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Antonio Gramsci
Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno

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  • III. Note sull'attrezzamento nazionale e sulla politica italiana
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III. Note sull'attrezzamento

nazionale e sulla politica italiana

L'attrezzamento nazionale. Nella ricerca sulle condizioni economiche e sulla struttura dell'economia italiana, inquadrare nel concetto di «attrezzamento nazionale». Fissare questo concetto esattamente ecc.

 

 

Economia nazionale. Tutta l'attività economica di un paese può essere giudicata solo in rapporto al mercato internazionale, «esiste» ed è da valutarsi in quanto è inserita in una unità internazionale. Da ciò l'importanza del principio dei costi comparati e la saldezza che mantengono i teoremi fondamentali dell'economia classica di contro alle critiche verbalistiche dei teorici di ogni nuova forma di mercantilismo (protezionismo, economia diretta, corporativismo ecc.). Non esiste un «bilancio» puramente nazionale dell'economia, né per il suo complesso, e neppure per una attività particolare. Tutto il complesso economico nazionale si proietta nell'eccedente che viene esportato in cambio di una corrispondente importazione, e se nel complesso economico nazionale una qualsiasi merce o servizio costa troppo, è prodotta in modo antieconomico, questa perdita si riflette nell'eccedente esportato, diventa un «regalo» che il paese fa all'estero, o per lo meno (giacché non sempre può parlarsi di «regalo») una perdita secca del paese, nei confronti con l'estero, nella valutazione della sua statura relativa e assoluta nel mondo economico internazionale.

Se il grano in un paese è prodotto a caro prezzo, le merci industriali esportate e prodotte da lavoratori nutriti con quel grano, a prezzo uguale con l'equivalente merce estera, contengono congelata una maggior quantità di lavoro nazionale, una maggior quantità di sacrifizi di quanto contenga la stessa merce estera. Si lavora per l'«estero» a sacrifizio; i sacrifizi sono fatti per l'estero, non per il proprio paese. Le classi che all'interno si giovano esse di tali sacrifizi, non sono la «nazione» ma rappresentano uno sfruttamento esercitato da «stranieri» sulle forze realmente nazionali ecc.

 

 

Struttura economica italiana. Giuseppe Paratore in un articolo della «Nuova Antologia» del 1° marzo 1929 La Economia, la Finanza, il Denaro d'Italia scrive che l'Italia ha «una doppia costituzione economica (industriale capitalistica al nord, agraria di risparmio al sud)» e nota come tale situazione abbia reso difficile nel '26-27 la stabilizzazione della lira. Il metodo piú semplice e diretto, di consolidare rapidamente la svalutazione monetaria, creando subito una nuova parità – secondo le prescrizioni di Kemmerer, Keynes, Cassel ecc. – non era consigliabile ecc.

Sarebbe interessante sapere quale fattore risultò, in ultima analisi, meglio difeso: se l'economia del Nord o quella del Sud, e ciò perché, in realtà, la stabilizzazione fu compiuta dopo molte esitazioni e sotto il panico di un crollo fulmineo (corso del dollaro nel 1928: gennaio 477,93, febbraio 479,93, marzo 480,03, aprile 479,63, maggio 500,28, giugno 527,72, luglio 575,41); bisogna inoltre tener conto che il Sud era piú omogeneo rispetto al Nord nelle sue rivendicazioni e aveva la solidarietà di tutti i risparmiatori nazionali; nel Nord i capitalisti divisi, esportatori favorevoli inflazione, per il mercato interno ecc. ecc. Inoltre: la bassa stabilizzazione avrebbe provocato una crisi sociale-politica e non solo puramente economica, perché avrebbe mutato la posizione sociale di milioni di cittadini.

 

Nella «Riforma Sociale» del maggio-giugno 1932 è stata pubblicata una recensione del libro di Rodolfo Morandi (Storia della grande industria in Italia, ed. Laterza, Bari, 1931) recensione che contiene alcuni spunti metodici di un certo interesse (la recensione è anonima, ma l'autore potrebbe essere identificato nel prof. De Viti De Marco).

Si obbietta prima di tutto al Morandi di non tener conto di ciò che è costata l'industria italiana: «All'economista non basta che gli vengano mostrate fabbriche che danno lavoro a migliaia di operai, bonifiche che creano terre coltivabili, ed altri simili fatti di cui il pubblico generalmente si contenta nei suoi giudizi su un paese, su un'epoca. L'economista sa bene che lo stesso risultato può rappresentare un miglioramento o un peggioramento di una certa situazione economica, a seconda che sia ottenuto con un complesso di sacrifici minori o maggiori».

(È giusto il criterio generale che occorra esaminare il costo dell'introduzione di una certa industria in un paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha ricavato i vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano essere fatti in altra direzione piú utilmente, ma tutto questo esame deve essere fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata. D'altronde il solo criterio dell'utilità economica non è sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un'altra; occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia stato obbiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a scadenza lunga. Che l'unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però occorre esaminare se tali sacrifizi sono stati distribuiti equamente e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in una direzione giusta. Che l'introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un'emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la necessità, e rovinando economicamente intere regioni, è certissimo. L'emigrazione infatti deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte, e dall'altra come una manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l'abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati).

Il Morandi non riesce a valutare il significato del protezionismo nello sviluppo della grande industria italiana. Cosí il Morandi rimprovera assurdamente alla borghesia «il proposito deliberato e funestissimo di non aver tentato l'avventura salutare del sud, dove malamente la produzione agricola può ripagare i grandi sforzi che all'uomo richiede». Il Morandi non si domanda se la miseria del Sud non fosse determinata dalla legislazione protezionistica che ha consentito lo sviluppo industriale del Nord e come poteva esistere un mercato interno da sfruttare coi dazi e altri privilegi, se il sistema protettivo si fosse esteso a tutta la penisola, trasformando l'economia rurale del Sud in economia industriale (tuttavia si può pensare a un tale regime protezionistico panitaliano, come un sistema per assicurare determinati redditi a certi gruppi sociali, cioè come un «regime salariale»; e si può vedere qualcosa del genere nella protezione cerealicola, connessa alla protezione industriale, che funziona solo a favore dei grandi proprietari e dell'industria molitoria ecc.). Si rimprovera al Morandi l'eccessiva severità con cui giudica e condanna uomini e cose del passato, poiché basta fare un confronto tra le condizioni prima e dopo l'indipendenza per vedere che qualcosa si è pur fatta.

