova, che rappresenti un forte progresso,
svaluta subito, automaticamente, tutte le precedenti. Il vecchio
naviglio deve essere radiato, trasformato se possibile, o adibito ad
altri trasporti. Le vecchie navi rendono poco o nulla (anche se in
parte ammortizzate), se non sono addirittura passive. Perciò,
dati i continui progressi tecnici, gli attuali transatlantici devono
ammortizzare il capitale in poco meno d'un decennio. («Ed ecco
perché nel valutare l'efficienza reale delle varie flotte
nazionali, oltre al numero delle unità e alla somma
complessiva delle tonnellate, bisogna badare all'età del
naviglio; ciò spiega anche come il rendimento di flotte
inferiori per tonnellaggio sia superiore a quello di flotte che
statisticamente sono piú elevate: oltre al fatto dei maggiori
rischi – assicurazioni – e pericoli per le vite umane
rappresentati dalle vecchie navi»).
La diplomazia italiana.
Costantino Nigra e il trattato di Uccialli. Nella «Nuova
Antologia» del 16 novembre 1928 in un articolo di Carlo
Richelmy, Lettere inedite di Costantino Nigra, è
pubblicata una lettera (o estratti di una lettera) del 28 agosto 1896
del Nigra a un «caro amico» che il Richelmy crede di
poter identificare col marchese Visconti-Venosta perché con lo
stesso, in quei giorni, il Nigra scambiò alcuni telegrammi sul
medesimo argomento. Nigra informa che il principe Lobanov (forse
ambasciatore russo a Vienna, dove il Nigra era ambasciatore) lo ha
informato di alcune pratiche che il Negus Menelik ha fatto presso lo
Zar. Il Negus aveva fatto sapere allo Zar di essere disposto ad
accettare la mediazione della Russia per la conclusione della pace
coll'Italia ecc. Il Nigra conchiude: «Per me è evidente
una cosa. Dopo l'affare del trattato di Uccialli, il Negus è
diffidente verso di noi, sospettando sempre che dal nostro
plenipotenziario gli si cangino le clausole pattuite. Questa
diffidenza, che è invincibile, ha consigliato il Negus di
chiedere di trattare per mezzo della Russia al fine di avere un
testimone idoneo e potente. La cosa è dura per il nostro amor
proprio, ma ormai il nostro paese deve persuadersi che quando si
adoperano diplomatici come Antonelli, generali come Baratieri, e
ministri come Mocenni, non si possono avere pretese soverchie».
(«Mani vuote, ma sporche» – machiavellismo da
rigattieri ecc.).
La diplomazia italiana
prima del 1914. Un documento molto interessante e curioso su
questo argomento è il volume di Alessandro De Bosdari, Delle
guerre balcaniche, della grande guerra e di alcuni fatti preceduti ad
esse, (ed.
Mondadori). La «Nuova Antologia» del 1°
settembre 1927 ne riproduce un capitolo: «Lo scoppio della
guerra balcanica visto da Sofia», dove si leggono amenità
di questo genere: «Non posso negare che la profonda convinzione
dell'orientazione austriaca, sicura e permanente guida dello Zar dei
Bulgari in tutta la sua politica estera, da me acquisita fin dagli
ultimi mesi del 1911, non mi abbia impedito di vederci chiaro nella
Lega balcanica e nella imminenza della guerra contro la Turchia. A
tanti anni di distanza non so troppo (!) rimproverarmelo perché
se non vidi venire un fatto accessorio (?!) e per cosí dire
(!) episodico della politica bulgara, ciò fu unicamente perché
vedevo troppo chiara (e lo dice sul serio!) la linea principale. Fu
come chi dicesse un fenomeno di presbitismo politico, ed in politica
il presbitismo è migliore della miopia, come questa è
senza dubbio migliore di quella cecità assoluta di cui debbo
dire a mio discarico (!), fecero prova, in quella ed in tante
susseguenti occasioni, molti miei colleghi».
Il brano è
interessante anche da altri punti di vista, oltre quello particolare
del giudizio sulla diplomazia italiana. Il candore ameno porta il De
Bosdari a dire manifestamente ciò che altri pensano per
giustificare i propri errori e non dicono apertamente in questa
forma. Esiste una linea non formata di «fatti accessori»
e di «episodi» come dice il De Bosdari? E comprendere una
linea non significa riuscire a comprendere e quindi a prevedere e
organizzare questa catena di fatti accessori? Chi parla di linea in
questo senso, in realtà intende dire una «categoria
sociologica», un'«astrazione». Qualche volta
indovina? È vero, ma a questo proposito si potrebbe citare il
pensiero di Guicciardini sull'«ostinazione».
A proposito dell'incidente
del Carthage e del Manouba tra Italia e Francia occorre
confrontare la versione che sull'origine dei fatti dà Alberto
Lumbroso nel secondo volume della sua opera-zibaldone sulle Origini
economiche e diplomatiche della guerra mondiale (Collezione
Gatti, ed. Mondadori) col paragrafo di Tittoni (Veracissimus!)
dedicato all'incidente stesso nell'articolo I documenti
diplomatici francesi (1911-1912), pubblicato nella «Nuova
Antologia» del 16 agosto 1929 e forse ristampato in volume
(nelle edizioni Treves dei libri di Tittoni). L'esposizione del
Tittoni è evidentemente non chiara e reticente: ora egli era
appunto l'ambasciatore italiano a Parigi al quale, secondo il
Lumbroso, Poincaré si era rivolto assicurandolo che il
Carthage e il Manouba non contenevano contrabbando di
guerra e pregandolo di telegrafare a Roma perché i due
battelli non fossero fermati. È strano come il Tittoni, che è
cosí sensibile per tutto ciò che riguarda la sua
carriera, non accenni al Lumbroso o per smentirlo o per sminuire
l'effetto della sua versione. Bisogna però ricordare che il
Tittoni pare abbia in disdegno le abborracciature del Lumbroso, e
questi gli rimprovera di non tener conto dei documenti tedeschi sulla
guerra e quindi di essere perciò tedescofobo (per ciò
che riguarda le responsabilità dello scatenamento del
conflitto).
Nella recensione del libro
di Salandra La neutralità italiana di Giuseppe A.
Andriulli pubblicata nell'ICS del maggio 1928 si accenna al fatto che
già prima che Sonnino andasse agli Esteri, il ministro di San
Giuliano aveva intavolato trattative con l'Intesa e che i
collaboratori di San Giuliano affermavano che queste trattative erano
impostate in modo ben diverso che da Sonnino, specialmente rispetto
alla parte coloniale. Perché queste trattative furono troncate
da Sonnino e si aprirono invece le trattative con l'Austria? Salandra
ancora non spiega le ragioni dell'accordo con la Germania del maggio
'15 per le proprietà private (accordo fatto subito divulgare
dai tedeschi per mezzo del «Bund», giornale svizzero) e
le ragioni della ritardata dichiarazione di guerra alla Germania
(cosa che creò diffidenza verso l'Italia da parte dell'Intesa,
di cui si giovò Sisto di Borbone).
Tittoni. Ha
certamente avuto sempre molta importanza l'opinione di Tittoni nello
stabilire i programmi di politica estera del governo dal '23 in poi:
seguire l'attività pratica e letteraria di Tittoni in questi
anni. Alla sua raccolta di articoli di politica estera del 1928,
Quistioni del giorno, ha fatto precedere una interessante
prefazione politica il Capo del Governo. Passato di Tittoni. Sua
attività. Giudizi su Tittoni di diplomatici stranieri (vedi i
Carnets di Georges Louis, ecc.). Suoi rapporti con Isvolsky.
(Libro nero di Marchand).
