Studi
particolari su Machiavelli come «economista»:
Gino Arias negli «Annali di Economia della Università
Bocconi» [pubblica] uno studio dove [si trova] qualche
indicazione. (Studio di Vincenzo Tangorra). Pare che lo Chabod, in
qualche suo scritto sul Machiavelli, trovi che sia una deficienza del
fiorentino, in confronto, per es., al Botero, il fatto della quasi
assenza di riferimenti economici nei suoi scritti (sull'importanza
del Botero per lo studio della storia del pensiero economico cfr.
Mario De Bernardi e recensione di L. Einaudi nella «Riforma
Sociale» di marzo-aprile 1932).
Occorre fare alcune
osservazioni generali sul pensiero politico del Machiavelli e sul suo
carattere di «attualità» a differenza di quello
del Botero, che ha carattere piú sistematico e organico
sebbene meno vivo e originale. Occorre anche richiamare il carattere
del pensiero economico di quel tempo (spunti nel citato articolo
dell'Einaudi) e la discussione sulla natura del mercantilismo
(scienza economica o politica economica?) Se è vero che il
mercantilismo è una [mera] politica economica, in quanto non
può presupporre un «mercato determinato» e
l'esistenza di un preformato «automatismo economico», i
cui elementi si formano storicamente solo a un certo grado di
sviluppo del mercato mondiale, è evidente che il pensiero
economico non può fondersi nel pensiero politico generale,
cioè nel concetto di Stato e delle forze che si crede debbano
entrare a comporlo. Se si prova che il Machiavelli tendeva a
suscitare legami tra città e campagna e ad allargare la
funzione delle classi urbane fino a domandar loro di spogliarsi di
certi privilegi feudali-corporativi nei rispetti della campagna, per
incorporare le classi rurali nello Stato, si dimostrerà anche
che il Machiavelli implicitamente ha superato in idea la fase
mercantilista e ha già degli accenni di carattere
«fisiocratico», cioè egli pensa a un ambiente
politico-sociale che è quello presupposto dall'economia
classica.
Il prof. Sraffa attira
l'attenzione su un possibile avvicinamento del Machiavelli a un
economista inglese del 1600, William Petty, che Marx chiama il
«fondatore dell'economia classica» e le cui opere
complete sono state tradotte anche in francese. (Marx ne parlerà
nei volumi del Mehrwert, Storia delle dottrine economiche).
La «Rivista d'Italia»
del 15 giugno 1927 è interamente dedicata al Machiavelli in
occasione del IV centenario della morte. Eccone l'indice: 1) Charles
Benoist, Le Machiavélisme perpétuel; 2) Filippo
Meda, Il machiavellismo; 3) Guido Mazzoni, Il Machiavelli
drammaturgo; 4) Michele Scherillo, Le prime esperienze
politiche del Machiavelli; 5) Vittorio Cian, Machiavelli e
Petrarca; 6) Alfredo Galletti, Niccolò Machiavelli
umanista; 7) Francesco Ercole, Il Principe; 8) Antonio
Panella, Machiavelli storico; 9) Plinio Carli, N.
Machiavelli scrittore; 10) Romolo Caggese, Ciò che è
vivo nel pensiero politico di Machiavelli.
L'articolo del Mazzoni è
mediocre e prolisso: erudito-storico-divagativo. Come capita spesso a
questo tipo di critici, il Mazzoni non ha ben capito il contenuto
letterario della Mandragola, falsifica il carattere di messer
Nicia e quindi tutto il complesso dei personaggi, che sono in
funzione dell'avventura di messer Nicia; il quale non si aspettava un
figlio dall'accoppiamento di sua moglie con Callimaco travestito, ma
si aspettava invece di avere la moglie resa feconda per virtú
dell'erba mandragola e liberata per l'accoppiamento con un estraneo
dalle supposte conseguenze micidiali della pozione, che altrimenti
sarebbero state subite da lui stesso. Il genere di scimunitaggine di
messer Nicia è ben circoscritto e rappresentato: egli crede
che la sterilità delle sue nozze non dipenda da lui stesso,
vecchio, ma dalla moglie giovane ma fredda e a questa presunta
infecondità della moglie vuole riparare, non col farla
fecondare da un altro, ma ottenendo che da infeconda sia trasformata
in feconda.
Che messer Nicia si lasci
convincere a far accoppiar la moglie con uno che dovrà morire
per liberarla da un presunto maleficio che altrimenti sarebbe causa
di allontanamento per lui dalla moglie o di morte per lui, è
un elemento comico che si trova in altre forme nella novellistica
popolare dove si suol dipingere la protervia delle donne che per dare
la sicurezza agli amanti si fanno possedere in presenza e col
consenso del marito (motivo che, in altra forma, appare anche nel
Boccaccio). Ma nella Mandragola è rappresentata la
stoltezza del marito e non la protervia della donna, la cui
resistenza può essere domata anzi solo con l'intervento
dell'autorità materna e di quella del confessore.
L'articolo di Vittorio Cian
è anche inferiore a quello del Mazzoni: la retorica stopposa
del Cian trova modo di abbarbicarsi anche sul bronzo. È
evidente che il Machiavelli reagisce alla tradizione petrarchesca e
cerca di spiantarla, nonché di continuarla; ma il Cian vede
col senno di poi infantilmente applicato, precursori da per tutto e
divinazioni miracolose in ogni frasetta banale e occasionale e
distende dieci pagine sull'argomento per non dire che i soliti luoghi
comuni amplificati dei manuali per le scuole medie ed elementari.
Un'edizione delle
Lettere di Niccolò Machiavelli è stata fatta dalla
Società Editrice «Rinascimento del libro»,
Firenze, nella «Raccolta nazionale dei classici», curata
e con prefazione di Giuseppe Lesca (la prefazione è stata
pubblicata nella «Nuova Antologia» del 1° novembre
1929). Le lettere erano già state stampate nel 1883
dall'Alvisi presso il Sansoni di Firenze con lettere di altri al
Machiavelli (del libro dell'Alvisi è stata fatta una nuova
edizione con prefazione di Giovanni Papini).
Pasquale Villari, Niccolò
Machiavelli e i suoi tempi, a cura di Michele Scherillo, Ed.
Ulrico Hoepli, Milano, 1927, due volumi, L. 60,00. (È la
ristampa della nota opera del Villari, con in meno i documenti che
nell'edizione Le Monnier occupano l'intero terzo volume e parte del
secondo. In questa edizione dello Scherillo i documenti sono stati
elencati con cenni sommari sul loro contenuto, in modo che facilmente
si può andarli a ricercare nell'edizione Le Monnier).
In una recensione di
Giuseppe Tarozzi del 1° volume sulla Costituzione russa di
Mario Sertoli (Firenze, Le Monnier, 1928, in 8°, pp. 435, L. 50)
pubblicata dall'«Italia che scrive», è citato un
libro del Vorländer Von Machiavelli bis Lenin, senz'altra
indicazione. (Sarà da vedere la rassegna sulla letteratura
machiavellica piú recente pubblicata nel 1929 dai «Nuovi
Studi»).
Gioviano Pontano. Sua
attività politica come affine a quella del Machiavelli. (cfr.
M. Scherillo, Origini e svolgimento della letteratura italiana,
II, dove [sono] riportati due memoriali del Pontano sulla situazione
italiana nel periodo della calata di Carlo VIII; e Gothein, Il
Rinascimento nell'Italia Meridionale, tradotto nella Biblioteca
storica del Rinascimento, Firenze, 1915). Il Pontano era membro
napoletanizzato. (La religione come strumento di governo. Contro il
potere temporale del Papa: doversi «li Stati temporali»
governare da «re e principi secolari»).
Gino Arias, Il pensiero
economico di Niccolò Machiavelli. (Negli «Annali di
Economia» dell'Università Bocconi del 1928 (o '27?).
Machiavelli ed Emanuele
Filiberto. Nel volume miscellaneo su Emanuele Filiberto
pubblicato nel 1928 dal Lattes, Torino (pp. 477 in 8°)
l'attività militare di Emanuele Filiberto come stratega e come
organizzatore dell'esercito piemontese è studiata dai generali
Maravigna e Brancaccio.
Ettore Ciccotti. Il
suo volume: Confronti storici, Biblioteca della «Nuova
Rivista Storica» n. 10, Società Ed. Dante Alighieri,
1929, pp. XXXIX-262, è stato recensito favorevolmente da Guido
De Ruggiero nella «Critica» del gennaio 1930 e invece con
molta cautela e in fondo sfavorevolmente da Mario de Bernardi nella
«Riforma Sociale» (vedere). Un capitolo del libro del
Ciccotti (forse l'introduzione generale) è stato pubblicato
nella «Rivista d'Italia» del 15 giugno-15 luglio 1927:
«Elementi di "verità" e di "certezza"
nella tradizione storica romana» e solo a questo capitolo qui
si accenna. Il Ciccotti esamina e combatte una serie di deformazioni
professionali della storiografia romana e molte sue osservazioni sono
giuste negativamente: è per le affermazioni positive che
sussistono dubbi e sono necessarie molte cautele. La recensione del
De Ruggiero è molto superficiale: egli giustifica il metodo
«analogico» del Ciccotti come un riconoscimento
dell'identità fondamentale dello spirito umano, ma cosí
si va molto lontano, fino alla giustificazione dell'evoluzionismo
volgare e delle leggi sociologiche astratte, che anch'esse, a loro
modo, si fondano, con un linguaggio particolare, sull'ipotesi
dell'identità fondamentale dello spirito umano.
Uno degli errori teorici
piú gravi del Ciccotti pare consista nell'interpretazione
sbagliata del principio vichiano che il «certo si converte nel
vero». La storia non può essere che certezza (con
l'approssimazione della ricerca della «certezza»). La
conversione del «certo» nel «vero» può
dar luogo a costruzioni filosofiche (della cosí detta storia
eterna) che non hanno che poco in comune con la storia «effettuale»:
ma la storia deve essere «effettuale » e non romanzata:
la sua certezza deve essere prima di tutto certezza dei documenti
storici (anche se la storia non si esaurisce tutta nei
documenti storici, la cui nozione d'altronde è talmente
complessa ed estesa, da poter dare luogo a concetti sempre nuovi sia
di certezza che di verità). La parte sofistica della
metodologia del Ciccotti appare molto chiara là dove egli
afferma che la storia è dramma, perché ciò non
vuol dire che ogni rappresentazione drammatica di un dato periodo
storico sia quella «effettuale», anche se viva,
artisticamente perfetta, ecc. Il sofisma del Ciccotti porta a dare un
valore eccessivo alla belletristica storica come reazione
all'erudizione pedantesca e petulante: dalle piccole «congetture»
filologiche si passa alle «grandiose» congetture
sociologiche, con poco guadagno per la storiografia.