Pare dubbio che si possa fare una storia della grande industria astraendo dai principali fattori (sviluppo demografico, politica finanziaria e doganale, ferrovie ecc.) che hanno contribuito a determinare le caratteristiche economiche del periodo considerato (critica molto giusta; una gran parte dell'attività della Destra storica da Cavour al 1876 fu dedicata infatti a creare le condizioni tecniche generali in cui una grande industria fosse possibile e un grande capitalismo potesse diffondersi e prosperare; solo con l'avvento della Sinistra e specialmente con Crispi si ha la «fabbricazione dei fabbricanti» attraverso il protezionismo e i privilegi d'ogni genere. La politica finanziaria della Destra rivolta al pareggio rende possibile la politica «produttivistica» successiva). «Cosí, ad esempio, non si riesce a capire come mai vi fosse tanta abbondanza di mano d'opera in Lombardia nei primi decenni dopo la unificazione, e quindi il livello dei salari rimanesse tanto basso, se si rappresenta il capitalismo come una piovra che allunga i suoi tentacoli per far sempre nuove prede nelle campagne, invece di tener conto della trasformazione che contemporaneamente avviene nei contratti agrari ed in genere nell'economia rurale. Ed è facile concludere semplicisticamente sulla caparbietà e sulla ristrettezza di mente delle classi padronali osservando la resistenza che esse fanno ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni delle classi operaie, se non si tiene anche presente quello che è stato l'incremento della popolazione rispetto alla formazione di nuovi capitali». (La quistione però non è cosí semplice. Il saggio del risparmio o di capitalizzazione era basso perché i capitalisti avevano voluto mantenere tutta l'eredità di parassitismo del periodo precedente, affinché non venisse meno la forza politica della loro classe e dei loro alleati).

Critica della definizione di «grande industria» data dal Morandi, il quale, non si sa perché, ha escluso dal suo studio molte delle piú importanti attività industriali (trasporti, industrie alimentari ecc.). Eccessiva simpatia del Morandi per i colossali organismi industriali, considerati troppo spesso, senz'altro, come forme superiori di attività economica, malgrado siano ricordati i crolli disastrosi dell'Ilva, dell'Ansaldo, della Banca di Sconto, della Snia Viscosa, dell'Italgas. «Un altro punto di dissenso, il quale merita di essere rilevato, perché nasce da un errore molto diffuso, è quello in cui l'A. considera che un paese debba necessariamente rimaner soffocato dalla concorrenza degli altri paesi se inizia dopo di essi la propria organizzazione industriale. Questa inferiorità economica, a cui sarebbe condannata anche l'Italia, non sembra affatto dimostrata, perché le condizioni del mercato, della tecnica, degli ordinamenti politici, sono in continuo movimento e quindi le mète da raggiungere e le strade da percorrere si spostano tanto spesso e subitamente che possono trovarsi in vantaggio individui e popoli che erano rimasti piú indietro o quasi non s'erano mossi. Se ciò non fosse si spiegherebbe male come continuamente possono sorgere e prosperare nuove industrie accanto alle piú vecchie nello stesso paese e come abbia potuto realizzarsi l'enorme sviluppo industriale del Giappone alla fine del secolo scorso». (A questo proposito sarebbe da ricercare se molte industrie italiane, invece di nascere sulla base della tecnica piú progredita nel paese piú progredito, come sarebbe stato razionale, non siano nate con le macchine fruste di altri paesi, acquistate a buon prezzo sí, ma ormai superate, e se questo fatto non si presentasse «piú utile» per gli industriali che speculavano sul basso prezzo della mano d'opera e sui privilegi governativi piú che su una produzione tecnicamente perfezionata).

Nel fare l'analisi della relazione della Banca Commerciale Italiana all'assemblea sociale per l'esercizio 1931, Attilio Cabiati (nella «Riforma Sociale» luglio-agosto 1932, p. 464) scrive: «Risalta da queste considerazioni il vizio fondamentale che ha sempre afflitto la vita economica italiana: la creazione e il mantenimento di una impalcatura industriale troppo superiore sia alla rapidità di formazione di risparmio nel paese, che alla capacità di assorbimento dei consumatori interni; vivente quindi per una parte cospicua solo per la forza del protezionismo e di aiuti statali di svariate forme. Ma il patrio protezionismo che in taluni casi raggiunge e supera il cento per cento del valore internazionale del prodotto, rincarando la vita rallentava a sua volta la formazione del risparmio, che per di piú veniva conteso all'industria dallo Stato stesso, spesso stretto dai suoi bisogni, sproporzionati alla nostra impalcatura. La guerra, allargando oltre misura tale impalcatura, costrinse le nostre banche, come scrive la relazione precitata, "ad una politica di tesoreria coraggiosa e pertinace", la quale consisté nel prendere a prestito "a rotazione" all'estero, per prestare a piú lunga scadenza all'interno. "Una tale politica di tesoreria aveva però – dice la relazione – il suo limite naturale nella necessità per le banche di conservare ad ogni costo congrue riserve di investimenti liquidi o di facile realizzo". Quando scoppiò la crisi mondiale, gli "investimenti liquidi" non si potevano realizzare se non ad uno sconto formidabile: il risparmio estero arrestò il suo flusso: le industrie nazionali non poterono ripagare. Sicché, exceptis excipiendis, il sistema bancario italiano si trovò in una situazione per piú aspetti identica a quella del mercato finanziario inglese nella metà del 1931... (l'errore) antico consisteva nell'aver voluto dare vita ad un organismo industriale sproporzionato alle nostre forze, creato con lo scopo di renderci "indipendenti dall'estero": senza riflettere che, a mano a mano che non "dipendevamo" dall'estero per i prodotti, si rimaneva sempre piú dipendenti per il capitale».