Tittoni come letterato e la
sua fissazione linguaiola, curiosa perché la «Nuova
Antologia» pubblica cose errorose per la lingua, specialmente
traduzioni, ecc. Vedi l'articolo Per la verità storica,
firmato «Veracissimus», nella «Nuova Antologia»
del 16 marzo-1° aprile 1928: l'autore (Tittoni) vi parla dei suoi
rapporti con Isvolsky, dei suoi rapporti con la stampa francese
(Isvolsky in un rapporto pubblicato dal Libro Nero aveva
accennato al molto denaro che Tittoni distribuí alla stampa al
tempo della guerra libica, ecc.), fa degli accenni interessanti al
convegno di Racconigi del 1909. Ricordare il libro di Alberto
Lumbroso sulle cause economiche della guerra e i suoi accenni a
Tittoni (nell'episodio del Carthage e Manouba accennato
dal Lumbroso quanta responsabilità spetta a Tittoni?).
Nell'articolo c'è anche un accenno rozzo (da mercante di
campagna, direbbe Georges Louis) all'ambasciata attuale russa a
Parigi e ai suoi possibili contatti col conte Manzoni. (Perché
questo animus particolarmente aggressivo di Tittoni? Ricordare
lo scandalo provocato nel 1925 – mi pare – dal Tittoni
come Presidente del Senato e per cui il governo dovette domandare
scusa. L'episodio piú interessante della vita di Tittoni è
la sua permanenza a Napoli come prefetto in un tempo di grandi
scandali: nella stampa del tempo si potrà trovare il
materiale; forse nella «Propaganda», ecc.).
Per tutto un lungo periodo
dovette esistere una specie di censura preventiva o un impegno di non
scrivere le proprie memorie da parte dei diplomatici e in genere
degli uomini di Stato italiani, tanto poca è la letteratura in
proposito. Dal 1919 in poi abbiamo una certa abbondanza, relativa, ma
la qualità è molto scadente. (Le memorie di Salandra
sono «inconcepibili» in quella forma pacchiana). Il libro
di Alessandro De Bosdari, Delle guerre balcaniche e della grande
guerra e di alcuni fatti precedenti ad esse (Milano, Mondadori,
1927, pp. 225, L. 15), secondo una breve nota di P. Silva
nell'«Italia che scrive» dell'aprile 1928, è privo
d'importanza per il fatto che l'autore insiste specialmente sui
fatterelli personali e non sa organicamente rappresentare la propria
attività in una esposizione degli avvenimenti che getti su di
essi una qualche luce utile. (Su un capitolo di questo libro,
pubblicato dalla «Nuova Antologia» ho scritto una nota a
proposito dei giudizi del Bosdari sulla diplomazia italiana).
La quistione italiana.
Sono da vedere i discorsi tenuti dal Ministro degli Esteri Dino
Grandi al Parlamento nel 1932 e le discussioni che da quei discorsi
derivarono nella stampa italiana e internazionale. L'on. Grandi
impostò la quistione italiana come quistione mondiale, da
risolversi necessariamente insieme alle altre che costituiscono
l'espressione politica della crisi generale del dopoguerra,
intensificatasi nel 1929 in modo quasi catastrofico, e cioè:
il problema francese della sicurezza, il problema tedesco della
parità di diritti, il problema di un nuovo assetto degli Stati
danubiani e balcanici. L'impostazione dell'on. Grandi è un
abile tentativo di costringere ogni possibile Congresso mondiale
chiamato a risolvere questi problemi (e ogni tentativo della normale
attività diplomatica) ad occuparsi della «questione
italiana» come elemento fondamentale della ricostruzione e
pacificazione europea e mondiale. In che consiste la questione
italiana secondo questa impostazione? Consiste in ciò che
l'incremento demografico è in contrasto con la relativa
povertà del paese, e cioè nell'esistenza di un
superpopolamento. Occorrerebbe pertanto che all'Italia fosse data la
possibilità di espandersi, sia economicamente, sia
demograficamente ecc. Ma non pare che la quistione cosí
impostata sia di facile soluzione e non possa dar luogo ad obbiezioni
fondamentali. Se è vero che i rapporti generali
internazionali, cosí come si vengono sempre piú
irrigidendo dopo il 1929, sono molto sfavorevoli all'Italia
(specialmente il nazionalismo economico ed il «razzismo»
che impediscono la libera circolazione non solo delle merci e dei
capitali ma soprattutto del lavoro umano), può anche essere
domandato se a suscitare e irrigidire tali nuovi rapporti non abbia
contribuito e contribuisca tuttora la stessa politica italiana. La
ricerca principale pare debba essere in questo senso: il basso saggio
individuale di reddito nazionale è dovuto alla povertà
«naturale» del paese oppure a condizioni storico-sociali
create e mantenute da un determinato indirizzo politico che fanno
dell'economia nazionale una botte delle Danaidi? Lo Stato, cioè,
non costa troppo caro, intendendo per Stato, come è
necessario, non solo l'amministrazione dei servizi statali, ma anche
l'insieme delle classi che lo compongono in senso stretto e lo
dominano? Pertanto è possibile pensare che senza un mutamento
di questi rapporti interni, la situazione possa mutare in meglio
anche se internazionalmente i rapporti migliorassero? Può
anche essere osservato che la proiezione nel campo internazionale
della questione può essere un alibi politico di fronte alle
masse del paese.
Che il reddito nazionale
sia basso, può concedersi, ma non viene poi esso distrutto
(divorato) dalla troppa popolazione passiva, rendendo impossibile
ogni capitalizzazione progressiva, sia pure con ritmo rallentato?
Dunque la quistione demografica deve essere a sua volta analizzata, e
occorre stabilire se la composizione demografica sia «sana»
anche per un regime capitalistico e di proprietà. La povertà
relativa «naturale» dei singoli paesi nella civiltà
moderna (e in tempi normali) ha una importanza anch'essa relativa;
tutt'al piú impedirà certi profitti marginali di
«posizione» geografica. La ricchezza nazionale è
condizionata dalla divisione internazionale del lavoro e dall'aver
saputo scegliere, tra le possibilità che questa divisione
offre, la piú razionale e redditizia per ogni paese dato. Si
tratta dunque essenzialmente di «capacità direttiva»
della classe economica dominante, del suo spirito d'iniziativa e di
organizzazione. Se queste qualità mancano, e l'azienda
economica è fondata essenzialmente sullo sfruttamento di
rapina delle classi lavoratrici e produttrici, nessun accordo
internazionale può sanare la situazione.
Non si ha esempio, nella
storia moderna, di colonie di «popolamento»; esse non
sono mai esistite. L'emigrazione e la colonizzazione seguono il
flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non viceversa. La
crisi attuale che si manifesta specialmente come caduta dei prezzi
delle materie prime e dei cereali mostra che il problema appunto non
è di ricchezza «naturale» per i vari paesi del
mondo, ma di organizzazione sociale e di trasformazione delle materie
prime per certi fini e non per altri. Che si tratti di organizzazione
e di indirizzo politico-economico appare anche dal fatto che ogni
paese a civiltà moderna ha avuto «emigrazione» in
certe fasi del suo sviluppo economico, ma tale emigrazione è
cessata e spesso è stata riassorbita.
Che non si vogliano (o non
si possa) mutare i rapporti interni (e neppure rettificarli
razionalmente) appare dalla politica del debito pubblico, che aumenta
continuamente il peso della passività «demografica»,
proprio quando la parte attiva della popolazione è ristretta
dalla disoccupazione e dalla crisi. Diminuisce il reddito nazionale,
aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è
disinvestito dal processo produttivo e viene riversato nel debito
pubblico, cioè fatto causa di nuovo parassitismo assoluto e
relativo.