In un esame della attività
storica del Ciccotti occorre tenere molto conto di questo libro. La
«filosofia della prassi» del Ciccotti è molto
superficiale: è la concezione di Guglielmo Ferrero e di C.
Barbagallo, cioè un aspetto della sociologia positivistica,
condita di qualche degnità vichiana. La metodologia del
Ciccotti ha dato luogo appunto alle storie tipo Ferrero e alle
curiose elucubrazioni del Barbagallo che finisce col perdere il
concetto di distinzione e di concretezza «individua» di
ogni momento dello sviluppo storico e con lo scoprire due originali
degnità: che «tutto il mondo è paese» e che
«piú tutto cambia e piú si rassomiglia».
Corrado Barbagallo.
Il suo libro L'oro e il fuoco deve essere esaminato, tenendo
conto del partito preso dell'autore di trovare nell'antichità
ciò che è essenzialmente moderno, come il capitalismo,
la grande industria e le manifestazioni che ad essi sono collegate.
Occorre specialmente esaminare le sue conclusioni a proposito delle
corporazioni professionali e delle loro funzioni, ponendole a
confronto con le ricerche degli studiosi del mondo classico e del
Medio Evo. Cfr. le conclusioni del Mommsen e del Marquardt a
proposito dei collegia opificum et artificum; per il Marquardt
essi erano istituzioni di carattere erariale e servivano all'economia
e alla finanza dello Stato in senso stretto e poco o punto
istituzioni sociali (cfr. il mir russo). A parte l'osservazione che
in ogni caso il sindacalismo moderno dovrebbe trovare corrispondenza
in istituzioni proprie degli schiavi del mondo classico. Ciò
che caratterizza, da questo punto di vista, il mondo moderno è
che al disotto dei proletari non c'è classe alla quale sia
proibito l'organizzarsi, come avveniva nel Medio Evo e anche nel
mondo classico con ogni probabilità; l'artigiano romano poteva
servirsi degli schiavi come lavoranti ed essi non appartenevano certo
ai collegia e non è escluso che, nella stessa plebe, qualche
categoria non servile fosse esclusa dall'organizzazione.
Quella del Barbagallo sul
capitalismo antico è una storia ipotetica, congetturale,
possibile, un abbozzo storico, uno schema sociologico, non una storia
certa e determinata. Gli storici come il Barbagallo cadono, mi pare,
in un errore filologico-critico molto curioso: che la storia antica
debba essere fatta sui documenti del tempo, su cui si fanno ipotesi
ecc., senza tener conto che tutto lo sviluppo storico susseguente è
un «documento» per la storia precedente ecc. Gli emigrati
inglesi nell'America del Nord hanno portato con loro l'esperienza
tecnico-economica dell'Inghilterra; come mai si sarebbe perduta
l'esperienza del capitalismo antico se questo fosse veramente
esistito nella misura in cui il Barbagallo lascia supporre o vuole
che si supponga?
Giuseppe Gallavresi,
Ippolito Taine storico della Rivoluzione francese, «Nuova
Antologia», 1° novembre 1928. Cabanis (Giorgio) 1750-1808,
sue teorie materialiste esposte nel libro dedicato allo studio dei
rapporti tra le physique et le moral. Il Manzoni ammirava
profondamente l'angélique Cabanis e anche quando si
convertí continuò ad ammirare questo suo libro. Il
Taine discepolo del Cabanis.
Il metodo induttivo e le
norme dell'osservazione presi a prestito dalle scienze naturali
dovevano portare il Taine, secondo il Gallavresi, alla conclusione
che la Rivoluzione francese sia stata una mostruosità, una
malattia. «La democrazia egualitaria è una mostruosità
alla luce delle leggi della natura; ma il fatto che è stata
concepita dall'uomo ed anche realizzata tratto tratto nella storia di
taluni popoli deve far riflettere gli spiriti piú riluttanti
ad accettare un regime pur cosí convenzionale».
(Interessanti questi concetti di «convenzionale», di
«artificiale», ecc., applicati a certe manifestazioni
storiche: «convenzionale» e «artificiale»
sono implicitamente contrapposti a «naturale», cioè
a uno schema «conservatore» veramente convenzionale e
artificiale perché la realtà lo ha distrutto: in verità
i peggiori «scientifisti» sono i reazionari che si
proiettano una «evoluzione» di proprio comodo e ammettono
l'importanza e l'efficacia dell'intervento della volontà umana
fortemente organizzata e concentrata, solo quando è
reazionaria, quando tende a restaurare ciò che è stato,
come se ciò che è stato ed è stato distrutto non
sia altrettanto «ideologico», «astratto»,
«convenzionale», ecc., di ciò che ancora non è
stato effettuato e anzi molto piú).
Questa quistione del Taine
e della Rivoluzione Francese deve essere studiata perché ha
avuto una certa importanza, nella storia della cultura del secolo
scorso: confronta i libri di Aulard contro Taine e le pubblicazioni
di Augustin Cochin su tutti e due. Questo articolo del Gallavresi è
molto superficiale. (Confronta anche il fatto per cui la letteratura
pamphletistica che precedette e accompagnò la Rivoluzione
Francese sembra stomachevole agli spiriti raffinati: ma la
letteratura gesuitica contro la Rivoluzione fu migliore o non fu
peggiore? La classe rivoluzionaria intellettualmente è sempre
debole da questo punto di vista: essa lotta per farsi una cultura ed
esprimere una classe colta consapevole e responsabile: di piú,
tutti i malcontenti e i falliti delle altre classi si buttano dalla
sua parte per rifarsi una posizione. Lo stesso non può dirsi
della vecchia classe conservatrice, anzi il contrario: eppure la sua
letteratura di propaganda è peggiore e piú demagogica,
ecc.).
La scienza della
politica e i positivisti. La politica non è che una
determinata «fenomenologia» della delinquenza, è
la «delinquenza settaria»: questo mi pare il succo del
libro di Scipio Sighele, Morale privata e Morale politica,
Nuova edizione de La delinquenza settaria riveduta ed
aumentata dall'autore, Milano, Treves, 1913 (con in appendice
riprodotto l'opuscolo Contro il parlamentarismo). Può
servire come «fonte» per vedere come i positivisti
intendevano la «politica», sebbene sia superficiale,
prolisso e sconnesso. La bibliografia è compilata senza
metodo, senza precisione e senza necessità (se un autore è
citato nel libro per un'affermazione incidentale, nella bibliografia
è riportato il libro da cui [è] presa la citazione). Il
libro può servire come elemento per comprendere i rapporti che
sono esistiti nel decennio 1890-1900 tra gli intellettuali socialisti
e i positivisti della scuola lombrosiana, ossessionati dal problema
della criminalità, tanto da farne una concezione del mondo o
quasi (cadevano in una strana forma di «moralismo»
astratto, poiché il bene e il male era qualcosa di
trascendente e di dogmatico, che in concreto coincideva con la morale
del «popolo», del «senso comune»). Il libro
del Sighele deve essere stato recensito da Guglielmo Ferrero, perché
nella bibliografia è citato un articolo del Ferrero Morale
individuale e morale politica nella «Riforma Sociale»,
anno I, n. XI-XII. Libro di Ferri: Socialismo e criminalità;
di Turati: Il delitto e la questione sociale. Vedere
bibliografia di Lombroso, Ferri, Garofalo (antisocialista), Ferrero,
e altri da ricercare.
L'opuscolo contro il
parlamentarismo è anch'esso superficialissimo e senza sugo:
può essere citato come una curiosità dati i tempi in
cui fu scritto: è tutto imperniato sul concetto che le grandi
assemblee, i collegi sono organismi tecnicamente inferiori al
comando unico o di pochi, come se questa fosse la quistione
principale. E pensare che il Sighele era un democratico e che appunto
per ciò si staccò a un certo punto dal movimento
nazionalista. In ogni caso forse è da collegare questo
opuscolo del Sighele alle concezioni «organiche» del
Comte.
La funzione degli
intellettuali. Sulla funzione degli intellettuali nello sviluppo
della vita politica, sui rapporti del popolo e degli intellettuali è
da vedere ciò che scrive il Gioberti specialmente nel
Rinnovamento. Il Gioberti non adopera il termine
«intellettuali» ma parla dell'«ingegno». È
da notare che il Gioberti distingue la democrazia dalla demagogia
appunto dalla funzione che nella democrazia ha l'«ingegno».
G. Gentile e la
filosofia della politica. Cfr. l'articolo pubblicato da G.
Gentile nello «Spectator» del 3 novembre 1928 e
ristampato nell'«Educazione fascista». «Filosofia
che non si pensa (!?), ma che si fa, e perciò si enuncia ed
afferma non con le formule ma con l'azione». Poiché da
quando esiste l'uomo, si è sempre «fatto», è
sempre esistita l'«azione», questa filosofia è
sempre esistita, è stata pertanto la filosofia di... Nitti e
di Giolitti. Ogni Stato ha «due filosofie»: quella che si
enuncia per formule ed è una semplice arte di governo, e
quella che si afferma con l'azione ed è la filosofia reale,
cioè la storia. Il problema è di vedere in che misura
queste due filosofie coincidono, divergono, sono in contrasto, sono
coerenti intimamente e tra loro. La «formula» gentiliana
non è, in realtà, che la mascheratura sofistica della
«filosofia» politica piú nota col nome di
«opportunismo» ed empirismo. Se Bouvard e Pécuchet
avessero conosciuto Gentile, avrebbero trovato nella sua filosofia la
giusta interpretazione della loro attività rinnovatrice e
rivoluzionaria (nel senso non corrotto della parola, come si dice).
Il genio nella storia.
Nello scritto inedito di Niccolò Tommaseo Pio IX e
Pellegrino Rossi pubblicato da Teresa Lodi nel «Pègaso»
dell'ottobre 1931 si legge a proposito di Pio IX (p. 407): «E
fosse stato anco un genio, gli conveniva trovare aiutatori ed
interpreti; perché l'uomo che sorge solo, solo si rimane, e
cade assai volte o deserto o calpesto. In ogni educazione e privata e
pubblica importa conoscere lo strumento che s'ha tra mani, e
chiedergli quel suono ch'ei può dare, e non altro; e prima
d'ogni cosa saperlo suonare». Dello stesso Tommaseo: «Io
non entro nelle cose private dell'uomo se non quanto aiutino a
spiegare le pubbliche»; la proposizione è giusta, anche
se il Tommaseo non vi si sia attenuto quasi mai.