Si pone il problema se in un altro stato di cose si potrà allargare la base industriale del paese senza ricorrere all'estero per i capitali. L'esempio di altri paesi (per esempio il Giappone) mostra che ciò è possibile: ogni forma di società ha una sua legge di accumulazione del risparmio ed è da ritenere che anche in Italia si può ottenere una piú rapida accumulazione. L'Italia è il paese, che, nelle condizioni create dal Risorgimento e dal suo modo di svolgimento, ha il maggior peso di popolazione parassitaria, che vive cioè senza intervenire per nulla nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità di piccola e media borghesia rurale e urbana che consuma una frazione grande del reddito nazionale per risparmiarne una frazione insufficiente alle necessità nazionali.

 

 

Giuseppe Paratore, La economia, la finanza, il denaro d'Italia alla fine del 1928, «Nuova Antologia», 1° marzo 1929.

Articolo interessante ma troppo rapido e troppo conformista. Da tener presente per ricostruire la situazione del '26 fino alle leggi eccezionali. Il Paratore fa una lista delle principali contraddizioni del dopo guerra: 1) le divisioni territoriali hanno moltiplicato le barriere doganali; 2) ad una complessiva riduzione di capacità di consumo ha risposto dappertutto un aumento di impianti industriali; 3) ad una tendenziale depressione economica, un accentuato spirito di nazionalismo economico (ogni nazione vuole produrre tutto e vuole vendere senza comprare); 4) ad un impoverimento complessivo, una tendenza all'aumento reale delle spese statali; 5) ad una maggiore disoccupazione, una minore emigrazione (nell'anteguerra lasciavano annualmente l'Europa circa 1.300.000 lavoratori, oggi emigrano solo 600-700 mila uomini); 6) la ricchezza distrutta dalla guerra in parte è stata capitalizzata e dà luogo ad interessi che per molto tempo sono stati pagati con altro debito; 7) un indebitamento verso gli Stati Uniti d'America (per debiti politici e commerciali) che se dovesse dar luogo a reali trasferimenti, metterebbe in pericolo qualunque stabilità monetaria.

Per l'Italia il Paratore nota questi elementi della sua situazione post-bellica: 1) considerevole diminuzione del suo capitale umano; 2) debito di circa 100 miliardi di lire; 3) volume di debito fluttuante preoccupante; 4) bilancio statale dissestato; 5) ordinamento monetario sconvolto, espresso da una profonda riduzione e da una pericolosa instabilità del valore interno ed esterno della unità di denaro; 6) bilancia commerciale singolarmente passiva, aggravata da un completo disorientamento dei suoi rapporti commerciali con l'estero; 7) molti ordinamenti finanziari riguardanti la pubblica e privata economia logorati.

 

 

Sui bilanci dello Stato. Vedere i discorsi in Senato dell'on. Federico Ricci, ex Sindaco di Genova. Questi discorsi sono da leggere prima di ogni lavoro sulla storia di questi anni.

Nel discorso del 16 dicembre 1929 sul rendiconto dell'esercizio finanziario 1927-28 il Ricci osservò:

1) A proposito della Cassa d'ammortamento del debito estero istituito con decreto-legge 3 marzo 1926 dopo gli accordi di Washington (14 novembre 1925) e di Londra (27 gennaio 1926): che gli avanzi realizzati sulla differenza fra quota pagata dalla Germania e quota pagata dall'Italia all'America e all'Inghilterra viene imprestata alla Tesoreria che a un certo punto dovrà restituirla (si arriverà a miliardi) quando l'Italia dovrà pagare piú di quanto riceve. Pericolo che la Tesoreria non possa pagare. L'Italia ha ricevuto dalla Germania pagamenti in natura e in denaro. Non vengono piú pubblicati i resoconti dettagliati delle vendite fatte dallo Stato delle merci ricevute dalla Germania, e delle somme realizzate: non si sa se esse sono maggiori o minori di quelle accreditate.

2) A proposito della Cassa d'ammortamento dei debiti interni, istituita con decreto-legge 5 agosto 1927 per provvedere all'estinzione del Consolidato e degli altri debiti di Stato. Doveva essere dotata cogli avanzi di bilancio, coi proventi degli interessi dei capitali, coi ricuperi per capitale e interesse dei prestiti fatti dallo Stato a certe industrie private, ecc. Dopo il primo anno, tutti i cespiti principali sono mancati, specialmente gli avanzi di bilancio. Essa è accreditata semplicemente per tali somme, sicché nei residui passivi il suo credito è di lire 1.728 milioni. Le offerte dei privati nel resoconto ultimo fino al dicembre 1928 sono di 4.800.000 [lire], somma molto inferiore a quella pubblicata nei giornali.

3) Polizze di assicurazione per i combattenti, istituite con decreto-legge 10 dicembre 1917, in ragione di 500 lire per i soldati, 1.000 lire per i sottufficiali e 5.000 lire per gli ufficiali (è esatto? O non si parlava di 1.000 lire per i soldati?) Esse verranno a scadenza nel 1947 o 1948, rappresentando un carico grandissimo per il bilancio (naturalmente gli interessati non hanno avuto quasi nulla e gli accaparratori saranno loro a riscuotere: ecco un argomento interessante). Il Governo con decreto 10 maggio 1923 aveva provvisto alla costituzione di una riserva presso la Cassa depositi e prestiti dando una prima dotazione di 600 milioni e piú di 50 milioni annui. 1600 milioni però non furono mai versati: sono iscritti fra i residui all'attivo come prestito da contrarre al 3,50% (portato poi al 4,75% con decreto 10 maggio 1925, n. 852) e al passivo come credito della C.D.P. Quanto ai 50 milioni, furono inscritti in bilancio per qualche anno e poi intervenne un decreto ministeriale il quale cancellò per l'anno in corso (1927) e per i successivi quel versamento (Decreto ministeriale 6 ottobre 1927, n. 116635). («È curioso (!!?) che sia possibile mutare radicalmente la fisionomia del bilancio solennemente (!) approvato dalle Camere, con semplici decreti ministeriali, che non compaiono sulla "Gazzetta Ufficiale", dei quali lo stesso Capo del Governo potrebbe non saper nulla; e lo stesso ministro competente potrebbe averli firmati inavvertitamente»; queste parole del Ricci sono di colore oscuro).