Italia e Yemen nella
nuova politica arabica. Articolo di «tre stelle»
nella «Rivista d'Italia» del 15 luglio 1927. Trattato di
Sana del 2 settembre 1926 tra Italia e Yemen. Lo Yemen è la
parte piú fertile dell'Arabia (Arabia felice). È stato
sempre autonomo di fatto, sotto una dinastia di imam che
discende da el-Usein, secondo figlio del califfo Alí e di
Fatimah, figlia di Maometto. Solo nel 1872 i turchi stabilirono il
loro dominio nello Yemen. Nel 1903 insurrezione, che nel 1904 trovò
nel nuovo imam Yahyà ibn-Mohammed Hamid, di 28 anni, il
suo capo. Vinto nel 1905, Yahyà riprese la lotta nel 1911
aiutato dall'Italia che era in guerra con la Turchia e consolidò
la sua indipendenza. Nella guerra europea Yahyà parteggiò
per la Turchia per opporsi alla politica inglese imperniata
sull'ingrandimento dello sceriffo Husein (proclamatosi re dell'Arabia
il 6 novembre 1916) e sull'indipendenza dell'Asir. Dopo la pace,
tramontato il programma unitario di Husein che abdicò nel '24
e nel '25 fu relegato a Cipro, rimase la quistione dell'Asir. L'Asir
è un emirato creato durante la guerra italo-turca. Nell'Asir
si era stabilito il famoso santone marocchino Ahmed ibn-Idris
el-Hasani el-Idrisi, il cui discendente Mohammed Alí, noto
come lo sceicco Idris durante la guerra libica, appoggiato
dall'Italia, sollevò le tribú dell'Asir. Riconosciuto
emiro indipendente dagli Inglesi nel 1914, Mohammed collaborò
con Husein ed ebbe dagli Inglesi la Tihamah con Hodeidah; fece la
concessione a una compagnia inglese di giacimenti petroliferi delle
isole Farsan. Stretto tra Husein a Nord e Yahyà a Sud, l'emiro
si legò nel 1920 al sultano del Negged (Ibn Saud) cedendogli,
per averne la protezione, Abha, Muhail e Beni Shahr, cioè la
parte estrema dell'Asir settentrionale e assicurandogli uno sbocco
sul mar Rosso. I Wahhabiti occuparono quelle terre e se ne servirono
per combattere meglio l'Heggias (Husein). Nel 1926 (8 gennaio) i
Wahhabiti vittoriosi proclamarono Ibn Saud re dell'Heggias. I
Wahhabiti si mostravano i piú capaci di unificare l'Arabia;
Yahyà con un proclama del 18 giugno 1923 aveva posto la sua
candidatura a califfo e a campione della nazione araba. Riuscí
con imprese fortunate ad assicurarsi l'effettivo controllo dei
numerosi sultanati e tribú del cosí detto Hadramaut e a
restringere notevolmente l'hinterland di Aden, senza nascondere le
sue mire su Aden stessa. Si gettò poi contro l'emiro dell'Asir
(che per lui era un usurpatore) e conquistò tutta la parte
meridionale sino a Loheyyah e compresa Hodeidah, venendo a contatto
coi Wahhabiti che avevano allargato, a richiesta dell'emiro, la loro
occupazione dell'Asir. L'emiro dell'Asir si lasciò spingere
dall'ex-senusso ad atti di ostilità verso l'Italia
(l'ex-senusso era ospite alla Mecca di Ibn Saud dopo la sua
espulsione da Damasco – dicembre 1924 –).
Col trattato
italo-yemenita, a Yahyà è riconosciuto il titolo regio
e la piena e assoluta indipendenza. Lo Yemen importerà le sue
forniture dall'Italia, ecc. (Ibn Saud fece un trattato con
l'Inghilterra il 26 dicembre 1915 ed ebbe il possesso non solo del
Negged, ma anche di el-Hasa, el-Qatif e Giubeil, in cambio del suo
disinteressamento per Koweit, el-Bahrein e Oman che, come è
noto, sono sotto il protettorato inglese. In una discussione ai
Comuni del 28 novembre 1922 risultò ufficialmente che Ibn Saud
percepiva dal governo inglese regolare stipendio. Coi trattati del 1°
e 2 novembre 1925, dopo la conquista dello Heggias, Ibn Saud accettò
confini molto infelici con l'Irak e la Transgiordania che Husein non
aveva voluto accettare, ciò che dimostrò la sua stretta
intesa con l'Inghilterra). Il trattato italo-yemenita fece rumore: si
parlò di una alleanza politica e militare segreta; in ogni
modo i Wahhabiti non attaccarono lo Yemen (si parlò di attriti
italo-inglesi ecc.). Rivalità tra Ibn Saud e Yahyà:
ambedue aspirano a promuovere e dominare l'unità araba.
Wahhabiti: setta
musulmana fondata da Abd-el-Wahhab che cercò di allargarsi con
le armi; ebbe molte vittorie ma fu ricacciata nel deserto dal famoso
Mehemet Alí e da suo figlio Ibrahim pascià. Il sultano
Abdallah, catturato, fu giustiziato a Costantinopoli (dicembre 1818)
e suo figlio Turki a stento riuscí a mantenere uno staterello
nel Negged. I Wahhabiti vogliono tornare alla pura lettera del
Corano, sfrondando tutte le superstrutture tradizionali (culto dei
santi, ricche decorazioni delle moschee, pompe religiose). Appena
conquistata la Mecca, hanno abbattuto cupole e minareti, distrutto i
mausolei di santoni celebri, fra cui quello di Khadigia, la prima
moglie di Maometto, ecc. Ibn Saud emanò ordinanze contro il
vino e il fumo, per la soppressione del bacio della «pietra
nera» e dell'invocazione a Maometto nella formula della
professione di fede e nelle preghiere.
Le iniziative puritane dei
Wahhabiti sollevarono proteste nel mondo musulmano; i governi di
Persia e dell'Egitto fecero rimostranze. Ibn Saud si moderò.
Yahyà cerca di speculare su questa reazione religiosa. Yahyà
e la maggioranza degli yemeniti seguono il rito zeidita, cioè
sono eretici per la maggioranza sunnita degli arabi. La religione è
contro di lui, egli cerca di premere perciò sulla nazionalità
e sul fatto della sua discendenza dal profeta che gli fa rivendicare
la dignità di califfo. (Nel tallero da lui coniato c'è
la scritta: «coniato nella sede del califfato a Sana»).
La sua regione, essendo delle piú fertili dell'Arabia, e la
sua posizione geografica gli danno una certa possibilità
economica.
Pare che lo Yemen abbia
170.000 Km2 di superficie, con una popolazione tra 1 e 2
milioni. Sull'altipiano la popolazione è araba pura, bianca,
sulla costa è prevalentemente negra. C'è un certo
apparato amministrativo, scuole embrionali, esercito con leva
obbligatoria. Yahyà è intraprendente e di tendenze
moderne sebbene geloso della sua indipendenza. Per l'Italia lo Yemen
è la pedina per il mondo arabico.
Articolo di Roger
Labonne nel «Correspondant» del 10 gennaio 1927 su
Italia e Asia Minore. L'Italia si interessa per la prima volta
nel 1900 dell'Asia Minore: invia una serie di missioni che studiano
l'Anatolia meridionale, stabilisce ad Adalia un vice-console, delle
scuole, un ospedale, sovvenziona le linee di navigazione che portano
la sua bandiera lungo il litorale. S'interessa soprattutto di Smirne,
del cui porto fa il centro della sua influenza nel Levante. Gli
articoli 8 e 9 del Patto di Londra dicono: «L'Italia riceverà
l'intera sovranità del Dodecanneso. In caso di divisione
totale o parziale della Turchia, essa otterrà la regione
mediterranea che avvicina la provincia di Adalia e che ha già
fatto (!) una convenzione coll'Inghilterra». A San Giovanni di
Moriana l'Italia precisa nuovamente la sua richiesta (21 aprile
1917). Venizelos, approfittando della partenza di Orlando e Sonnino
da Parigi, spinse gli alleati ad assegnare Smirne alla Grecia. Il 1°
gennaio 1926, nel discorso di Milano, Mussolini dice: «Bisogna
aver fede nella Rivoluzione, che avrà nel 1926 il suo anno
napoleonico». Nel '26 non si produsse nulla di veramente
notevole, ma per due volte si fu alla vigilia di avvenimenti serii.