Sul sentimento
nazionale. L'editore Grasset ha pubblicato un gruppo di Lettres
de jeunesse dell'allora capitano Lyautey. Le lettere sono del
1883 e il Lyautey era allora monarchico, devoto al conte di Chambord;
il Lyautey apparteneva alla grande borghesia che era strettamente
alleata all'aristocrazia. Piú tardi, morto il conte di
Chambord e dopo l'azione di Leone XIII per il ralliement, il
Lyautey si uní al movimento di Albert de Mun che seguí
le direttive di Leone XIII, e cosí divenne un alto funzionario
della Repubblica, conquistò il Marocco, ecc.
Il Lyautey era ed è
rimasto un nazionalista integrale, ma ecco come concepiva nell'83 la
solidarietà nazionale: a Roma aveva conosciuto il tedesco
conte von Dillen, capitano degli ulani, e cosí ne scrisse al
suo amico Antoine de Margerie: «Un gentleman, d'une éducation
parfaite, de façons charmantes, ayant en toutes choses,
religion, politique, toutes nos idées. Nous
parlons la même langue et nous nous entendons à
merveille. Que veux-tu? J'ai au coeur, une haine féroce, celle
du désordre, de la revolution. Je me sens, certes, plus près
de tous ceux qui la combattent, de quelque nationalité qu'ils
soient, que de tels de nos compatriotes avec qui je n'ai pas une idée
commune et que je regarde comme des ennemis publics».
I filosofi e la
Rivoluzione francese. Nello stesso zibaldone il Bonghi scrive di
aver letto un articolo di Carlo Louandre nella «Revue des deux
mondes» in cui si parla di un giornale (diario) di Barbier
allora pubblicato, che riguarda la società francese dal 1718
al 1762. Il Bonghi ne trae la conclusione che la società
francese di Luigi XV era peggiore per ogni parte di quella che seguí
la rivoluzione. Superstizione religiosa in forme morbose, mentre
l'incredulità cresceva nell'ombra. Il Louandre dimostra che i
«filosofi» dettero la teoria di una pratica già
fatta, non la fecero.
Giuseppe Ferrari, Corso
su gli scrittori politici italiani. Nuova edizione completa con
prefazione di A. O. Olivetti. 1928, Milano, Monanni, pp. 700, L. 25.
Centralismo organico
ecc. Lo Schneider cita queste parole di Foch: «Commander
n'est rien. Ce qu'il faut, c'est bien comprendre
ceux avec qui on a affaire et bien se faire comprendre d'eux. Le bien
comprendre, c'est tout le secret de la vie...». Tendenza
a separare il «comando» da ogni altro elemento e a farne
un «toccasana» di nuovo genere. E ancora occorre
distinguere tra il «comando» espressione di diversi
gruppi sociali: da gruppo a gruppo l'arte del comando e il suo modo
di esplicarsi muta di molto, ecc. Il centralismo organico, col
comando caporalesco e «astrattamente» concepito, è
legato a una concezione meccanica della storia e del movimento, ecc.
Italo Chittaro, La
capacità di comando, Casa Editrice De Alberti, Roma. Da
una recensione di V. Varanini nella «Fiera Letteraria»
del 4 novembre 1928 pare che nel libro del Chittaro sono contenuti
spunti molto interessanti anche per la scienza politica. Necessità
degli studi storici per la preparazione professionale degli
ufficiali. Per comandare non basta il semplice buon senso: questo, se
mai, è il frutto di un profondo sapere e di lungo esercizio.
La capacità di comando è specialmente importante per la
fanteria: se nelle altre armi si diventa specialisti di compiti
particolari, nella fanteria si diventa specialisti nel comando, cioè
del compito di insieme: necessità quindi che tutti gli
ufficiali destinati a gradi elevati abbiano tenuto comandi di
fanteria (cioè prima di essere capaci a ordinare le «cose»
occorre essere capaci a ordinare e guidare gli uomini). Considera
infine la necessità della formazione di uno Stato Maggiore
numeroso, valido, popolare tra le truppe.
Scritto dal (generale)
Luigi Bongiovanni nella «Nuova Antologia» del 16 gennaio
1934 (La Marna: giudizi in contrasto): «La guerra nel
suo duro realismo avanza solo per via di fatti. Ciò che
importa è vincere. La vittoria non si misura a sacrifici, ma a
risultati. Di piú, la vittoria è sempre l'effetto di
una superiorità: anzi, ne è la innegabile
constatazione. Quando costa poco sangue, vuol dire che la superiorità
era insita in uno dei due contendenti, per effetto di eventi
anteriori».
Carlo Flumiani, I gruppi
sociali. Fondamenti di scienza politica, Milano, Istituto
Editoriale Scientifico, 1928, pp. 126, L. 20. (Procurarsi il catalogo
di questa casa che ha stampato altri libri di scienza politica).
Rapporti tra città
e campagna. Per avere dei dati sui rapporti tra le nazioni
industriali e quelle agrarie e quindi spunti per la quistione della
situazione di semicolonie dei paesi agrari (e delle colonie interne
nei paesi capitalistici) è da vedere il libro del Mihail
Manoilesco, La teoria del protezionismo e dello scambio
internazionale, Milano, Treves, 1931. Il Manoilesco scrive che
«il prodotto del lavoro di un operaio industriale è in
generale sempre scambiato con il prodotto del lavoro di parecchi
operai agricoli, in media uno contro cinque». Perciò il
Manoilesco parla di uno «sfruttamento invisibile» dei
paesi industriali sui paesi agricoli. Il Manoilesco è attuale
governatore della Banca nazionale rumena e il suo libro esprime le
tendenze ultraprotezioniste della borghesia rumena.
Vittorio Giglio, Milizie
ed eserciti d'Italia, in 8°, 404 pp., illustr., L. 80, C. E.
Ceschina (Dall'epoca romana alle milizie comunali, all'esercito
piemontese, alla M.V.S.N.). Cercare come mai nel '48 in Piemonte non
esistesse nessun capo militare e sia stato necessario ricorrere a un
generale polacco. Nel Quattrocento-Cinquecento e anche dopo,
buonissimi capitani (condottieri, ecc.), sviluppo notevole della
tattica e strategia, eppure impossibilità di creare esercito
nazionale, per il distacco tra il popolo e le classi alte.
Su Quintino Sella, cfr.
nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927: P.
Boselli, Roma e Quintino Sella; Alberto De Stefani, Quintino
Sella (1827-1884) ; Bruno Minoletti, Quintino Sella
storico, archeologo e paleografo.
Storia del dopoguerra.
Vedi l'articolo di Giovanni Marietti, Il trattato di Versailles e
la sua esecuzione, nei fascicoli del 16 settembre e 16 ottobre
1929 della «Nuova Antologia». È un riassunto
diligente dei principali avvenimenti legati all'esecuzione del
trattato di Versailles, una trama schematica che può essere
utile come inizio di una ricostruzione analitica o per fissare le
concordanze internazionali agli avvenimenti interni dei vari paesi.
Roberto Michels.
Nell'articolo Il pangermanismo coloniale tra le cause del
conflitto mondiale di Alberto Giaccardi («Nuova Antologia»,
16 maggio 1930), a p. 238 è scritto: «Il "posto al
sole" reclamato dalla Germania cominciò troppo presto a
diventare di una tale ampiezza, che avrebbe ridotto tutti gli altri
all'ombra o quasi: perfino al popolo italiano, la cui situazione era
analoga a quella del popolo tedesco, un dotto germanico, Roberto
Michels, negava il diritto di esigere colonie, perché
"l'Italia, pur essendo demograficamente forte, è povera
di capitali"». Il Giaccardi non dà il riferimento
bibliografico dell'espressione del Michels.
Nel fascicolo del 1°
luglio successivo il Giaccardi pubblica una «rettifica»
della sua affermazione, evidentemente per impulso del Michels;
ricorda: L'Imperialismo italiano del Michels (Milano, 1914,
Società editrice libraria) e del 1912 gli Elemente zur
Entstehungsgeschichte des Imperialismus in Italien, nell'«Archiv
für Sozialwissenschaft», gennaio-febbraio 1912, pp. 91-92,
e conclude: «Il che corrisponde perfettamente ai sentimenti di
italianità costantemente (!) dimostrati dall'illustre
professore dell'Ateneo perugino, che, sebbene renano d'origine, ha
scelto l'Italia come sua Patria di adozione, svolgendo in ogni
occasione una intensa ed efficace attività in nostro favore».
Cultura italiana.
Vedere l'attività culturale delle «Edizioni Doxa»
di Roma: mi pare sia di tendenze protestanti. Cosí l'attività
di «Bilychnis». Cosí bisognerà farsi una
nozione esatta dell'attività intellettuale degli ebrei
italiani in quanto organizzata e centralizzata: periodici come il
«Vessillo Israelitico» e «Israel»,
pubblicazioni di case editrici specializzate, ecc.: centri di cultura
piú importanti. In che cosa il nuovo movimento sionista nato
dopo la dichiarazione Balfour ha influito sugli ebrei italiani?
Francia.
André Siegfried, Tableau des
Partis en France, Paris, Grasset, 1930.
Alfredo Oriani. È
interessante una nota di Piero Zama, Alfredo Orfani candidato
politico, nella «Nuova Antologia» del 16 novembre
1928.
R. Garofalo, Criminalità
e amnistia in Italia, «Nuova Antologia» del 1°
maggio 1928. Per la figura del Garofalo.
E. De Cillis, Gli
aspetti e le soluzioni del problema della colonizzazione agraria in
Tripolitania, «Nuova Antologia», 1° luglio 1928.
Vedere la letteratura in proposito e seguire le pubblicazioni del De
Cillis. L'articolo è interessante perché realistico.
Gaspare Ambrosini, La
situazione della Palestina e gli interessi dell'Italia, «Nuova
Antologia» del 16 giugno 1930. (Indicazioni bibliografiche
sulla quistione).
Andrea Torre, Il
principe di Bülow e la politica mondiale germanica, «Nuova
Antologia», 1° dicembre 1929 (scritto in occasione della
morte del Bülow e in base al libro dello stesso Bülow,
Germania imperiale: è interessante e
sobrio).