Una osservazione del Ricci: La Cassa di ammortamento del debito interno, ha fatto un «debituccio» di 80 milioni per ammortizzare il Debito Pubblico!!! La Tesoreria, non sapendo dove sbattere la testa, si fece prestare denaro dall'Alto Commissario della Città di Napoli, dal Consorzio del Porto di Genova, ecc. Si fece prestare dalle Casse d'ammortamento del debito estero e di quello interno, facendo loro un trattamento curioso, non pagando cioè gli interessi!, ecc.

 

 

A proposito dei bilanci. Occorre sempre confrontare il bilancio preventivo normale con le aggiunte, correzioni e variazioni che di solito vengono fatte dopo qualche mese; spesso in questo supplemento di bilancio, si annidano delle voci interessanti (per es. nel preventivo le spese segrete degli Esteri erano 1.500.000: nel supplemento ci fu un aumento di 10.000.000). Certo è che il supplemento interessa meno del preventivo ordinario, e perciò suscita meno curiosità e meno indagini: pare sia ordinaria amministrazione.

 

 

La marina mercantile italiana. Estratti dall'articolo La nostra marina transatlantica di L. Fontana Russo, nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1927.

Le perdite complessive della marina mercantile italiana per sottomarini e sequestri durante la guerra salirono a 872.341 tonn. lorde (238 piroscafi per 769.450 tonn. e 395 velieri per 10.891), cioè il 49% dell'intera flotta, mentre le perdite inglesi furono del 41% e le francesi del 46% («ciò nonostante la piú tarda entrata in guerra, e la ritardata dichiarazione di guerra alla Germania»; A. G.: come spiegare questa percentuale cosí alta?) Inoltre altri 9 piroscafi per 57.440 tonn. affondarono per disgraziati accidenti dovuti allo speciale regime imposto alla navigazione (incagli per sfuggire ad attacchi di sommergibili, collisioni nella navigazione in convoglio ecc.) («quanto fu la percentuale di questi casi nelle altre marine», A. G.; la risposta interessa per giudicare nostra organizzazione e capacità dei comandi; inoltre interessante sapere l'età di questi piroscafi, per vedere come era esposta la vita dei nostri marinai). Il danno finanziario (navi e carico) fu di L. 2.202.733.047, cosí ripartito: naviglio da pesca L. 4.391.706; velieri L. 59.792.591; piroscafi di bandiera nazionale L. 1.595.467.786; piroscafi di bandiera estera noleggiati dall'Italia (216 piroscafi affondati, 2 danneggiati: L. 543.080.964). (Evidentemente questi piroscafi esteri non sono calcolati nel tonnellaggio precedente e anche in questo caso sarebbe interessante sapere se essi furono affondati essendo guidati da personale italiano: inoltre se le altre nazioni subirono perdite dello stesso genere).

Il totale dei carichi perduti fu di 1.271.252 tonn. I rifornimenti italiani durante la guerra furono: 49 mil. di tonn. da Gibilterra e 2 milioni dal Mediterraneo e da Suez. Le perdite subite durante la guerra furono riparate subito. Il naviglio mondiale [perduto] durante la guerra fu di 12.804.902 tonn. (piroscafi e velieri), cioè il 27% del tonnellaggio complessivo. Nel 1913 la marina mondiale era di 43.079.000 tonn.; nel 1919 era di 48 milioni, nel '21 di 58.841.000, nel '26 di 62.671.000. I cantieri, dal '13 al '19, dopo aver colmato le perdite, accrebbero di 4 milioni il tonnellaggio. Le navi impostate furono continuate dopo l'armistizio: cosí si spiega che, nel '19, le navi varate raggiunsero i 7 milioni di tonnellate («ciò spiega la crisi dei noli del dopoguerra, in cui coincise un naviglio anormale con una caduta del commercio»).

Italia. Il 31 dicembre 1914 il nostro naviglio (piroscafi superiori a 250 tonn. lorde) era di 644 piroscafi per tonn. D. W. C. 1.958.838; le perdite al 31 dicembre 1921 furono: piroscafi 354, per tonn. 1.270.348. Della vecchia flotta rimanevano 290 piroscafi, per tonn. 688.496. Fino al 31 dicembre 1921 furono costruiti 122 piroscafi per tonn. D. W. C. 698.979 e comprati all'estero 143 per 845.049, furono ricuperati dalla Regia Marina 60 per 131.725 e incorporati dalla Venezia Giulia 210 per 763.945, cioè l'aumento complessivo fu di 535 per 2.437.698, portando la flotta complessiva a 856 per 3.297.987. Alla fine del 1926 l'Italia aveva costruito inoltre 33 navi per 239.776 tonn. lorde. Le motonavi tendono ad aumentare in confronto dei piroscafi. Le 763.945 tonn. provenienti dalla Venezia Giulia furono il risultato di negoziati al Congresso della Pace con l'Inghilterra, la Francia e la Jugoslavia.