Cessione di Mossul all'Irak (cioè agli inglesi). La Turchia
cedette davanti all'imminenza di un intervento italiano, dopo di aver
invano domandato il concorso militare di Mosca in caso di conflitto
sul Meandro e sul Tigri. I giornali londinesi confessano ingenuamente
che il successo di Mossul è dovuto alla pressione italiana, ma
il governo inglese non si preoccupa troppo dell'Italia. Nel gioco
anatolico l'Italia ha perduto nel 1926 le sue due carte migliori: con
l'accordo di Mossul e con la caduta di Pangalos.
Il «Correspondant»
del 25 luglio 1927 (vedi «Rivista d'Italia» del 15 luglio
1927: forse c'è errore nelle date, a meno che la «Rivista
d'Italia» non sia uscita molto piú tardi della sua
datazione) in un articolo, La pression italienne, ha scritto:
«Il Duce, lo teniamo da fonte eccellente, avrebbe già
voluto due volte la guerra dopo il suo avvento al potere: due volte
il maresciallo Badoglio avrebbe rifiutato di prenderne la
responsabilità ed avrebbe domandato ed ottenuto di attendere
fino al 1935 per essere sicuro». Il discorso sull'anno cruciale
è del giugno 1927: il «Correspondant» cercherebbe
quindi di dare una spiegazione di questa determinazione avvenire. Il
«Correspondant» è rivista molto autorevole
conservatrice-cattolica.
Italia ed Egitto.
Articolo di Romolo Tritoni nella «Nuova Antologia»
del 16 aprile 1928, Le Capitolazioni e l'Egitto (che sarebbe
un capitolo di un Manuale di questioni politiche dell'Oriente
musulmano di prossima pubblicazione ma che non ho visto
annunziato o recensito. Il Tritoni è anche autore di un
volume, È giunto il momento di abolire le Capitolazioni in
Turchia?, pubblicato a Roma nel 1916, e collabora spesso alla
«Nuova Antologia» e alla «Politica» di
Coppola. Chi è? È uno dei vecchi nazionalisti? Non
ricordo. Mi pare serio e informato: è specialista nelle
quistioni del prossimo Oriente. Vedere).
È favorevolissimo
alle Capitolazioni, specialmente in Egitto, da un punto di vista
europeo e italiano: sostiene la necessità della unità
fra gli Stati europei nella quistione, ma prevede che questa unità
d'azione non sarà mantenuta per il distacco dell'Inghilterra.
Coi 4 punti sull'Egitto già l'Inghilterra tentò di
staccarsi dall'Europa affermando di riservarsi la «protezione
degli interessi stranieri», clausola non chiara perché
sembrava che l'Inghilterra si arrogasse la protezione, escludendone
le altre potenze; ma fu spiegato che alla prossima conferenza sulle
Capitolazioni l'Inghilterra parteciperebbe su di un piede di
uguaglianza con gli altri Stati capitolari.
L'Inghilterra ha in Egitto
una colonia molto esigua (se si tolgono i funzionari britannici
nell'Amministrazione egiziana e i militari) e accettando l'abolizione
delle Capitolazioni venderebbe la pelle degli altri. Per ingraziarsi
i nazionalisti, metterebbe in cattiva luce gli altri europei (questo
è il punto delicato che preme agli italiani: essi vorrebbero
aver amici i nazionalisti, ma fare la politica della colonia italiana
in Egitto lasciando l'odiosità della situazione creata
dall'Europa all'Egitto sulle spalle dell'Inghilterra: vedere nelle
riviste i giudizi sugli avvenimenti egiziani nel 1929-30: sono
contradditori, impacciati: l'Italia è favorevole alle
nazionalità ma... ecc.; la stessa situazione per l'India, ma
nell'Egitto gli interessi sono molto forti e le ripercussioni dei
giudizi piú immediate).
La colonia italiana in
Egitto è molto selezionata, cioè è di quel tipo
i cui elementi sono giunti già alla terza o quarta generazione
passando dall'emigrato proletario all'industriale, commerciante,
professionista; mantenuto il carattere nazionale, aumentano la
clientela commerciale dell'Italia, ecc. ecc. (sarebbe interessante
vedere la composizione sociale della colonia italiana: è però
probabile che un ragguardevole numero di emigrati dopo tre o quattro
generazioni sia salito di classe sociale: in ogni modo le
Capitolazioni dànno unità alla colonia e permettono ai
funzionari italiani e ai borghesi di controllare tutta la massa degli
emigrati).
Nei paesi del Mediterraneo
dove [sono] abolite le Capitolazioni, l'emigrazione italiana o è
cessata, o viene gradualmente eliminata (Turchia) o si trova nelle
condizioni della Tunisia, dove si cerca di snazionalizzarla.
Abolizione delle Capitolazioni significa snazionalizzazione
dell'emigrazione (altra quistione, data dal fatto che l'Italia è
potenza esclusivamente mediterranea e ogni mutamento in questo mare
la interessa piú che ogni altra potenza).
Naturalmente il Tritoni
vorrebbe mantenersi amici gli Egiziani con queste sue opinioni e
riconosce che «è di capitale importanza per noi essere
amici del loro Paese».
L'Etiopia d'oggi
(articolo della «Rivista d'Italia» firmato tre
stelle). L'Etiopia è il solo Stato indigeno indipendente in
un'Africa ormai tutta europea (oltre la Liberia). Menelik è
stato il fondatore della moderna unità etiopica: i
nazionalisti abissini si richiamano a Menelik, il «grande e
buono imperatore». Degli elementi che hanno contribuito ad
assicurare l'indipendenza dell'Etiopia due sono evidenti: la
struttura geografica del paese e la gelosia fra le potenze. La
struttura geografica fa dell'Etiopia un immenso campo trincerato
naturale, espugnabile solo con forze smisurate e sacrifizi non
proporzionati alle scarse risorse economiche che il paese può
offrire all'eventuale conquistatore. Lo Scioa, che ha creato l'unità
abissina, è a sua volta una fortezza nel campo trincerato e
tutto lo guarda e lo domina. Nell'ultimo trentennio è stato
creato un esercito imperiale, distinto dai piccoli eserciti dei ras e
ad essi superiore tecnicamente; la creazione dell'esercito nazionale
è dovuta a Menelik. Già prima della morte di Menelik
(1913) la Corte, dato lo sfacelo intellettuale del vecchio
imperatore, aveva proclamato (14 aprile 1910) imperatore Ligg Jasu,
figlio di una figlia di Menelik, e di ras Mikael. Alla morte di
Menelik (11 dicembre 1913) le lotte si scatenarono: Zeoditú,
altra figlia di Menelik, e ras Tafari, figlio di ras Makonnen, si
coalizzarono e riuscirono ad avere un imponente numero di partigiani.
Tafari aveva con sé i giovani. Ras Mikael, tutore di Ligg Jasu
minorenne, fu incapace di imporsi alle fazioni e di assicurare
l'ordine pubblico come risultò in occasione dell'assalto del
17 maggio 1916 alla Legazione d'Italia. La guerra europea salvò
l'Abissinia da un intervento straniero e dette la possibilità
all'Abissinia di superare la crisi da sé. Zeoditú e
Tafari si unirono per detronizzare Ligg Jasu e dividersi il potere,
Zeoditú come imperatrice nominale, l'altro quale erede al
trono e reggente (27 settembre 1916). Tafari, appoggiato dai capi
militari, ha saputo con energia e scaltrezza ridurre all'obbedienza
il paese. Ma il condominio con Zeoditú offrí spesso il
destro a intrighi di palazzo non sempre innocui. (Alla fine del '26 o
principio del '27) sparirono quasi contemporaneamente il ministro
della guerra, fitaurari Hapte Gheorghes e il capo della Chiesa, abuna
Mattheos.