Stresemann. Cfr.
nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1929 l'articolo
di Francesco Tommasini, Il pensiero e l'opera di Gustavo
Stresemann, interessante per studiare la Germania del dopoguerra
e il mutamento nella psicologia dei nazionalisti borghesi e piccolo
borghesi.
Nazionalizzazioni e
statizzazioni. Cfr. M. Saitzew, Die
öffentliche Unternehmung der Gegenwart,
Tübingen, Mohor, 1930, RM. 3,40. Il Saitzew è
professore dell'Università di Zurigo. Secondo il Saitzew
l'area d'azione delle imprese pubbliche, specialmente in certi rami,
è molto maggiore di ciò che si crede; in Germania il
capitale delle imprese pubbliche sarebbe un quinto dell'intera
ricchezza nazionale (durante la guerra e l'immediato dopoguerra
l'impresa pubblica si è dilatata). Il Saitzew non crede che le
imprese pubbliche siano una forma di socialismo, ma crede siano parte
integrante del capitalismo. Le obbiezioni contro l'impresa pubblica
potrebbero farsi anche per le società anonime; si ripetono
argomenti che erano buoni quando le imprese private erano
individuali, eppure le anonime sono oggi prevalenti ecc.
Sarà utile il
volumetto per vedere l'estensione che ha avuto l'impresa pubblica in
alcuni paesi: il carattere dell'impresa pubblica non sarebbe, secondo
il Saitzew, quello di avere come scopo principale il reddito fiscale,
ma quello di impedire che in certi rami, in cui la concorrenza è
tecnicamente impossibile, si stabilisca un monopolio privato
pericoloso per la collettività.
La battaglia dello
Jütland. È da rivedere la descrizione della battaglia
dello Jütland fatta da Winston Churchill nelle sue memorie di
guerra. Appare da essa come il piano e la direzione strategica della
battaglia da parte del comando inglese e di quello tedesco siano in
contrasto con la raffigurazione tradizionale del carattere dei due
popoli. Il comando inglese aveva centralizzato «organicamente»
l'esecuzione del piano nella nave ammiraglia: le unità della
flotta dovevano «attendere ordini» volta per volta. Il
comando tedesco invece aveva spiegato a tutti i comandi subalterni il
piano strategico generale e aveva lasciato alle singole unità
quella certa libertà di manovra che le circostanze potevano
richiedere. La flotta tedesca si comportò molto bene. La
flotta inglese invece fu impacciata, corse molti rischi, ebbe gravi
perdite, e nonostante la sua superiorità, non poté
conseguire fini strategici positivi: a un certo punto l'ammiraglio
perdette le comunicazioni con le unità combattenti e queste
commisero errori su errori. (Sulla battaglia dello Jütland ha
scritto un libro Epicarmo Corbino).
Argus, Il disarmo
navale, i sottomarini e gli aeroplani, «Nuova Antologia»,
16 novembre 1929. Brevi cenni alle prime trattative tra Stati Uniti e
Inghilterra per il disarmo e la parità navale. Accenna anche
rapidamente all'innovazione che nell'armamento navale è
portata dal sottomarino e dall'aeroplano, che, con costi
relativamente bassi, possono dare risultati molto rilevanti, e alla
sempre maggiore inutilità delle grandi corazzate.
Oscar di Giamberardino,
Linee generali della politica marittima dell'Impero britannico,
«Nuova Antologia», 16 settembre 1928. Utile.
Istituzioni
internazionali. La Camera di Commercio Internazionale. (Un
articolo sul IV Congresso della Camera di Commercio Internazionale
tenuto a Stoccolma nel giugno-luglio 1927 è nella «Nuova
Antologia» del 16 settembre 1927).
G. B., La Banca dei
regolamenti internazionali, «Nuova Antologia», 16
novembre 1929.
Luigi Villari,
L'agricoltura in Inghilterra, «Nuova Antologia»,
1° settembre 1930. Interessante.
Alfonso de Pietri-Tonelli,
Wall Street, «Nuova Antologia» del 1° dicembre
1929 (commenta in termini molto generali la crisi di borsa americana
della fine del '29: bisognerà rivederlo per studiare
l'organizzazione finanziaria americana).
La Geopolitica. Già
prima della guerra Rodolfo Kjellén, sociologo svedese, cercò
di costruire su nuove basi una scienza dello Stato o Politica,
partendo dallo studio del territorio organizzato politicamente
(sviluppo delle scienze geografiche: geografia fisica, geografia
antropica, geopolitica) e della massa di uomini viventi in società
in quel territorio (geopolitica e demopolitica). I suoi libri,
specialmente i due: Lo Stato come forma di vita e Le grandi
potenze attuali (Die Grossmächte der Gegenwart, del
1912, rielaborato dall'autore, divenne Die Grossmächte und
die Weltkrise, pubblicato nel 1921; il Kjellén [è]
morto nel 1922) ebbero grande diffusione in Germania dando luogo a
una corrente di studi. Esiste una «Zeitschrift für
Geopolitik»; e appaiono opere voluminose di geografia politica
(una di esse, Weltpolitisches, Handbuch, vuol essere un
manuale per gli uomini di Stato) e di geografia economica. In
Inghilterra e in America e in Francia.
Olii, petrolii e
benzine, di Manfredi Gravina nella «Nuova Antologia»
del 16 dicembre 1927 (l'articolo continua nella «Nuova
Antologia» del 1° gennaio 1928 ed è interessante per
avere un accenno generale al problema del petrolio). L'articolo è
un riassunto delle recenti pubblicazioni sul problema del petrolio.
Estraggo qualche notizia bibliografica e qualche osservazione: Karl
Hoffmann, Oelpolitik und angelsächsischer Imperialismus
(Ring-Verlag, Berlino, 1927) che il Gravina dice lavoro
magistrale, un compendio eccellente dei grandi problemi petrolieri
del mondo ed indispensabile per chi voglia, sulla scorta di dati
precisi, approfondirne lo studio (con la riserva che vede troppo
«petrolio» in ogni atto internazionale). Il «Federal
Oil Conservation Board» formato in America nel 1924 con la
missione di studiare ogni mezzo atto a razionalizzare l'eccessivo
sfruttamento del patrimonio petrolifero americano ed assicurargli il
massimo e il migliore rendimento (lo Hoffmann definisce questo
Ufficio «grandioso ente di preparazione industriale alla
eventuale guerra del Pacifico»). In questo Board il senatore
Hughes, già ministro degli affari Esteri, rappresenta gli
interessi diretti di due Società del gruppo Standard (la
«Standard» di New York e la «Vacuum Oil»). Lo
«Standard Oil Trust» costituito nel 1882 da John D.
Rockefeller dovette adattarsi alle leggi contro i trusts. La
«Standard» di New Jersey è considerata tuttora
come una vera e propria centrale della attività petrolifera
della Casa Rockefeller: essa controlla il 20-25% della produzione
mondiale, il 40-45% delle raffinerie, il 50-60% delle condutture dai
pozzi alle stazioni di avviamento. Accanto alla Standard e società
affiliate sono sorte altre imprese, fra cui da ricordare i cosí
detti Big Independents.
La «Standard» è
collegata con il Consorzio Harriman (trasporti ferroviari e
marittimi, 8 società di navigazione) e col gruppo bancario
Kuhn Loeb & Co. di New York, del quale è a capo Otto Kahn.
Nel campo inglese i due gruppi piú importanti sono la «Shell
Royal-Dutch» e l'«Anglo-Persian Burmah». Direttore
generale della «Shell» è l'olandese sir Henry
Deterding. La Shell è asservita all'Impero Inglese nonostante
i grandi interessi finanziari e politici dell'Olanda.
L'«Anglo-Persian Burmah» può
considerarsi governativa britannica e piú specialmente
dell'Ammiragliato che vi è rappresentato da tre fiduciari.
Presidente dell'«Anglo-Persian» è sir Charles
Greenway, coadiuvato da un consulente tecnico, sir John Cadman, che
durante la guerra fu a capo del servizio governativo dei petroli.
Greenway, Cadman, Deterding e i fratelli Samuel (fondatori della
«Shell» inglese poi fusasi colla «Royal-Dutch»)
sono considerati di fatto i dirigenti della politica petroliera
inglese.
Domenico Meneghini,
Industrie chimiche italiane, «Nuova Antologia», 16
giugno 1929.
Claudio Faina, Foreste,
combustibili e carburante nazionale, «Nuova Antologia»
del 1° maggio 1928. Interessante. Dimostra che la selvicultura
italiana, se coltivata e sfruttata industrialmente, può
aumentare di molto il suo rendimento e dare sottoprodotti numerosi.
(In questo articolo del Faina, che è il figlio del senatore
Eugenio Faina, relatore dell'inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno e
che si occupa assiduamente di attività organizzative e
propagandistiche di carattere agrario – scuole rurali istituite
dal padre nell'Umbria, ecc. – si accenna a un disboscamento
intensivo e irrazionale nella montagna della Sardegna meridionale per
vendere carbone alla Spagna. Ricordare questo accenno alla Sardegna).
Claudio Faina, Il
carburante nazionale, «Nuova Antologia» del 16 aprile
1929 (continua l'articolo dello stesso Faina pubblicato
precedentemente dalla «Nuova Antologia» e rubricato
altrove).
Carlo Schanzer, Sovranità
e giustizia nei rapporti fra gli Stati, «Nuova Antologia»,
1° novembre 1929. Moderato nella forma e nella sostanza. Può
essere preso come documento dell'atteggiamento ufficioso del Governo
verso la Società delle Nazioni e i problemi di politica
internazionale che le sono connessi.
Giorgio Mortara, Natalità
e urbanesimo in Italia, «Nuova Antologia», 16 giugno
- 1° luglio 1929.
Tratta le quistioni piú
strettamente statistiche, osservando una grande cautela nel dare
giudizi, specialmente di portata piú immediata. Il numero
annuo dei nati vivi in Italia è andato aumentando, attraverso
oscillazioni, nel primo quarto di secolo successivo all'unità
nazionale (massimo di 1.152.906 nel 1887), ha declinato gradualmente
fino a un minimo di 1.042.090 nel 1903, è risalito ad un
massimo secondario di 1.144.410 nel 1910 e si è mantenuto
negli anni prima della guerra a 1.100.000. Nel 1920 (molte nozze dopo
l'armistizio) si ha il massimo assoluto di 1.158.041, che scende
rapidamente a 1.054.082 nel 1927, e circa 1.040.000 nel 1928
(territorio antebellico; nei nuovi confini 1.093.054 nel '27, e
1.077.000 nel '28), cifra la piú bassa negli ultimi 48 anni.