Le perdite della marina di linea (piroscafi per viaggiatori) furono meno gravi che per la flotta da carico e perciò non prontamente riparate. Cosí, nel dopoguerra si ebbe naviglio da carico eccessivo e di linea manchevole. Disarmo e caduta di noli per quello, richiesta e rialzo di noli per questo. Avvenne cosí specializzazione delle compagnie: alcune si dedicarono al carico, altre alla linea, alienando la propria flotta di carico e specializzandosi («teoricamente la specializzazione è un progresso, perché porta a minor costo: ma in caso di crisi di uno o altro ramo, la specializzazione porta al fallimento, perché non esiste piú il compenso reciproco»; A. G.). Alla flotta di linea si pose un problema fondamentale: navi per emigranti o navi per viaggiatori di classe? Le maggiori compagnie si decisero nel senso di dare maggior peso ai piroscafi di lusso. Crisi dell'emigrazione per restrizioni legislative. Cosí si ebbe sviluppo di grandi piroscafi di lusso, per i quali non c'è limitazione di spazio e di comfort dati i noli alti.

Tendenza verso il grande tonnellaggio. Per legge economica del rendimento crescente. L'aumento della lunghezza, altezza, larghezza porta ad un aumento piú che proporzionale della portata utile, cioè dello spazio dedito al carico. Cresce pure, piú che proporzionalmente alla spesa di costruzione e d'esercizio, il rendimento dell'armatore. La velocità invece deve essere moderata, per essere economica (non può oltrepassare per ora i 24 nodi). Altra è la questione per la marina di guerra, i cui scopi sono bellici, non di carattere economico. Le macchine marine capaci di imprimere grandi velocità sono insaziabili divoratrici di combustibile. La velocità segue la legge dei rendimenti decrescenti, all'opposto di quella che regola la portata delle navi. Venti anni fa: velocità di 11 nodi, costo orario 295 lire, 13 nodi 370 lire, 21 nodi 1.800 lire. Al criterio dei viaggi brevi, si sostituí quello dei viaggi comodi («oggi la radio, e specialmente l'aeroplano per chi ha veramente fretta, compensano la relativa scarsa velocità delle navi di lusso; con la radio si può sempre mantenersi in comunicazione e non interrompere gli affari; con l'aeroplano si ottengono due effetti: 1°, percorrere in poche ore spazi relativamente brevi – Parigi-Londra, ecc. – con sicurezza; 2°, i transatlantici trasportano anche aeroplani e giunti a una distanza dal capolinea che dà sicurezza di traversata, permettono ai piú frettolosi di abbreviare il viaggio»; A. G.). Alla velocità di 23 nodi si è giunti sia trasformando le macchine motrici, sia adottando nuovo combustibile. La turbina sostituí le macchine alternative: il motore Diesel tende a sostituire la turbina. Il combustibile liquido sostituisce il carbone. Notevole risparmio che permise una nuova velocità economica (23 nodi).

Nuove e vecchie costruzioni. Una nave nuova, che rappresenti un forte progresso, svaluta subito, automaticamente, tutte le precedenti. Il vecchio naviglio deve essere radiato, trasformato se possibile, o adibito ad altri trasporti. Le vecchie navi rendono poco o nulla (anche se in parte ammortizzate), se non sono addirittura passive. Perciò, dati i continui progressi tecnici, gli attuali transatlantici devono ammortizzare il capitale in poco meno d'un decennio. («Ed ecco perché nel valutare l'efficienza reale delle varie flotte nazionali, oltre al numero delle unità e alla somma complessiva delle tonnellate, bisogna badare all'età del naviglio; ciò spiega anche come il rendimento di flotte inferiori per tonnellaggio sia superiore a quello di flotte che statisticamente sono piú elevate: oltre al fatto dei maggiori rischi – assicurazioni – e pericoli per le vite umane rappresentati dalle vecchie navi»).

 

 

La diplomazia italiana. Costantino Nigra e il trattato di Uccialli. Nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1928 in un articolo di Carlo Richelmy, Lettere inedite di Costantino Nigra, è pubblicata una lettera (o estratti di una lettera) del 28 agosto 1896 del Nigra a un «caro amico» che il Richelmy crede di poter identificare col marchese Visconti-Venosta perché con lo stesso, in quei giorni, il Nigra scambiò alcuni telegrammi sul medesimo argomento. Nigra informa che il principe Lobanov (forse ambasciatore russo a Vienna, dove il Nigra era ambasciatore) lo ha informato di alcune pratiche che il Negus Menelik ha fatto presso lo Zar. Il Negus aveva fatto sapere allo Zar di essere disposto ad accettare la mediazione della Russia per la conclusione della pace coll'Italia ecc. Il Nigra conchiude: «Per me è evidente una cosa. Dopo l'affare del trattato di Uccialli, il Negus è diffidente verso di noi, sospettando sempre che dal nostro plenipotenziario gli si cangino le clausole pattuite. Questa diffidenza, che è invincibile, ha consigliato il Negus di chiedere di trattare per mezzo della Russia al fine di avere un testimone idoneo e potente. La cosa è dura per il nostro amor proprio, ma ormai il nostro paese deve persuadersi che quando si adoperano diplomatici come Antonelli, generali come Baratieri, e ministri come Mocenni, non si possono avere pretese soverchie». («Mani vuote, ma sporche» – machiavellismo da rigattieri ecc.).

 

 

La diplomazia italiana prima del 1914. Un documento molto interessante e curioso su questo argomento è il volume di Alessandro De Bosdari, Delle guerre balcaniche, della grande guerra e di alcuni fatti preceduti ad esse, (ed. Mondadori). La «Nuova Antologia» del 1° settembre 1927 ne riproduce un capitolo: «Lo scoppio della guerra balcanica visto da Sofia», dove si leggono amenità di questo genere: «Non posso negare che la profonda convinzione dell'orientazione austriaca, sicura e permanente guida dello Zar dei Bulgari in tutta la sua politica estera, da me acquisita fin dagli ultimi mesi del 1911, non mi abbia impedito di vederci chiaro nella Lega balcanica e nella imminenza della guerra contro la Turchia. A tanti anni di distanza non so troppo (!) rimproverarmelo perché se non vidi venire un fatto accessorio (?!) e per cosí dire (!) episodico della politica bulgara, ciò fu unicamente perché vedevo troppo chiara (e lo dice sul serio!) la linea principale. Fu come chi dicesse un fenomeno di presbitismo politico, ed in politica il presbitismo è migliore della miopia, come questa è senza dubbio migliore di quella cecità assoluta di cui debbo dire a mio discarico (!), fecero prova, in quella ed in tante susseguenti occasioni, molti miei colleghi».