La morte dell'abuna ha
scatenato la quistione della chiesa nazionale. La chiesa etiopica
riconosceva la suprema autorità del patriarca copto di
Alessandria che nominava all'alto ufficio di abuna un egiziano
(Mattheos era egiziano). Il nazionalismo etiopico vuole un abuna
abissino. L'abuna ha in Abissinia una grandissima importanza (piú
che l'arcivescovo-primate delle Gallie in Francia) e il fatto che sia
straniero presenta dei pericoli, nonostante che la sua autorità
sia corretta e in un certo senso controllata dall'echegheh
indigeno dal quale dipendono direttamente i numerosi ordini
monastici. La parte presa da Mattheos nel colpo di Stato del 27
settembre 1912 a favore di Tafari ha mostrato ciò che potrebbe
avvenire. (Quando l'articolo [veniva] pubblicato il patriarca
d'Alessandria resisteva ancora alla pretesa abissina: vedere il
seguito della quistione). (L'Abissinia ha una capitale religiosa:
Aksum). Tafari ha cercato di imprimere un ritmo nuovo alla politica
estera abissina. Menelik aveva cercato di limitare la schiavitú
e di introdurre l'istruzione obbligatoria, avviando lo Stato verso
forme moderne, ma si teneva in un'attitudine di dissidente
isolamento. Tafari invece ha cercato di partecipare alla vita europea
e si è fatto ammettere nella Lega delle Nazioni, impegnandosi
formalmente a estirpare nel piú breve termine possibile la
schiavitú. E infatti emanò un bando che imponeva la
graduale liberazione degli schiavi, ma finora senza risultato. Gli
schiavisti molto forti. (D'altronde l'Etiopia ancora feudale).
Convenzione di Londra del
13 dicembre 1906 fra Italia, Francia, Inghilterra, con cui i tre
confinanti si impegnarono: a rispettare lo statu quo politico
e territoriale dell'Etiopia; a mantenere, in caso di contese o
mutamenti interni, la piú stretta neutralità,
astenendosi da ogni intervento negli affari interni del paese;
qualora lo statu quo fosse turbato, a cercare di mantenere
l'integrità dell'Etiopia, tutelando in ogni caso i rispettivi
interessi: per l'Inghilterra il bacino del Nilo e la regolarizzazione
delle acque di quel fiume e dei suoi affluenti; per l'Italia
l'hinterland dei suoi possedimenti dell'Eritrea e della Somalia e
l'unione territoriale tra essi ad ovest di Addis Abeba; per la
Francia l'hinterland di Gibuti e la zona necessaria per la
costruzione e il traffico della ferrovia Gibuti - Addis Abeba. Le tre
potenze si impegnavano di aiutarsi scambievolmente per la protezione
dei loro rispettivi interessi.
L'accordo fu concepito in
pieno «giro di valzer» dell'Italia con le potenze
occidentali, e cioè in pieno sviluppo di quel vasto programma
di intese mediterranee (l'accordo di Londra era stato conchiuso in
massima il 6 luglio, tre mesi dopo Algesiras) che fu troncato un paio
d'anni dopo sotto il ricatto (!) dello stato maggiore austriaco. Cosí
alla politica di cooperazione succedette una lotta a colpi di spillo:
la sola a guadagnarci fu la Francia che poté prolungare la
ferrovia fino ad Addis Abeba (la diplomazia sostiene che l'accordo di
Londra fu sottoposto preventivamente a Menelik e firmato solo
quand'egli ebbe dato il nulla osta ai ministri delle tre potenze
accreditati presso di lui, cosicché le stipulazioni
dell'accordo sarebbero anche concessioni implicitamente (!) promesse
dall'Abissinia, qualcosa come la situazione del famoso trattato di
Uccialli, ancora peggiorato).
Dopo la guerra europea,
durante le trattative per i compensi coloniali fissati dal patto di
Londra, l'Italia propose di ravvivare l'accordo del 1906, volendo
risolvere il problema del congiungimento ferroviario tra l'Eritrea e
la Somalia. Ma Londra e Parigi rifiutarono. La Francia non aveva
nulla da chiedere all'Abissinia dopo la ferrovia Gibuti - Addis
Abeba; l'Inghilterra credeva di ottenere tutto senza unirsi
all'Italia. Ma l'Inghilterra fece poi l'accordo del 1925 (due note
scambiate tra Mussolini e l'ambasciatore inglese a Roma il 14 e il 20
dicembre 1925). Per esso: l'Italia si impegna ad appoggiare
l'Inghilterra nei suoi tentativi per ottenere dall'Etiopia la
concessione di lavori di sbarramento al Lago Tana, nella zona che nel
1906 era riservata all'influenza italiana e la concessione di
un'autostrada fra il Sudan e il Tana; l'Inghilterra ad appoggiare
l'Italia per ottenere la costruzione e l'esercizio di una ferrovia
tra l'Eritrea e la Somalia italiana ad ovest di Addis Abeba;
l'Inghilterra riconosce all'Italia l'influenza esclusiva (!) nella
zona occidentale dell'Etiopia e in tutto il territorio destinato ad
essere attraversato dalla ferrovia, con l'impegno da parte
dell'Italia di non compiere in quella zona, sulle sorgenti del Nilo
Azzurro e del Nilo Bianco e dei loro affluenti, alcuna opera che
possa sensibilmente modificare il loro afflusso nel fiume principale.
La Francia sollevò gran rumore su questo accordo, presentato
come una minaccia dell'indipendenza abissina. La campagna francese
ebbe gravi ripercussioni sul nazionalismo etiopico. Ras Tafari [ha]
creato due tipografie per la stampa in lingua amarica: sviluppo di
letteratura nazionalista incoraggiato da Tafari: xenofobia. Il
Giappone è il modello del nazionalismo abissino.
L'articolo della «Rivista
d'Italia» riporta brani di articoli e opuscoli: uno studente
che [è stato] educato in America scrive: «Impariamo
fortemente, apprendiamo molto, perché non vengano gli
stranieri a governarci!... Dobbiamo studiare piú che possiamo,
perché, se non studiamo, la nostra patria è finita».
La Francia desta meno sospetti ad Addis Abeba, perché dopo
Fascioda, Gibuti ha per essa solo l'importanza di uno scalo sulla via
dell'Indocina. Inoltre, la ferrovia Gibuti - Addis Abeba, che serve
tutto il traffico esterno dell'Etiopia, dà alla Francia un
monopolio che essa vorrebbe conservare: la Francia può quindi
fare una politica di apparente disinteressamento. Ma Ras Tafari vuol
far progredire l'Etiopia e quindi [è] favorevole ad altre
ferrovie, opere idrauliche ecc.
Esiste ancora tra l'Etiopia
e l'Italia una piccola quistione a proposito dei confini tra Etiopia
e Somalia. Quando dopo la convenzione di Addis Abeba del 16 maggio
1908 fu definita la frontiera, la missione Citerni eseguí il
tracciato sul terreno per quel che riguardava il Benadir. Si lasciò
da parte la frontiera del sultanato di Obbia che non presentava
urgenza data la speciale situazione di quel protettorato. Ma oggi
Obbia [è] occupata dalle armi italiane e bisognerà
fissare il tracciato del confine con l'Etiopia.