In altri paesi la diminuzione assai maggiore. Diminuzione correlativa
nelle morti: da un massimo di 869.992 nel 1880 ad un minimo di
635.788 nel 1912, diminuzione che, dopo il periodo bellico, con
1.240.425 morti nel '18, è ricominciata: nel 1927 solo 611.362
morti, nel 1928 614 mila (vecchi confini; nei nuovi confini, 635.996
morti nel '27 e 639.000 nel '28). Cosí l'eccedenza dei nati
sui morti nel 1928 è stata di 426.000 circa (nuovi confini
438.000) cioè piú favorevole che nel 1887, in cui solo
323.914, per l'alta percentuale di morti. Il massimo di eccedenza,
448 mila circa, si è avuto nel quinquennio 1910-14. (Si può
dire, approssimativamente, che in un certo periodo storico, il grado
di benessere di un popolo non può desumersi dal numero alto
delle nascite, ma piuttosto dalla percentuale dei morti e
dall'eccedenza dei nati sui morti: ma anche in questa fase storica
incidono delle variabili che devono essere analizzate, infatti, piú
che di benessere popolare assoluto può parlarsi di migliore
organizzazione statale e sociale per l'igiene, ciò che
impedisce a una epidemia, per esempio, di diffondersi tra una
popolazione a basso livello, decimandola, ma non eleva per nulla
questo livello stesso, se non si può dire che lo mantenga
addirittura, evitando la sparizione dei piú deboli e
improduttivi che vivono sul sacrificio degli altri).
Le cifre assolute delle
nascite e delle morti danno solo l'incremento assoluto della
popolazione. L'intensità dell'incremento è data dal
rapporto di questo incremento col numero degli abitanti. Da 39,3 per
1.000 abitanti del 1876 la frequenza delle nascite scende a 26 nel
1928, con una diminuzione del 33%; la frequenza delle morti da 34,2%
nel 1867 scende a 15,6 nel '28, con una diminuzione del 54%. La
mortalità comincia a discendere nettamente col quinquennio
1876-80; la natalità inizia la discesa nel quinquennio '91-95.
Per gli altri paesi
d'Europa, su 1.000 abitanti: Gran Bretagna 17 nati - 12,5 morti,
Francia 18,2 - 16,6, Germania 18,4 - 12, Italia 26,9 - 15,7, Spagna
28,6 - 18,9, Polonia 31,6 - 17,4, Urss (europea) 44,9 - 24,4,
Giappone 36,2 - 19,2. (I dati si riferiscono, per l'Urss, al 1925,
per il Giappone al 1926, per gli altri paesi al 1927).
Per la diminuzione della
mortalità il Mortara fissa tre cause principali: progresso
dell'igiene, progresso della medicina, progresso del benessere, che
riassumono in forma schematica un gran numero di fattori di minore
mortalità (un fattore è anche la minore natalità,
in quanto le età infantili sono soggette ad alta mortalità).
Il fattore preponderante della bassa natalità è la
decrescente fecondità di matrimoni, dovuta a volontaria
limitazione, inizialmente per previdenza, poi per egoismo. Se il
movimento si svolgesse uniformemente in tutto il mondo, non
altererebbe le condizioni relative delle varie nazioni, pur avendo
effetti gravi per lo spirito d'iniziativa, e potendo essere causa
d'inerzia e di regresso morale ed economico. Ma il movimento non è
uniforme: vi sono oggi popoli che si accrescono rapidamente mentre
altri lentamente, vi saranno domani popoli che cresceranno celermente
mentre altri diminuiranno.
Già oggi in Francia
l'equilibrio tra nascite e morti è faticosamente mantenuto
coll'immigrazione, che determina altri gravi problemi morali e
politici: in Francia la situazione è aggravata dalla
relativamente alta percentuale di mortalità in confronto
dell'Inghilterra e della Germania.
Calcolo regionale per il
1926: Piemonte (proporzione per 1.000 abitanti, nati e morti)
17,7-15,4, Liguria 17,1-13,8, Lombardia 25,1-17,9, Venezia Tridentina
25,0-17,5, Venezia Euganea 29,3-15,3, Venezia Giulia 22,8-16,1,
Emilia 25,0-15,3, Toscana 22,2-14,3, Marche 28,0-15,7, Umbria
28,4-16,5, Lazio 28,1-16,3, Abruzzi 32,1-18,9, Campania 32,0-18,3,
Puglie 34,0-20,8, Basilicata 36,6-23,1, Calabria 32,5-17,3, Sicilia
26,7-15,7, Sardegna 31,7-18,9. Prevalgono i livelli medi, ma con
tendenza piuttosto verso il basso che verso l'alto.
Per il Mortara la causa
della denatalità è da ricercarsi nella limitazione
volontaria. Altri elementi possono contribuirvi saltuariamente, ma
sono trascurabili (emigrazione degli uomini). C'è stato un
«contagio» della Francia nel Piemonte e in Liguria, dove
il fenomeno è piú grave (emigrazione temporanea ha
servito di veicolo) e di piú lontana origine, ma non si può
parlare di contagio «francese» per la Sicilia, che nel
Mezzogiorno è un focolaio di denatalità. Non mancano
indizi di limitazione volontaria in tutto il Mezzogiorno. Campagna e
città: la città [ha] meno nascite che la campagna.
Torino, Genova, Milano, Bologna, Firenze hanno (nel 1926) una media
di natalità inferiore a Parigi.
Sull'emigrazione
italiana. Articolo di Luigi Villari nella «Nuova Antologia»
del 16 febbraio 1928: L'emigrazione italiana vista dagli
stranieri. Sull'emigrazione il Villari ha scritto parecchio:
vedere.. (In questo articolo recensisce alcuni libri americani,
inglesi e francesi che parlano dell'emigrazione italiana).
Italia e Palestina.
Confrontare nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1929
l'articolo La riforma del mandato sulla Palestina, di Romolo
Tritonj. Vi si espone il programma minimo italiano, cioè
l'internazionalizzazione della Palestina, secondo il progetto
concordato durante la guerra fra le potenze dell'Intesa e abbandonato
da Francia e Inghilterra dopo la caduta dello zarismo in Russia,
lasciando l'Italia in asso, poiché la Francia ebbe la Siria e
l'Inghilterra la Palestina stessa. L'articolo è moderato in
generale, ma accanito contro il sionismo. Si dovrà rivedere
per ricostruire la politica italiana in Oriente (nel prossimo
Oriente).
Sulla finanza dello
Stato. Le riforme del Tesoro, di «Alacer»,
nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1928. Integra
l'articolo di Tittoni del giugno '27: da tener presente per seguire
tutte le varie fasi della lotta sorda che gli elementi conservatori
conducono intorno alla politica finanziaria.
Articolo «Problemi
finanziari» firmato Verax (Tittoni) nella
«Nuova Antologia» del 1° giugno
1927. Nella «Nuova Antologia» del 1925 (16 maggio),
Tittoni aveva pubblicato un articolo, I problemi finanziari
dell'ora, nel quale trattava questi punti: equilibrio del
bilancio; economie; perequazione del sistema tributario; mania
spendereccia e tassatrice degli enti locali; circolazione monetaria e
suoi problemi: deflazione; stabilizzazione; debiti interalleati;
regime bancario; ordinamento delle società anonime; difesa del
risparmio nazionale.
Equilibrio del bilancio
raggiunto; le confusioni, sperequazioni e duplicazioni del
sistema tributario eliminate con la riforma De Stefani; i debiti
interalleati regolati dal Volpi, il quale ha preso provvedimento per
la rapida liquidazione della sezione autonoma del Consorzio
valori, per l'unificazione dell'emissione, per il trasferimento
delle operazioni di cambio all'Istituto dei cambi sotto il patronato
della Banca d'Italia, per la vigilanza in difesa del risparmio
nazionale: discorso di Pesaro per la politica monetaria.
Nuovi problemi, attuali:
consolidamento del pareggio del bilancio; freno alle crescenti spese;
sano impiego delle eccedenze di bilancio; condizioni della tesoreria;
necessità di un ammortamento graduale e continuativo del
debito pubblico; i prestiti esteri e il miglioramento dei cambi; la
difesa della riforma tributaria da iniziate deviazioni; eliminazione
di ogni inutile fiscalismo.
L'esercizio '25-26 chiuso
con un avanzo di competenza di 2.268 milioni ridotto con due
regi decreti a 468 milioni. Ma occorre esaminare l'esercizio '25-26
considerando 1) le maggiori spese sopravvenute durante l'esercizio;
2) quelle deliberate dopo chiuso l'esercizio, ma attribuite a questo;
3) rapporti tra le risultanze del bilancio di competenza ed il conto
di cassa; 4) i conti fuori bilancio. Durante l'esercizio '25-26
furono deliberate maggiori spese, oltre quelle preventivate in
bilancio, per 3.605 milioni e, chiuso l'esercizio, con due regi
decreti (ricordati) furono deliberate 1.800 milioni di nuove spese,
addebitate all'esercizio stesso mediante iscrizione nel bilancio
delle finanze di un capitolo aggiunto. Senza tener conto del
movimento dei capitali e delle spese per le PP. e TT. che dal
bilancio generale sono state trasferite in quello speciale
dell'azienda autonoma, e detratti 247 milioni di economie realizzate
durante l'esercizio, si ha, malgrado la diminuzione delle spese
residuali della guerra, un aumento di 4.158 milioni di spesa sui
17.217 preventivati (aumento del 24%). Ma anche le entrate,
preventivate in 17.394 milioni, salirono a 21.043 milioni, e perciò
avanzo di 468 milioni.
È necessario un piú
rigoroso e completo accertamento delle spese, i risultati
dell'esercizio devono allontanarsi il meno possibile dalle
previsioni, altrimenti il bilancio preventivo diverrebbe inutile, e
per una ragione psicologica (!), perché l'annunzio di
grandi avanzi incita alle spese. Un insigne economista, R. C.
Adams, è giunto a dire che preferisce un bilancio presentato
con un lievissimo disavanzo a quello presentato con un eccessivo
avanzo poiché il primo incita alle economie, il secondo
sospinge alle prodigalità («e a imporre nuove tasse se
successivamente l'avanzo è in pericolo sul nuovo piano di
spese»; A. G.). Questi avanzi sono fondati su incrementi di
entrate che non sono necessariamente continuativi. L'avanzo di un
bilancio di competenza può non coincidere con una cassa
egualmente florida. «Perciò a situazioni di bilancio
eccellenti possono corrispondere situazioni di cassa richiedenti
provvedimenti eccezionali come quelli adottati dal Governo Nazionale
nello scorso autunno». Politica di economie. Se non
riduzione delle spese, desiderabile almeno freno alle nuove spese.