Il brano è interessante anche da altri punti di vista, oltre quello particolare del giudizio sulla diplomazia italiana. Il candore ameno porta il De Bosdari a dire manifestamente ciò che altri pensano per giustificare i propri errori e non dicono apertamente in questa forma. Esiste una linea non formata di «fatti accessori» e di «episodi» come dice il De Bosdari? E comprendere una linea non significa riuscire a comprendere e quindi a prevedere e organizzare questa catena di fatti accessori? Chi parla di linea in questo senso, in realtà intende dire una «categoria sociologica», un'«astrazione». Qualche volta indovina? È vero, ma a questo proposito si potrebbe citare il pensiero di Guicciardini sull'«ostinazione».

 

A proposito dell'incidente del Carthage e del Manouba tra Italia e Francia occorre confrontare la versione che sull'origine dei fatti dà Alberto Lumbroso nel secondo volume della sua opera-zibaldone sulle Origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale (Collezione Gatti, ed. Mondadori) col paragrafo di Tittoni (Veracissimus!) dedicato all'incidente stesso nell'articolo I documenti diplomatici francesi (1911-1912), pubblicato nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1929 e forse ristampato in volume (nelle edizioni Treves dei libri di Tittoni). L'esposizione del Tittoni è evidentemente non chiara e reticente: ora egli era appunto l'ambasciatore italiano a Parigi al quale, secondo il Lumbroso, Poincaré si era rivolto assicurandolo che il Carthage e il Manouba non contenevano contrabbando di guerra e pregandolo di telegrafare a Roma perché i due battelli non fossero fermati. È strano come il Tittoni, che è cosí sensibile per tutto ciò che riguarda la sua carriera, non accenni al Lumbroso o per smentirlo o per sminuire l'effetto della sua versione. Bisogna però ricordare che il Tittoni pare abbia in disdegno le abborracciature del Lumbroso, e questi gli rimprovera di non tener conto dei documenti tedeschi sulla guerra e quindi di essere perciò tedescofobo (per ciò che riguarda le responsabilità dello scatenamento del conflitto).

 

Nella recensione del libro di Salandra La neutralità italiana di Giuseppe A. Andriulli pubblicata nell'ICS del maggio 1928 si accenna al fatto che già prima che Sonnino andasse agli Esteri, il ministro di San Giuliano aveva intavolato trattative con l'Intesa e che i collaboratori di San Giuliano affermavano che queste trattative erano impostate in modo ben diverso che da Sonnino, specialmente rispetto alla parte coloniale. Perché queste trattative furono troncate da Sonnino e si aprirono invece le trattative con l'Austria? Salandra ancora non spiega le ragioni dell'accordo con la Germania del maggio '15 per le proprietà private (accordo fatto subito divulgare dai tedeschi per mezzo del «Bund», giornale svizzero) e le ragioni della ritardata dichiarazione di guerra alla Germania (cosa che creò diffidenza verso l'Italia da parte dell'Intesa, di cui si giovò Sisto di Borbone).

 

 

Tittoni. Ha certamente avuto sempre molta importanza l'opinione di Tittoni nello stabilire i programmi di politica estera del governo dal '23 in poi: seguire l'attività pratica e letteraria di Tittoni in questi anni. Alla sua raccolta di articoli di politica estera del 1928, Quistioni del giorno, ha fatto precedere una interessante prefazione politica il Capo del Governo. Passato di Tittoni. Sua attività. Giudizi su Tittoni di diplomatici stranieri (vedi i Carnets di Georges Louis, ecc.). Suoi rapporti con Isvolsky. (Libro nero di Marchand).

Tittoni come letterato e la sua fissazione linguaiola, curiosa perché la «Nuova Antologia» pubblica cose errorose per la lingua, specialmente traduzioni, ecc. Vedi l'articolo Per la verità storica, firmato «Veracissimus», nella «Nuova Antologia» del 16 marzo-1° aprile 1928: l'autore (Tittoni) vi parla dei suoi rapporti con Isvolsky, dei suoi rapporti con la stampa francese (Isvolsky in un rapporto pubblicato dal Libro Nero aveva accennato al molto denaro che Tittoni distribuí alla stampa al tempo della guerra libica, ecc.), fa degli accenni interessanti al convegno di Racconigi del 1909. Ricordare il libro di Alberto Lumbroso sulle cause economiche della guerra e i suoi accenni a Tittoni (nell'episodio del Carthage e Manouba accennato dal Lumbroso quanta responsabilità spetta a Tittoni?). Nell'articolo c'è anche un accenno rozzo (da mercante di campagna, direbbe Georges Louis) all'ambasciata attuale russa a Parigi e ai suoi possibili contatti col conte Manzoni. (Perché questo animus particolarmente aggressivo di Tittoni? Ricordare lo scandalo provocato nel 1925 – mi pare – dal Tittoni come Presidente del Senato e per cui il governo dovette domandare scusa. L'episodio piú interessante della vita di Tittoni è la sua permanenza a Napoli come prefetto in un tempo di grandi scandali: nella stampa del tempo si potrà trovare il materiale; forse nella «Propaganda», ecc.).

 

Per tutto un lungo periodo dovette esistere una specie di censura preventiva o un impegno di non scrivere le proprie memorie da parte dei diplomatici e in genere degli uomini di Stato italiani, tanto poca è la letteratura in proposito. Dal 1919 in poi abbiamo una certa abbondanza, relativa, ma la qualità è molto scadente. (Le memorie di Salandra sono «inconcepibili» in quella forma pacchiana). Il libro di Alessandro De Bosdari, Delle guerre balcaniche e della grande guerra e di alcuni fatti precedenti ad esse (Milano, Mondadori, 1927, pp. 225, L. 15), secondo una breve nota di P. Silva nell'«Italia che scrive» dell'aprile 1928, è privo d'importanza per il fatto che l'autore insiste specialmente sui fatterelli personali e non sa organicamente rappresentare la propria attività in una esposizione degli avvenimenti che getti su di essi una qualche luce utile. (Su un capitolo di questo libro, pubblicato dalla «Nuova Antologia» ho scritto una nota a proposito dei giudizi del Bosdari sulla diplomazia italiana).