Roberto Cantalupo, La
Nuova Eritrea, «Nuova Antologia», 1° ottobre
1927. (Funzioni dell'Eritrea: 1) economica: intensificare la sua
capacità produttiva e commerciale di esportazione e di
importazione, cercando di farne un complemento della Madre Patria e
di renderla attiva finanziariamente; 2) politica: dare all'Eritrea
una posizione e una funzione tali da rendere possibile un maggior
contatto con gli stati arabici della riva asiatica del Mar Rosso, nel
restaurare i rapporti economici tra Asmara ed il confinante Ovest
etiopico, in modo che l'Eritrea diventi il naturale sbocco al mare
delle regioni dell'Abissinia settentrionale e naturale porto di
transito delle zone centrali e meridionali della Penisola arabica,
dopo che Porto Sudan è diventato sbocco di tutto l'Ovest
sudanese e entrepôt dell'Arabia settentrionale).
Dati del Cantalupo ormai
invecchiati. Problemi dell'Etiopia: oltre a lotta d'influenza tra
Inghilterra, Italia, Francia, potenze confinanti, quali influssi
esercitano o possono esercitare ad Addis Abeba gli Stati Uniti e la
Russia. Come unico Stato indigeno libero dell'Africa, l'Etiopia può
diventare la chiave di tutta la politica mondiale africana, cioè
il punto di collisione delle tre potenze mondiali (Inghilterra, Stati
Uniti, Russia). L'Etiopia potrebbe mettersi alla testa di un
movimento per l'Africa agli Africani.
Sulla situazione sociale
etiopica, in cui la chiesa [ha] grande importanza per struttura
feudale, cfr. Alberto Pollera, Lo Stato etiopico e la sua Chiesa,
pubblicato a cura della Regia Società Geografica (il Pollera è
un funzionario coloniale italiano).
Il nazionalismo
italiano. Primo congresso del Partito Nazionalista (Associazione
Nazionalista) a Firenze nel dicembre 1910, con la presidenza di
Scipio Sighele: Gualtiero Castellini, Federzoni, Corradini, Paolo
Arcari, Bevione, Bodrero, Gray, Rocco, Del Vecchio. Gruppo ancora
indistinto, che cercava di cristallizzare intorno ai problemi della
politica estera e dell'emigrazione le correnti meno pacchiane del
tradizionale patriottismo (è un'osservazione poco fatta che in
Italia, accanto al cosmopolitismo e apatriottismo piú
superficiale è sempre esistito uno sciovinismo frenetico, che
si collegava alle glorie romane e delle repubbliche marinaresche e
alle fioriture individuali di artisti, letterati, scienziati di fama
mondiale. Lo sciovinismo italiano è caratteristico ed ha dei
tipi assolutamente suoi: esso era accompagnato da una xenofobia
popolaresca anch'essa caratteristica). Il primo nazionalismo
comprendeva molti democratici e liberali e anche massoni. Poi il
movimento si andò distinguendo e precisando per opera di un
piccolo gruppo di intellettuali che saccheggiarono le ideologie e i
modi di ragionare secchi, imperiosi, pieni di mutria e di suffisance
di Carlo Maurras: Coppola, Forges Davanzati, Federzoni. (Importazione
sindacalista nel nazionalismo). In realtà i nazionalisti erano
antirredentisti: la loro posizione fondamentale era antifrancese.
Subirono l'irredentismo perché non volevano fosse un monopolio
dei repubblicani e dei radicali massoni, cioè un'arma
dell'influenza francese in Italia. Teoricamente la politica estera
dei nazionalisti non aveva fini precisi: si poneva come una astratta
rivendicazione imperiale contro tutti; in realtà voleva
sopprimere la francofilia democratica e rendere popolare la alleanza
tedesca.
Direzione
politico-militare della guerra 1914-1918. Confronta l'articolo di
Mario Caracciolo (colonnello) Il comando unico e il comando
italiano nel 1918 nella «Nuova Antologia» del 16
luglio 1929. Molto interessante e indispensabile per compilare
definitivamente questa rubrica. Il Caracciolo è scrittore
militare molto serio e che difficilmente si lascia trasportare dalla
retorica. Ha scritto un volume nella Collezione Gatti presso
Mondadori, Le truppe italiane in Francia.
Per ora mi interessa un
particolare (che potrebbe apparire nella rubrica «Passato e
presente»), legato alla ripetuta affermazione del Caracciolo
della insufficienza dell'apparato industriale italiano: verso il
gennaio-febbraio 1918 (cfr. il volume del Caracciolo citato per
stabilire esattamente il fatto) l'Italia mandò in Francia
60.000 uomini, lavoratori ausiliari, «che avevamo disponibili
perché la nostra industria ancora non aveva potuto darci tutte
le armi necessarie per armarli». Questo elemento può dar
luogo ad alcune conseguenze: 1) Come sia politicamente erroneo
chiamare «imboscati» gli addetti all'industria in tempo
di guerra. Erano essi necessari e indispensabili all'attività
bellica? Erano tanto necessari che risulta esserci stati troppo pochi
«imboscati», tanto da rendere inutilizzabili in Italia
60.000 uomini. Questa propaganda contro i pseudo-imboscati ebbe
conseguenze deplorevoli: già prima dell'armistizio furono
mandati a Torino dei reparti d'assalto che incominciarono subito la
caccia all'«imboscato»; all'uscita dalle officine gli
uomini dal bracciale di esonero, e poi nelle vie centrali, erano
aggrediti, bastonati e spesso sfregiati in faccia; gli avvenimenti
alla spicciolata culminarono nella notte di capodanno 1919 coi fatti
di palazzo Siccardi. La censura non permise di fare neanche un cenno
a questi avvenimenti.
2) La contrapposizione di
combattenti e di esonerati e imboscati da fatto privato diventò
fatto di diritto pubblico e ciò è l'aspetto piú
grave della quistione, perché lasciò formarsi
l'opinione che gli esonerati fossero dei veri «imboscati»,
non elementi indispensabili per l'attività bellica anche se
non combattenti, con sanzione ufficiale. Per legge si deve preferire
un ex combattente nelle officine, ecc. (Se nelle officine ci furono
degli imboscati veri questi sono da ricercare specialmente nei
tecnici di secondo grado: la riduzione al minimo delle operazioni di
lavoro determinata dal limitato numero di oggetti fabbricati e dalla
loro struttura elementare e il lavoro a serie, avevano ridotto la
funzione da quella di maestro d'arte a quella di pura sorveglianza
disciplinare: ciò unito all'ampliamento degli impianti dette
la possibilità di imboscarsi a molta gente che non aveva mai
avuto a che fare coll'industria; questi sono veri imboscati, perché
il posto poteva essere assegnato a dipendenti anziani della fabbrica
stessa. Cosí non può parlarsi di imboscati per i
contadini che entrarono allora in quantità notevoli nelle
fabbriche, direttamente dalle campagne o comandati dall'autorità
militare. A Torino, la manovalanza delle officine era in gran parte
costituita da soldati comandati d'origine contadina). In questi
regolamenti sulla assunzione dei disoccupati non si fa neanche il
caso speciale dei riformati, per i quali non essere stati combattenti
è stato ancora piú involontario.
In Italia, col ristretto
apparato industriale in confronto delle necessità del tempo di
guerra, il problema è spinoso: necessariamente, l'industria
metallurgica e meccanica, ma parzialmente anche altre industrie
(chimiche, del legno, tessili) devono essere mobilitate e siccome la
produzione deve essere teoricamente illimitata, anche ampliate:
quindi non solo devono rimanere in officina le maestranze vecchie, ma
dovranno farsi nuove assunzioni. La composizione dell'esercito sarà
perciò in prevalenza contadina, mentre la maggior parte degli
operai, o almeno una porzione ragguardevole, dovrà lavorare
per l'attrezzamento e il munizionamento. Fare di questa necessità
un elemento di agitazione demagogica e sanzionarla di inferiorità
per gli addetti all'industria, potrà avere questa conseguenza
(in assenza di una soluzione organica che è difficile:
rotazione tra officina e fronte, ecc.): che realmente nelle officine
vorranno rimanere i panciafichisti e che il problema della produzione
subirà una crisi, cioè la guerra potrà essere
perduta nelle officine per mancanza di rendimento.