Bilancio italiano non è
un conto di fatto, di tipo inglese, che registra incassi e
spese effettivamente avvenuti, ma un conto di diritto, di tipo
francese, comprendente da una parte le entrate accertate e scadute,
da un'altra parte le spese ordinate, liquidate ed impegnate nei modi
prescritti dalla legge. Il bilancio di competenza, a quelli che non
sanno leggerlo, non dà una chiara visione della situazione
finanziaria del paese. L'inconveniente maggiore del bilancio di
competenza è nel fatto che nessun esercizio si esaurisce in
sé; esso lascia sempre dei residui attivi e passivi, in modo
che alla gestione del bilancio proprio dell'esercizio si aggiunge
quella dei residui attivi e passivi dei precedenti esercizi che la
cassa va a sopportare. Ne deriva pertanto che aumentando le spese di
competenza si è normalmente avuto un aumento di residui,
specialmente di residui passivi che malamente si contrappongono
agli attivi e la maturazione dei quali può depauperare la
cassa al di là del prevedibile. I residui passivi mal si
contrappongono agli attivi perché questi, dati i nostri
congegni di esazione, non possono essere e non sono di un ammontare
ragguardevole per la parte effettiva, la sola che costituisce una
vera entrata, giacché i residui attivi per movimenti di
capitale rappresentano prestiti da contrarsi o da collocarsi.
Costituirebbe quindi un grave errore il valutare alla stessa stregua
i residui attivi e passivi circa la possibilità di
trasformarsi rispettivamente in incassi e pagamenti. A questo si
aggiunge una consuetudine che ormai comincia a trovare larga
applicazione: l'art. 154 del regolamento per l'amministrazione del
patrimonio e per la contabilità di Stato stabilisce che in
nessun caso si possa iscrivere fra i residui degli anni decorsi
alcuna somma in entrata o in spesa che non sia stata compresa fra la
competenza degli esercizi anteriori; ma purtroppo la parola della
legge non vieta che per lo stesso esercizio si cancelli la
iscrizione di un capitolo per aumentarne un altro: cosí è,
ad esempio, quando tra i residui passivi si trova iscritta una somma
che presumibilmente non sarà spesa e che non traducendosi
quindi in un pagamento sarebbe passata in economia, e viceversa si
viene ad aumentare un altro capitolo di spesa, sempre dei residui, e,
s'intende, dello stesso esercizio, spesa che sarà realmente
effettuata e si tradurrà in un pagamento. Cosí la
contabilità è salva, l'ammontare di residui passivi non
viene aumentato, ma le condizioni della cassa vengono peggiorate. La
gestione dei residui, e in special modo il saldo dei residui, va
tenuto in seria considerazione, tanto piú che esso è in
continuo aumento, ed infatti la differenza passiva dei residui
era al 30 giugno 1926 di 10.513 milioni contro 9.442 milioni al 30
giugno 1925.
Francia, Belgio, Italia.
I tre paesi, dopo aver assicurato l'equilibrio del bilancio,
dovettero fronteggiare una crisi di Tesoreria; il deficit,
cioè, non era scomparso, ma passando dal bilancio alla
tesoreria si era semplicemente spostato. Si è dovuto correre
ai ripari procurando di eliminare anzitutto il pericolo del debito
fluttuante, divenuto enorme dopo la guerra, poiché le
Tesorerie si trasformarono di fatto in Banche di deposito. («Questo
è un paragone capzioso: non si trasformarono per nulla in
Banche di deposito, ma commisero una truffa in grande stile, perché
le somme incassate furono spese come entrate ordinarie di bilancio,
senza che i futuri bilanci potessero prevedersi talmente
incrementabili da assicurare la restituzione delle somme alla data
fissata: si rastrellò il risparmio diffuso, sotto la pressione
del pericolo nazionale, per esonerare da aggravi la ricchezza
imponibile; fu una decimazione larvata del capitale, ma di quello
delle classi medie, per non decimare apertamente e realmente il
capitale delle classi alte dei maggiori detentori di ricchezza: il
confronto tra paesi latini e paesi anglosassoni mette piú in
rilievo questa truffa colossale, che si è risolta in parte con
l'inflazione e in parte con colpi di Stato»). Il primo progetto
di stabilizzazione del franco belga del ministro Jansens fallí
in gran parte per aver omesso la sistemazione preventiva del debito
fluttuante. La Francia provvide al debito fluttuante con la
creazione di una cassa autonoma di consolidamento ed ammortamento. A
questa cassa furono destinati i proventi di alcune tasse e quelli
della gestione dei tabacchi, in tutto 3.700 milioni di franchi
all'anno. Il pagamento di queste tasse può farsi con titoli di
Stato, che vengono annullati: colla diminuzione dei titoli diminuisce
l'interesse e la differenza disponibile va ad aumentare il fondo di
ammortamento. Per un emendamento al progetto primitivo del governo
l'ammortamento fu esteso a tutto il debito pubblico («cioè
fu prolungata l'esistenza presumibile della Cassa»). Cosí
in Francia si ottenne non solo di arrestare la ressa dei rimborsi, ma
si ottennero nuove sottoscrizioni: il Tesoro fu rinsanguato; coi
mezzi ordinari di Tesoreria poté procurarsi 14 miliardi, di
cui 9 furono rimborsati alla Banca di Francia e 5 per acquisto di
divise estere. Belgio: si procedette ad una conversione
semicoattiva. Ai portatori dei buoni fu posta l'alternativa: o
consentire il cambio dei buoni con azioni della società
nazionale delle ferrovie belghe costituite dallo Stato, o farli
stampigliare. I buoni dati in cambio delle azioni ferroviarie, i 3/4,
furono distrutti; gli altri furono convertiti in nuovi buoni
coll'interesse ridotto dal 7 al 5% e col rimborso subordinato non a
scadenza fissa ma alle disponibilità avvenire del bilancio.
Italia: conversione obbligatoria dei buoni del Tesoro in
titoli del debito consolidato, con un premio ai portatori che ha
aumentato il debito pubblico di circa 3 miliardi. «Non è
il caso di discutere teoricamente quest'operazione che in fatto era
inevitabile». Un recentissimo comunicato ai giornali,
illustrando il conto del Tesoro a fine marzo, segnala l'esistenza di
un fondo di cassa, al 31 marzo (1927) di 2.311 milioni. La cifra
«lascia fredda una parte dell'opinione pubblica, la quale non
riesce a vedere come sí floride condizioni di cassa e di
bilancio si concilino con la recente necessità di assai
drastici provvedimenti, che investirono una parte cospicua della
popolazione e toccarono a fondo molte private economie». La
cassa del Tesoro può presentare un'apparente floridezza ed una
reale penuria. Ciò rilevò già la Commissione di
finanza del Senato, il cui relatore, on. Mayer, nella sua relazione
sugli stati di previsione del Ministero delle Finanze e del Bilancio
dell'entrata pel 1926-27, constatava che, mentre dai conti mensili
del Tesoro risultavano disponibilità cospicue di cassa (al 31
marzo 1926 quasi 4 miliardi) risultava anche l'aumento dei debiti
pubblici per oltre 1.800 milioni. Ciò avviene perché il
fondo di cassa esposto nella accennata cifra di 2.311 milioni non
rappresenta tutto danaro di cui il Tesoro possa effettivamente
disporre come contante. Cosí nei 2.311 milioni è
inclusa la somma di 1.554 milioni attribuita alle «contabilità
speciali» le quali comprendono numerose assegnazioni fatte ad
enti come: fondo per il culto, monte pensioni insegnanti elementari,
cassa di previdenza degli enti locali, ospedali riuniti di Roma ecc.,
epperò rappresentano somme erogate dall'Erario o destinate a
pagamenti preveduti dall'amministrazione, e quindi vincolate. Piú
significativa è la cifra denotante l'ammontare del fondo di
cassa presso la Tesoreria provinciale, vale a dire del
fondo cui attingonsi i mezzi per la massima parte dei pagamenti nel
Regno; certamente sarebbe un errore considerare questo soltanto,
perché il Tesoro ha altre disponibilità liquide, presso
la Tesoreria centrale, e fra esse dovrebbero avere una certa
importanza quelle in divisa presso i suoi corrispondenti esteri, ma
il fondo di dotazione rappresenta sempre la condizione fondamentale
delle disponibilità di cassa del Tesoro per fronteggiare i
suoi bisogni correnti. Nulla può essere piú eloquente
della differenza fra il cosí detto «fondo generale di
cassa» del Tesoro e la situazione del «fondo di
dotazione» dello Stato per l'esercizio della Tesoreria
provinciale presso la Banca d'Italia, cioè del vero e proprio
conto corrente del Tesoro presso l'Istituto di Emissione [vedi
tabella].
Come si vede, al 31 ottobre
e al 30 novembre, cioè prima degli incassi ottenuti con
l'emissione del Prestito del Littorio, il detto conto corrente si
presentava in deficit, per cui la Banca dovette provvedere a
pagamenti del Tesoro con propri biglietti. Nel conto dei debiti della
Tesoreria richiama l'attenzione l'ammontare di vaglia del Tesoro nel
1925-1926 in 71.349 milioni per rimborsi e 70.498 milioni per
incassi. Queste enormi cifre richiederebbero qualche chiarimento
affinché il pubblico potesse rendersi ragione delle operazioni
che rappresentavano. Ad esso intanto una cosa appare evidente e cioè
che la politica di Tesoreria ha preso il sopravvento su quella di
bilancio i cui risultati sono subordinati a quelli della prima.