 

 

La quistione italiana. Sono da vedere i discorsi tenuti dal Ministro degli Esteri Dino Grandi al Parlamento nel 1932 e le discussioni che da quei discorsi derivarono nella stampa italiana e internazionale. L'on. Grandi impostò la quistione italiana come quistione mondiale, da risolversi necessariamente insieme alle altre che costituiscono l'espressione politica della crisi generale del dopoguerra, intensificatasi nel 1929 in modo quasi catastrofico, e cioè: il problema francese della sicurezza, il problema tedesco della parità di diritti, il problema di un nuovo assetto degli Stati danubiani e balcanici. L'impostazione dell'on. Grandi è un abile tentativo di costringere ogni possibile Congresso mondiale chiamato a risolvere questi problemi (e ogni tentativo della normale attività diplomatica) ad occuparsi della «questione italiana» come elemento fondamentale della ricostruzione e pacificazione europea e mondiale. In che consiste la questione italiana secondo questa impostazione? Consiste in ciò che l'incremento demografico è in contrasto con la relativa povertà del paese, e cioè nell'esistenza di un superpopolamento. Occorrerebbe pertanto che all'Italia fosse data la possibilità di espandersi, sia economicamente, sia demograficamente ecc. Ma non pare che la quistione cosí impostata sia di facile soluzione e non possa dar luogo ad obbiezioni fondamentali. Se è vero che i rapporti generali internazionali, cosí come si vengono sempre piú irrigidendo dopo il 1929, sono molto sfavorevoli all'Italia (specialmente il nazionalismo economico ed il «razzismo» che impediscono la libera circolazione non solo delle merci e dei capitali ma soprattutto del lavoro umano), può anche essere domandato se a suscitare e irrigidire tali nuovi rapporti non abbia contribuito e contribuisca tuttora la stessa politica italiana. La ricerca principale pare debba essere in questo senso: il basso saggio individuale di reddito nazionale è dovuto alla povertà «naturale» del paese oppure a condizioni storico-sociali create e mantenute da un determinato indirizzo politico che fanno dell'economia nazionale una botte delle Danaidi? Lo Stato, cioè, non costa troppo caro, intendendo per Stato, come è necessario, non solo l'amministrazione dei servizi statali, ma anche l'insieme delle classi che lo compongono in senso stretto e lo dominano? Pertanto è possibile pensare che senza un mutamento di questi rapporti interni, la situazione possa mutare in meglio anche se internazionalmente i rapporti migliorassero? Può anche essere osservato che la proiezione nel campo internazionale della questione può essere un alibi politico di fronte alle masse del paese.

Che il reddito nazionale sia basso, può concedersi, ma non viene poi esso distrutto (divorato) dalla troppa popolazione passiva, rendendo impossibile ogni capitalizzazione progressiva, sia pure con ritmo rallentato? Dunque la quistione demografica deve essere a sua volta analizzata, e occorre stabilire se la composizione demografica sia «sana» anche per un regime capitalistico e di proprietà. La povertà relativa «naturale» dei singoli paesi nella civiltà moderna (e in tempi normali) ha una importanza anch'essa relativa; tutt'al piú impedirà certi profitti marginali di «posizione» geografica. La ricchezza nazionale è condizionata dalla divisione internazionale del lavoro e dall'aver saputo scegliere, tra le possibilità che questa divisione offre, la piú razionale e redditizia per ogni paese dato. Si tratta dunque essenzialmente di «capacità direttiva» della classe economica dominante, del suo spirito d'iniziativa e di organizzazione. Se queste qualità mancano, e l'azienda economica è fondata essenzialmente sullo sfruttamento di rapina delle classi lavoratrici e produttrici, nessun accordo internazionale può sanare la situazione.

Non si ha esempio, nella storia moderna, di colonie di «popolamento»; esse non sono mai esistite. L'emigrazione e la colonizzazione seguono il flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non viceversa. La crisi attuale che si manifesta specialmente come caduta dei prezzi delle materie prime e dei cereali mostra che il problema appunto non è di ricchezza «naturale» per i vari paesi del mondo, ma di organizzazione sociale e di trasformazione delle materie prime per certi fini e non per altri. Che si tratti di organizzazione e di indirizzo politico-economico appare anche dal fatto che ogni paese a civiltà moderna ha avuto «emigrazione» in certe fasi del suo sviluppo economico, ma tale emigrazione è cessata e spesso è stata riassorbita.

Che non si vogliano (o non si possa) mutare i rapporti interni (e neppure rettificarli razionalmente) appare dalla politica del debito pubblico, che aumenta continuamente il peso della passività «demografica», proprio quando la parte attiva della popolazione è ristretta dalla disoccupazione e dalla crisi. Diminuisce il reddito nazionale, aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è disinvestito dal processo produttivo e viene riversato nel debito pubblico, cioè fatto causa di nuovo parassitismo assoluto e relativo.