Nella «Nuova
Antologia» del 16 giugno 1929 è pubblicata una piccola
nota a firma G. S. (o non era forse C. S., cioè Cesare
Spellanzon? Sarebbe grossa!) Beneš l'immemore,
abbastanza curiosa, perché si afferma che la «politica
delle nazionalità» fu voluta dai nostri piú
avveduti uomini politici, caldeggiata con pronto intuito dai maggiori
giornali dell'interventismo, adottata spontaneamente dal governo
italiano. È vero che G. S. scrive che questa politica si
precisava sin d'allora «nei suoi veri termini», cioè
favorevole specialmente all'Italia, ma non è neppure vero in
questo senso ristretto, perché la politica delle nazionalità
si «impose» solo dopo l'ottobre 1917. Ora G. S. si
lamenta che Beneš nei suoi Souvenirs de guerre et de
révolution (Ernest Leroux, Parigi) attenui i ricordi
dell'amicizia «bellica» e giunga alla conclusione che
tutti i guai dell'Italia durante e dopo la guerra siano da
attribuirsi alla mancanza di chiarezza e di decisione della politica
di guerra del paese.
In alcuni paesi la
formazione delle truppe scelte d'assalto è stata catastrofica,
a quanto pare: si è mandato alla distruzione la parte
combattiva dell'esercito, invece di tenerla come elemento
«strutturale» del morale della massa dei soldati. Secondo
il generale Krasnov (nel suo famigerato romanzo) questo appunto era
successo in Russia già nel 1915. Questa osservazione può
valere come correttivo critico delle recenti opinioni espresse dal
generale tedesco von Seeckt sulle armate specializzate di mestiere,
che sarebbero buone specialmente per l'offensiva.
Caporetto. Sul libro
del Volpe Ottobre 1917. Dall'Isonzo al Piave, cfr. la
recensione di Antonio Panella nel «Pègaso»
dell'ottobre 1930. La recensione è benevola ma superficiale.
Caporetto fu essenzialmente un «infortunio militare»; che
il Volpe abbia dato, con tutta la sua autorità di storico e di
uomo politico, a questa formula il valore di un luogo comune soddisfa
molta gente che sentiva tutta l'insufficienza storica e morale
(l'abbiezione morale) della polemica su Caporetto come «crimine»
dei disfattisti o come «sciopero militare». Ma è
troppa la compiacenza per la validità di questo nuovo luogo
comune, perché non debba esserci una reazione, che d'altronde
è piú difficile di quella al precedente luogo comune,
come appare dalla critica fatta dall'Omodeo al libro del Volpe.
«Assolti» i soldati, la massa militare esecutiva e
strumentale («l'outil tactique élémentaire»
come Anatole France fa dire a un generale dei soldati), si sente che
il processo non è finito: la polemica tra il Volpe e l'Omodeo
sugli «ufficiali di complemento» è interessante
come indizio. Pare, dall'Omodeo, che il Volpe misconosca l'apporto
bellico degli ufficiali di complemento, cioè della piccola
borghesia intellettuale e quindi indirettamente indichi questa come
responsabile dell'«infortunio», pur di salvare la classe
superiore, che è già messa al sicuro dalla parola
«infortunio». La responsabilità storica deve
essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati,
ufficiali di complemento e stati maggiori occupano una posizione
determinata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola
responsabile è la classe dirigente appunto perché
dirigente (vale anche qui l'«ubi maior, minor cessat»).
Ma questa critica che sarebbe veramente feconda, anche dal punto di
vista nazionale, brucia le dita.
Cfr. il libro del gen.
Alberto Baldini sul generale Diaz (Diaz, in 8°, pp. 263,
Barbèra ed., L. 15, 1929). Il generale Baldini pare critichi
implicitamente Cadorna e cerchi di dimostrare che Diaz ebbe una
importanza molto maggiore di quanto non gli sia riconosciuta.
In questa polemica sul
significato di Caporetto bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e
precisi:
1) Caporetto fu un fatto
puramente militare? Questa spiegazione pare ormai acquisita agli
storici della guerra, ma essa è basata su un equivoco. Ogni
fatto militare è anche un fatto politico e sociale. Subito
dopo la sconfitta si cercò di diffondere la convinzione che le
responsabilità politiche di Caporetto fossero da ricercare
nella massa militare, cioè nel popolo e nei partiti che ne
erano l'espressione politica. Questa tesi è oggi
universalmente respinta, anche ufficialmente. Ma ciò non vuol
dire che Caporetto perciò solo diventi puramente militare,
come si tende a far credere, come se fattore politico fosse solo il
popolo, cioè i responsabili della gestione politico-militare.
Anche se fosse dimostrato (come invece si esclude universalmente) che
Caporetto sia stato uno «sciopero militare», ciò
non vorrebbe dire che la responsabilità politica debba essere
accollata al popolo ecc. (dal punto di vista giudiziario può
spiegarsi, ma il punto di vista giudiziario è un atto di
volontà unilaterale tendente a integrare col terrorismo
l'insufficienza governativa): storicamente, cioè dal punto di
vista politico piú alto, la responsabilità sarebbe
sempre dei governanti, e della loro incapacità a prevedere che
determinati fatti avrebbero potuto portare allo sciopero militare e
quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di
classe) a impedire una tale possibile emergenza. Che ai fini
immediati di psicologia della resistenza, in caso di forza maggiore,
si affermi che «occorre rompere i reticolati coi denti» è
comprensibile, ma che si abbia la convinzione che in ogni caso i
soldati debbano rompere i reticolati coi denti, perché cosí
vuole l'astratto dovere militare, e si trascuri di provvederli delle
tenaglie, è criminoso. Che si abbia la convinzione che la
guerra non si fa senza vittime umane è comprensibile, ma che
non si tenga conto che le vite umane non debbono essere sacrificate
inutilmente, è criminoso ecc. Questo principio, dal rapporto
militare si estende al rapporto sociale. Che si abbia la convinzione,
e la si sostenga senza limitazioni, che la massa militare debba fare
la guerra e sopportarne tutti i sacrifizi, è comprensibile, ma
che si ritenga che ciò avverrà in ogni caso senza tener
conto del carattere sociale della massa militare e senza venire
incontro alle esigenze di questo carattere, è da semplicioni,
cioè da politici incapaci.
2) Cosí la
responsabilità, se è esclusa quella della massa
militare, non può neanche essere del capo supremo, cioè
di Cadorna, oltre certi limiti, cioè oltre i limiti segnati
dalle possibilità di un capo supremo, della tecnica militare,
e delle attribuzioni politiche che un capo supremo ha in ogni caso.
Cadorna ha avuto gravi responsabilità, certamente, sia
tecniche che politiche, ma queste ultime non possono essere state
decisive. Se Cadorna non ha capito la necessità di un «governo
politico determinato» delle masse comandate e non le ha esposte
al governo, è certo responsabile, ma non quanto il governo e
in generale quanto la classe dirigente, di cui, in ultima analisi, ha
espresso la mentalità e la comprensione politica. Il fatto che
non ci sia stata una analisi obbiettiva dei fattori che hanno
determinato Caporetto e un'azione concreta per eliminarli, dimostra
«storicamente» questa responsabilità estesa.