Bisogna dunque provvedere a
rinforzare la cassa del Tesoro (la Francia e il Belgio l'hanno già
fatto). Come? Non ricorrendo ad antecipazioni da parte della Banca
d'Italia che non potrebbe fornirle che mediante restrizioni del
credito al commercio o mediante l'inflazione. Non mediante emissioni
di Buoni del Tesoro, perché sarebbe impossibile dopo il
recente consolidamento. Non mediante nuovo prestito consolidato. Il
debito pubblico va diminuito, non aumentato, è poi recente il
consolidamento e prestito del Littorio. Bisogna invece rifornire la
cassa mediante le eccedenze di bilancio, nelle quali, se non ci
saranno gravi perturbazioni dei cambi e se faremo una politica di
economie, potremo continuare a contare. («Ma in realtà
avanzi reali di bilancio non ce ne sono mai stati, come risulta
dall'esposizione precedente, ma solo spostamenti contabili e
mascherature di deficit attraverso i residui passivi, il debito
pubblico aumentato surrettiziamente e il ricorso a partite
incontrollabili, senza contare l'assorbimento dei bilanci locali,
tutti deficitari in misura spaventevole. Bisognerebbe fissare con
esattezza cos'è l'avanzo di bilancio effettivo, anche dopo
aver fissato una quota ragionevole per rafforzare il tesoro e per
ammortare il debito pubblico: è quello che, oltre a tutto ciò,
permette di diminuire le imposte effettivamente, e di migliorare le
condizioni del personale; diminuire specialmente le imposte indirette
che pesano di piú sulla parte piú povera della
popolazione, cioè che permettono un piú elevato tenore
di vita»). Con decreto regio 3 dicembre 1926 fu elevata a 4/5
la quota dell'avanzo di bilancio da destinare ad opere inerenti alla
ricostruzione economica e alla difesa militare della nazione già
fissato in 3/4 dal R. D. del 5 giugno. Nessuno ha contestato le
ragioni impellenti (!) che indussero il governo a prendere questo
provvedimento eccezionalissimo, che è contrario alla dottrina
finanziaria di tutti gli economisti senza distinzioni di scuole e che
non trova riscontro nella pratica finanziaria di nessun altro paese.
Non dovrebbe diventare una consuetudine: il Direttore Generale della
Banca d'Italia nella relazione all'assemblea degli azionisti del '27
l'ha «denunziata cautamente come una tendenza nuova di far
pesare sugli avanzi passati spese riguardanti l'avvenire».
Il relatore della Giunta del Bilancio della Camera dei Deputati,
Olivetti, parlando sul disegno di legge per la conversione in legge
del R. D. 3 dicembre 1926 fece l'obbiezione che, come ai disavanzi
registrati dall'esercizio 1911-12 a quello '23-24 si era fatto fronte
con mezzi di tesoreria e accensioni di debito, cosí
bisognerebbe devolvere integralmente alla riduzione dei debiti
prebellici gli avanzi registrati dal '24-25 in poi; inoltre l'avanzo
potrebbe essere assegnato a dare maggiore elasticità alla
Tesoreria. Però date le gravi ragioni contingenti, la
Giunta concludeva per l'approvazione, augurandosi un futuro graduale
ammortamento del debito pubblico. (A parole tutti sostengono questa
necessità ma non se ne fa niente lo stesso). (Il senato fin
dal 1920 domandò sempre: prudente riduzione della
circolazione, rigorose economie, sosta nell'indebitamento ed inizio
del pagamento dei debiti, vigile attenzione alla cassa del Tesoro,
alleviamento delle imposte).
Necessità di
chiarezza nei conti finanziari. Il denaro deve trovarsi non solo sui
conti, ma nelle casse dello Stato. «Occorre studiare a fondo la
quistione delle operazioni fuori bilancio le quali costituiscono una
minaccia permanente a danno dei risultati attivi del bilancio. Ed
invero piú che una minaccia noi avemmo il danno effettivo nel
periodo dall'agosto al novembre 1926 come lo dimostra il progressivo
impoverimento, durante quei mesi, della cassa».
Le operazioni finanziarie
sono quelle che si fondano sul credito pubblico ed hanno effetto sul
patrimonio dello Stato: l'emissione di un prestito, il rimborso di
obbligazioni rientrano propriamente fra queste. Esse dovrebbero far
parte delle operazioni di bilancio e direttamente essere
contabilizzate fra le spese e le entrate, fra gli incassi e i
pagamenti in conto bilancio. Le operazioni di Tesoreria propriamente
dette riguardano invece i provvedimenti che servono ai bisogni
immediati della cassa e perciò comprenderebbero l'emissione di
buoni del Tesoro ordinari. Tra queste operazioni sono anche
operazioni fuori bilancio, almeno temporaneamente, mentre non
dovrebbero essere tali in una situazione normale. Ora le operazioni
fuori bilancio tendono ad eliminare gli effetti della gestione di
bilancio assorbendone le eccedenze attive. L'azienda del Portafoglio
ha un significato cosí delicato che delle principali
operazioni si redige processo verbale (art. 534 del regolamento di
contabilità). Il Contabile del Portafoglio è tenuto a
rendere ogni anno il conto giudiziale. La gestione del Contabile del
Portafoglio dà luogo a profitti e perdite. Dal 1° luglio
1917 al 30 giugno 1925 non fu presentato conto giudiziale e con R.
decreto-legge 7 maggio 1925 fu concesso di potere eseguire un sol
conto giudiziale per gli otto esercizi finanziari precedenti
riguardanti la guerra. Il Governo deve attenersi alla pratica del
conto giudiziale e restringere l'azienda del portafoglio alle sue
proprie specifiche funzioni.
Ammortamento del debito
pubblico. L'Inghilterra, gli Stati Uniti, l'Olanda da piú
di un secolo compiono ammortamenti. Hamilton pel primo dimostrò
nel 1814 che un vero ammortamento non può farsi che mediante
l'eccedenza delle entrate sulle spese e pose il principio che la
creazione di un debito deve essere accompagnata dal piano della sua
graduale estinzione. Dal '19 al '24 l'Inghilterra diminuí il
suo debito di 650 milioni di sterline, cioè l'intiero debito
prebellico. Il debito può essere ammortizzato: 1°, con una
cassa speciale; 2°, con le eccedenze di bilancio; 3°, con lo
stanziamento di una somma fissa. Si danno le cifre degli ammortamenti
stanziati in bilancio e degli avanzi di bilancio dal '21 al '26-27. È
notevole e significativo il fatto che se è vero che nel '26-27
c'è stato un deficit di 36.694.000 sterline, però
in quell'esercizio furono stanziate in bilancio per ammortamento
60.000.000 di sterline, cifra superiore e di molto a quelle degli
anni precedenti: 25.000.000 nel '21-22, 24.000.000 nel '22-23,
40.000.000 nel '23-24, 45.000.000 nel '24-25, 50.000.000 nel '25-26
(con deficit di 14.000.000). C'è una flessione di bilancio che
comincia dal '24-25: nel '26-27 il deficit di 36 milioni è
ottenuto aumentando lo stanziamento fisso per propaganda contro i
minatori, cioè si aumenta la quota di bilancio a favore dei
capitalisti a danno della classe operaia.
Per la storia della finanza
inglese ricordare che alla fine del XVIII secolo fu adottato da Pitt
il meccanismo del sinking fund – fondo di ammortamento –
di Price, che poi fu dovuto abbandonare. Hamilton. Fino al 1857
l'eccedenza del bilancio fu destinata di preferenza ad alleviare
l'imposta. In seguito l'ammortamento regolare del debito fu ripreso e
costituí la base fondamentale delle finanze britanniche.
Sospeso durante la guerra fu ripreso dopo l'armistizio. Per andamento
del bilancio ricordare le cifre dedicate all'ammortamento dal '21 in
poi – prese dal Financial Statements. Prima cifra =
ammortamenti stanziati in bilancio; seconda cifra = l'avanzo
ulteriore impiegato pure all'ammortamento: '21-22: 25.010.000 e
45.693.000; '22-23: 24.711.000 e 101.516.000; '23-24: 40.000.000 e
48.329.000; '24-25: 45.000.000 e 3.659.000; '25-26: 50.000.000,
deficit 14 milioni 38.000; '26-27: 60.000.000, deficit 36.694.000. Il
calcolo dell'avanzo reale dà queste cifre: 70.703.000; 126
milioni 227.000; 88.329.000; 48.659.000; 35.962.000; 23 milioni
306.000: c'è una flessione di bilancio, ma non un deficit
reale.
La Commissione d'inchiesta
per lo studio dei debiti pubblici, presieduta da Lord Colwyn, in una
sua recente relazione conchiude raccomandando di intensificare
l'ammortamento portando il fondo da 75 a 100 milioni di sterline
l'anno. Si capisce benissimo il significato politico di questa
proposta, data la crisi industriale inglese: si vuole evitare ogni
intervento efficace dello Stato, ponendo tutte le larghe possibilità
di bilancio nelle mani dei privati, i quali poi, probabilmente,
invece di investire nell'industria nazionale in crisi questi enormi
capitali, li investiranno all'estero, mentre lo Stato potrebbe
riorganizzare, con questi fondi, le industrie fondamentali a favore
degli operai.
Negli Stati Uniti il
sistema di amministrazione è fondato sulla conversione dei
debiti consolidati in debiti redimibili con riduzione degli
interessi.
In Francia, la Cassa
costituzionalmente autonoma e indipendente dal Tesoro, per diffidenza
verso il Tesoro, che potrebbe mettere le mani sui fondi di
ammortamento se si trovasse all'asciutto.
Nel Belgio il ministro
Francqui aumentò il fondo di ammortamento.
Italia. Con R. D. 3
marzo 1926 fu costituita una Cassa per l'ammortamento del debito
inglese e americano. Ma non è stata fissata una somma annua
fissa ed intangibile, secondo il sistema inglese (senza pregiudizio
degli avanzi di bilancio, che dopo aver provveduto alle esigenze
della cassa e a temperare certi fiscalismi esagerati, dovrebbero
essere destinati all'amministrazione. 500 milioni annui sono già
stanziati per la graduale riduzione del debito verso la Banca
d'Italia per i biglietti anticipati allo Stato; i 90 milioni di
dollari del prestito Morgan passati alla Banca d'Italia hanno
diminuito di 2 miliardi e mezzo il debito della circolazione per
conto dello Stato: coi 500 milioni stanziati l'intero debito sarà
estinto in 8 anni (questo debito fu estinto quando la riserva aurea
della Banca d'Italia fu valutata secondo la stabilizzazione della
lira col passaggio allo Stato della plusvalenza). Nell'ultimo conto
del Tesoro il debito consolidato apparisce al 31 marzo 1927 in circa
44 miliardi e mezzo, cui vanno aggiunti circa 23 miliardi e mezzo
provenienti dall'operazione dei Buoni del Tesoro e circa 3 miliardi e
mezzo del prestito del Littorio; circa 71 miliardi e mezzo, nei quali
la parte relativa al periodo prebellico concorre per circa 10
miliardi; e ciò senza dire né dei debiti redimibili
inscritti nel gran Libro del Debito Pubblico per 3.784 milioni, dei
quali la metà relativi alla guerra, né dei buoni
poliennali che formano una massa di 7 miliardi e 1/3; né degli
altri debiti, quasi tutti redimibili, gestiti dal Debito Pubblico; né
del debito per circolazione bancaria, che è ancora di 4.229
milioni (estinto in seguito come detto sopra). Trascurando i debiti
redimibili, pei quali è in regolare corso l'estinzione
graduale e lasciando da parte i buoni (!), poliennali, rimane
il debito perpetuo.
Benefizi dell'ammortamento
del debito: 1°, allevia il bilancio, se pure in misura modesta;
2°, rialza il credito dello Stato; 3°, rende possibile
ottenere un nuovo prestito in circostanze gravi e imprevedute; 4°,
rende possibili future conversioni; 5°, mette a disposizione
della produzione le somme ammortate, creando nuovi cespiti di
entrata; 6°, tiene alta la quotazione dei titoli di Stato.
Sir Felix Schuster sostenne
innanzi alla Commissione d'inchiesta dei debiti pubblici che anche ed
anzi specialmente nei momenti piú difficili della pubblica
finanza l'ammortamento del debito deve essere mantenuto perché
costituisce il miglior modo di salvare il credito dello Stato ed
impedisce il crollo dei suoi titoli. Ridurre il debito vuol dire
rivalutare il consolidato («perciò l'impostare una volta
tanto una somma per ridurre il debito pubblico, cioè la
mancanza di stanziamenti fissi e intangibili, si riduce ad essere un
vero e proprio agiotaggio: lo Stato compra i suoi titoli non per
estinguerli gradatamente ma come operazione di borsa che ne faccia
elevare la quotazione, magari per emetterne subito degli altri»,
A. G.). L'ammortamento deve essere necessariamente lento e
moderato per non determinare bruschi spostamenti di capitale.
Prestiti americani.
Da prima tali prestiti non erano assecondati. Sistemati i debiti di
guerra con l'America e l'Inghilterra, la direttiva del Tesoro è
mutata, con questo nuovo elemento essenziale, che il piú
delle volte l'alea dei cambi per i rimborsi anziché dagli enti
contrattanti il debito viene assunto dallo Stato, il che imprime
agli occhi dei prestatori uno speciale carattere a tutta
l'operazione. Questa garanzia va giudicata in relazione
all'accentramento del controllo dei cambi prima presso il Tesoro, ed
ora, molto opportunamente, presso l'Istituto dei cambi. Debiti per
industria, opportuni. Debiti ai Comuni pericolosi, perché si
spende e non si saprà come restituire. La contrazione di
debiti all'estero è sottoposta al consenso del governo.
Imposte. 12.577
milioni d'imposte nell'esercizio 1922-1923. 16.417 milioni
nell'esercizio '25-26 con un aumento in tre anni di 3.840 milioni.
Inoltre nel 1925 le imposte locali erano previste in 4.947 milioni,
sicché carico annuale di 22 miliardi, cioè un onere
superiore a quelli di tutti gli Stati europei e americani. Stati
Uniti, diminuite le imposte in quattro anni, di 2 milioni di dollari.
Inghilterra diminuite le imposte. In Italia, almeno non aumento e
cessazione di terrore fiscale. Cosí nei Comuni, che affetti da
mania spendereccia e tassatrice. Mantenere le basi fondamentali della
riforma tributaria unificatrice, semplificatrice e perequatrice De
Stefani. Già si sono avute deviazioni da questa riforma. La
nuova imposta complementare sul reddito aveva il pregio di aver
ripudiato il sistema di accertamento indiziario. Ma la nuova imposta
sul celibato, che varia secondo il reddito, dà luogo a un
nuovo accertamento a base indiziaria, invece di essere basata sul
reddito accertato agli effetti della complementare. Cosí si
hanno due accertamenti del reddito che conducono a risultati diversi,
e poiché il contrasto non è ammissibile, finisce col
prevalere per ambedue la procedura indiziaria. Scopo della imposta
complementare sul reddito con partecipazione degli enti locali al
provento era di eliminare tutte le forme imperfette e sperequate di
tasse locali sul reddito quali la tassa di famiglia e il valore
locativo. Un tentativo per l'istituzione di una strana tassa sul
reddito consumato fu sventato (sic) per l'opportuno
intervento del Senato. Poiché l'imposta complementare sul
reddito doveva eliminare le tasse di famiglia e sul valore locativo
quando fossero pagate insieme ad essa, per evitare una doppia
tassazione sullo stesso reddito, era giusto che continuassero a
pagarle coloro che non erano stati iscritti sui ruoli della
complementare perché in questo caso non esisteva duplicato.
Invece si lasciò ai Comuni facoltà o di continuare ad
applicare la tassa di famiglia a coloro che non erano inscritti ai
ruoli della complementare, ovvero applicare la tassa sul valore
locativo anche a quelli che pagavano la complementare. Quasi tutti i
Comuni hanno scelto quest'ultima e cosí siamo tornati alla
doppia tassazione. Inoltre. Gli agenti del fisco hanno sostenuto e la
Commissione centrale delle imposte dirette ha sanzionato che i vecchi
accertamenti della tassa di famiglia, di cui tutti avevano
riconosciuto le sperequazioni, possono essere presi a base
dell'accertamento per l'imposta della complementare sul reddito.
Invece di essere soppressa, cioè, ha preso il sopravvento.
Certo la complementare ha dato un gettito inferiore allo sperato, ma
perché il gettito delle imposte nuove è sempre nel
primo anno inferiore a quello che dovrebbe essere, e perché
per tre anni la complementare risente delle notevolissime riduzioni
che sono state accordate a chi ha riscattato la tassa sul patrimonio.
Contro il fiscalismo. Nella seduta del Senato del 14 giugno '26 il
relatore del bilancio on. Mayer, disse: «Penso che sia
necessaria una completa riforma del nostro sistema tributario che
data dal 1862, dei nostri sistemi di accertamento, dei nostri
antiquati e deficienti regolamenti, in modo da ottenere che i
cittadini non debbano considerare il rappresentante dell'Erario come
un implacabile nemico». Nella fine dell'articolo si accenna
addirittura a Necker, che cercò liberare la Francia
dall'«impôt», cioè dalla corvée,
dalla taille ecc., modernamente «vessazione fiscale»,
e si augura al ministro delle Finanze di emulare Necker. (Questo
articolo di Tittoni deve essere considerato come l'esposizione dei
desiderata della borghesia al governo dopo gli avvenimenti del
novembre 1926; il linguaggio è molto cauto e involuto, ma la
sostanza è molto forte. La critica risulta specialmente dal
paragone tra quanto hanno fatto negli altri paesi e in Italia).
Nel fascicolo seguente
della «Nuova Antologia» del 16 giugno 1927, Alberto De
Stefani, al quale Tittoni aveva in nota attribuito di preconizzare
una politica di maggiori imposte e di piú rigoroso regime
fiscale, pubblica una lettera in cui si dichiara invece d'accordo col
Tittoni e avversario della politica che gli viene attribuita.
Dichiara di voler solo la rigida obbedienza alle leggi tributarie,
cioè la lotta contro le evasioni fiscali. Tra le altre
citazioni che fa per dimostrare l'accordo con Tittoni, è
interessante questa dal «Corriere della Sera» del 28
novembre '26: «È naturale, per esempio, che l'aumento
delle tariffe doganali, e cosí pure dei dazi interni, possa
annullare la politica monetaria... È desiderabile:... che non
si influisca attraverso la finanza di Stato e la finanza locale, o in
altro modo, a fare aumentare i costi di produzione». Per
mitigare l'aliquota domanda: 1°, una maggiore universalità
(!) nell'applicazione dei tributi (giustizia distributiva); 2°,
minore evasione di quella oggi esistente, documentata dai ruoli dei
contribuenti, di cui è stata interrotta la pubblicazione;
3°, economie nella spesa. Criterio generale: diminuire la
pressione finanziaria nominale proporzionatamente alla rivalutazione
monetaria, per non rendere piú onerosa la pressione
finanziaria reale.
Bibliografia
varia:
1) C.
Smogorzenski, Le jeu complexe des Partis en Pologne,
«Geebethner et Wolff».
2) Louis
Fischer, L'Impérialisme du pétrole, Rieder.
(Esposizione della storia
della produzione del petrolio secondo i documenti del Ministero
tedesco e del Commissariato russo. Contro Sir Henri Deterding e gli
altri re del petrolio).
3) Charles
Benoist, Les lois de la Politique française, A. Fayard.
(Tra l'altro: «il
francese è guerriero, ma non militare», ha bisogno di
essere disciplinato, perciò «il servizio militare di
corta durata non è possibile che con quadri solidissimi»).
4) Georges
Valois, Basile ou la Politique de la Calomnie, «Valois».
(Contro
Maurras e l'Action Française: autobiografico. Storia
del «Cercle Proudhon» e dei suoi «Cahiers».
Vedere a proposito della partecipazione di Sorel il libro su Sorel di
Pierre Lasserre e la corrispondenza Sorel-Croce.
Per la situazione esistente
in Francia nel 1925 e per le speranze dei reazionari, «Maurras
s'était presque engagé à faire la monarchie pour
le fin de 1925». Per la storia lamentevole del movimento di
Valois in Francia).
5) Edouard Champion, Le
livre aux Etats Unis; lungo articolo nella «Revue des Deux
Mondes» del 15 maggio e 1° giugno 1927.
[6] Ottavio Cina, La
Commedia Socialista, Bernardo Lux edit., Roma, 1914, pp.
VIII-102, 3° migliaio (?). Titolo preso dal libro di Yves Guyot,
La Comédie Socialiste, Paris, 1897, Charpentier (ma non
lo dice).
Questo del Cina è un
libercolo molto banale e pedestre, a tipo libellistico. Può
essere considerato solo in una bibliografia di questa specie di
letteratura ai margini estremi della polemica di quel tempo. Molto
generico. Se cita fatti concreti o nomi, commette errori grossolani
(cfr. a p. 5, a proposito del contrasto Turati-Ferri). Vedi a che
titolo lo cita Croce nella bibliografia della sua Storia d'Italia
dal 1871 al 1915. Il Cina rimanda, a p. 34, a suoi articoli
nell'«Economista d'Italia» del 1910. Fa un esame delle
condizioni economiche in quegli anni, molto superficiale e banalmente
tendenzioso, naturalmente, e finisce con un appello alla resistenza
delle classi borghesi contro gli operai, anche con la violenza.
Da questo punto di vista è interessante, come un segno dei
tempi. Bisognerebbe vedere chi era (o è) questo signor Cina.
Non pare un «nazionalista» nel senso di partito.
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