3) L'importanza di
Caporetto nel decorso dell'intera guerra. La tendenza attuale tende a
diminuire il significato di Caporetto e a farne un semplice episodio
del quadro generale. Questa tendenza ha un significato politico e
avrà delle ripercussioni politiche nazionali e internazionali:
dimostra che non si vogliono eliminare i fattori generali che hanno
determinato la sconfitta, ciò che ha un peso nel regime delle
alleanze e nelle condizioni che saranno fatte al paese nel caso di
una nuova combinazione bellica, poiché le critiche di se
stessi che non si vogliono fare nel campo nazionale per evitare
determinate conseguenze necessarie all'indirizzo politico-sociale,
saranno fatte indubbiamente dagli organismi responsabili degli altri
paesi in quanto l'Italia è presunta poter far parte di
alleanze belliche. Gli altri paesi, nei calcoli in vista di alleanze,
dovranno tener conto di nuovi Caporetto e vorranno dei premi di
assicurazione, cioè vorranno l'egemonia anche oltre certi
limiti.
4) L'importanza di
Caporetto nel quadro della guerra mondiale. È data anche dai
mezzi forniti al nemico (tutti i magazzini di viveri e di munizioni
ecc.) che permisero una piú lunga resistenza, e la necessità
imposta agli alleati di ricostituire questi depositi con turbamento
di tutti i servizi e piani generali.
È vero che in tutte
le guerre e anche in quella mondiale, si ebbero altri fatti simili a
Caporetto. Ma occorre vedere (all'infuori della Russia) se ebbero la
stessa importanza assoluta e relativa, se ebbero cause simili o
paragonabili, se ebbero conseguenze simili o paragonabili per la
posizione politica del paese il cui esercito subí la
sconfitta. Dopo Caporetto l'Italia, materialmente (per gli armamenti,
per gli approvvigionamenti, ecc.) cadde in balia degli alleati, la
cui attrezzatura economica non era paragonabile per efficienza.
L'assenza di autocritica significa non volontà di eliminare le
cause del male ed è quindi un sintomo di grave debolezza
politica.
Gli ufficiali in
congedo. Traggo le notizie dal discorso del senatore Libertini
tenuto al Senato il 10 giugno 1929. L'Unione Nazionale degli
Ufficiali in congedo illimitato (U.N.U.C.I.) è sorta in
relazione al R. D. L. 9 dicembre 1926 (n. 2.352) convertito in legge
il 12 febbraio 1928 n. 261: diede frutti molto scarsi, perché,
dice il Libertini, «mancava in essa lo spirito necessario a
darle vita».
(Questa affermazione è
interessante, in quanto per «spirito» si intende
precisamente la concessione di benefici materiali, i quali, in questo
caso, vengono velati eufemisticamente nell'espressione «giuste
aspirazioni della benemerita classe degli ufficiali in congedo, i
quali sentivano di avere bene meritato dalla Patria per i servizi da
loro prestati nella guerra di redenzione ed intendono perciò
esser tenuti nella considerazione che meritano, moralmente e
materialmente». Se si fosse trattato di classi popolari, non si
sarebbe trattato di «spirito» ma di basse avidità
materialistiche, suscitate dalla demagogia, ecc. Questo modo di
pretendere «gratuitamente» dalle masse popolari ciò
che invece è «pagato» alle altre classi è
caratteristico dei dirigenti italiani: se le masse rimangono passive,
la colpa non è dell'insipienza dei dirigenti e del loro gretto
egoismo, ma dei demagoghi: è poi notevole il modo di ragionare
per cui è «materialistico» chi vuole migliorare le
proprie condizioni economiche ma non è tale chi non vuole
peggiorare sia pure di poco le proprie: si domanda
«materialisticamente», si rifiuta «idealisticamente»;
chi non ha è gretto, chi ha è altruista perché
non dà, ecc.).
Nuova legge del 24 dicembre
1928, n. 3.242, che concede benefizi. Il Libertini a questo punto
esamina la situazione degli ufficiali in congedo in Jugoslavia e in
Francia. In Francia gli ufficiali di riserva, se viaggiano per
recarsi alle conferenze ed esercitazioni nelle scuole di
perfezionamento fuori residenza, ricevono indennità dai 12 ai
32 franchi giornalieri a seconda della durata dell'assenza; indennità
chilometriche di prima classe (tariffa militare) andata e ritorno,
ecc. ecc. A partire dal 1° gennaio 1925 l'ufficiale di riserva
francese riceve 700 franchi a titolo di indennità di prima
vestizione; a chi non ha riscosso questa indennità, si dà
un vestito gratis.
In Jugoslavia: sono
iscritti all'Albo degli ufficiali in congedo ed ex combattenti
costituito nel 1922, 18.000 ufficiali di riserva e 35.000 ex
combattenti, cioè a dire la quasi totalità degli
ufficiali in congedo. In caso di «servizio» per
istruzione, ecc., [sono] vettovagliati, alloggiati e rimborsati delle
spese di viaggio.
Ancora a proposito dello
«spirito», nel discorso alla Camera il generale Gazzera,
sottosegretario alla guerra, ammise che il provvedimento di invitare
gli ufficiali in congedo a prestare volontariamente servizio durante
il periodo estivo di esercitazioni ha avuto questo risultato: nel
1926 si presentarono 1.007 ufficiali, nel '27 206 e nel 28 165!!
(Lo Stato deve curare gli
ufficiali in congedo per due fondamentali ordini di ragioni: la prima
di carattere tecnico, perché questi ufficiali, che saranno
richiamati come tali in caso di mobilitazione, non perdano la
qualifica professionale acquistata e la sviluppino anzi
coll'apprendimento teorico-pratico delle innovazioni che vengono
introdotte nei sistemi tattici e strategici; la seconda di carattere
ideologico facilmente comprensibile.
A proposito dello «spirito»
e della «materia» le osservazioni non riguardano
naturalmente gli ufficiali, ma i dirigenti. Le cifre del Gazzera sono
molto interessanti, piú ancora se si considera che molti sono
gli ufficiali appartenenti alle organizzazioni ufficiali politiche:
sono da mettere insieme alle cifre sull'appartenenza alle
associazioni di propaganda coloniale citate da Carlo Curcio nella
«Critica fascista» del luglio 1930: da tener presente per
la rubrica Passato e Presente).
Leggere attentamente le
discussioni specialmente del Senato sui bilanci militari. Si possono
trovare molte osservazioni interessanti sulla reale efficienza delle
forze armate e per il confronto tra il vecchio e nuovo regime.
Per una politica
annonaria razionale e nazionale di Guido Borghesani, nella «Nuova
Antologia» del 1° luglio 1927, è un mediocre
articolo, con dati poco sicuri e elaborati primitivamente. Sostiene
la tesi generale che in Italia si consuma troppo grano e che perciò
oltre alla lotta per avere un miglior raccolto granario dove è
tecnicamente piú produttiva la semina di questo cereale, si
dovrebbe tendere a sostituire il grano con altri cibi. La quistione è
però questa, che per es. la Francia, le cui abitudini sono nel
mangiare molto simili a quelle dell'Italia, non solo consuma per
abitante tanto grano quanto l'Italia, ma consuma molto piú di
altri cibi fondamentali (zucchero: Francia, kg. 24,5; Italia, kg. 8),
(formaggio e burro calcolati in latte: Francia, hl. 3; Italia, hl.
0,8). Il problema del grano in Italia è di miseria, non di
soverchio consumo, anche se la tesi generale è giusta, nel
senso del grande squilibrio: in Italia il maggior consumo di grano in
confronto del granoturco, ecc., è l'unico indice di un certo
miglioramento dietetico.
1919. Articoli della
«Stampa» contro i tecnici d'officina e clamorose
pubblicazioni degli stipendi piú alti. Bisognerebbe vedere se
a Genova, la stampa degli armatori, fece la stessa campagna contro
gli stati maggiori quando essi entrarono in agitazione e furono
aiutati dagli equipaggi.
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