 

 

Italia e Yemen nella nuova politica arabica. Articolo di «tre stelle» nella «Rivista d'Italia» del 15 luglio 1927. Trattato di Sana del 2 settembre 1926 tra Italia e Yemen. Lo Yemen è la parte piú fertile dell'Arabia (Arabia felice). È stato sempre autonomo di fatto, sotto una dinastia di imam che discende da el-Usein, secondo figlio del califfo Alí e di Fatimah, figlia di Maometto. Solo nel 1872 i turchi stabilirono il loro dominio nello Yemen. Nel 1903 insurrezione, che nel 1904 trovò nel nuovo imam Yahyà ibn-Mohammed Hamid, di 28 anni, il suo capo. Vinto nel 1905, Yahyà riprese la lotta nel 1911 aiutato dall'Italia che era in guerra con la Turchia e consolidò la sua indipendenza. Nella guerra europea Yahyà parteggiò per la Turchia per opporsi alla politica inglese imperniata sull'ingrandimento dello sceriffo Husein (proclamatosi re dell'Arabia il 6 novembre 1916) e sull'indipendenza dell'Asir. Dopo la pace, tramontato il programma unitario di Husein che abdicò nel '24 e nel '25 fu relegato a Cipro, rimase la quistione dell'Asir. L'Asir è un emirato creato durante la guerra italo-turca. Nell'Asir si era stabilito il famoso santone marocchino Ahmed ibn-Idris el-Hasani el-Idrisi, il cui discendente Mohammed Alí, noto come lo sceicco Idris durante la guerra libica, appoggiato dall'Italia, sollevò le tribú dell'Asir. Riconosciuto emiro indipendente dagli Inglesi nel 1914, Mohammed collaborò con Husein ed ebbe dagli Inglesi la Tihamah con Hodeidah; fece la concessione a una compagnia inglese di giacimenti petroliferi delle isole Farsan. Stretto tra Husein a Nord e Yahyà a Sud, l'emiro si legò nel 1920 al sultano del Negged (Ibn Saud) cedendogli, per averne la protezione, Abha, Muhail e Beni Shahr, cioè la parte estrema dell'Asir settentrionale e assicurandogli uno sbocco sul mar Rosso. I Wahhabiti occuparono quelle terre e se ne servirono per combattere meglio l'Heggias (Husein). Nel 1926 (8 gennaio) i Wahhabiti vittoriosi proclamarono Ibn Saud re dell'Heggias. I Wahhabiti si mostravano i piú capaci di unificare l'Arabia; Yahyà con un proclama del 18 giugno 1923 aveva posto la sua candidatura a califfo e a campione della nazione araba. Riuscí con imprese fortunate ad assicurarsi l'effettivo controllo dei numerosi sultanati e tribú del cosí detto Hadramaut e a restringere notevolmente l'hinterland di Aden, senza nascondere le sue mire su Aden stessa. Si gettò poi contro l'emiro dell'Asir (che per lui era un usurpatore) e conquistò tutta la parte meridionale sino a Loheyyah e compresa Hodeidah, venendo a contatto coi Wahhabiti che avevano allargato, a richiesta dell'emiro, la loro occupazione dell'Asir. L'emiro dell'Asir si lasciò spingere dall'ex-senusso ad atti di ostilità verso l'Italia (l'ex-senusso era ospite alla Mecca di Ibn Saud dopo la sua espulsione da Damasco – dicembre 1924 –).

Col trattato italo-yemenita, a Yahyà è riconosciuto il titolo regio e la piena e assoluta indipendenza. Lo Yemen importerà le sue forniture dall'Italia, ecc. (Ibn Saud fece un trattato con l'Inghilterra il 26 dicembre 1915 ed ebbe il possesso non solo del Negged, ma anche di el-Hasa, el-Qatif e Giubeil, in cambio del suo disinteressamento per Koweit, el-Bahrein e Oman che, come è noto, sono sotto il protettorato inglese. In una discussione ai Comuni del 28 novembre 1922 risultò ufficialmente che Ibn Saud percepiva dal governo inglese regolare stipendio. Coi trattati del 1° e 2 novembre 1925, dopo la conquista dello Heggias, Ibn Saud accettò confini molto infelici con l'Irak e la Transgiordania che Husein non aveva voluto accettare, ciò che dimostrò la sua stretta intesa con l'Inghilterra). Il trattato italo-yemenita fece rumore: si parlò di una alleanza politica e militare segreta; in ogni modo i Wahhabiti non attaccarono lo Yemen (si parlò di attriti italo-inglesi ecc.). Rivalità tra Ibn Saud e Yahyà: ambedue aspirano a promuovere e dominare l'unità araba.

Wahhabiti: setta musulmana fondata da Abd-el-Wahhab che cercò di allargarsi con le armi; ebbe molte vittorie ma fu ricacciata nel deserto dal famoso Mehemet Alí e da suo figlio Ibrahim pascià. Il sultano Abdallah, catturato, fu giustiziato a Costantinopoli (dicembre 1818) e suo figlio Turki a stento riuscí a mantenere uno staterello nel Negged. I Wahhabiti vogliono tornare alla pura lettera del Corano, sfrondando tutte le superstrutture tradizionali (culto dei santi, ricche decorazioni delle moschee, pompe religiose). Appena conquistata la Mecca, hanno abbattuto cupole e minareti, distrutto i mausolei di santoni celebri, fra cui quello di Khadigia, la prima moglie di Maometto, ecc. Ibn Saud emanò ordinanze contro il vino e il fumo, per la soppressione del bacio della «pietra nera» e dell'invocazione a Maometto nella formula della professione di fede e nelle preghiere.

Le iniziative puritane dei Wahhabiti sollevarono proteste nel mondo musulmano; i governi di Persia e dell'Egitto fecero rimostranze. Ibn Saud si moderò. Yahyà cerca di speculare su questa reazione religiosa. Yahyà e la maggioranza degli yemeniti seguono il rito zeidita, cioè sono eretici per la maggioranza sunnita degli arabi. La religione è contro di lui, egli cerca di premere perciò sulla nazionalità e sul fatto della sua discendenza dal profeta che gli fa rivendicare la dignità di califfo. (Nel tallero da lui coniato c'è la scritta: «coniato nella sede del califfato a Sana»). La sua regione, essendo delle piú fertili dell'Arabia, e la sua posizione geografica gli danno una certa possibilità economica.

Pare che lo Yemen abbia 170.000 Km2 di superficie, con una popolazione tra 1 e 2 milioni. Sull'altipiano la popolazione è araba pura, bianca, sulla costa è prevalentemente negra. C'è un certo apparato amministrativo, scuole embrionali, esercito con leva obbligatoria. Yahyà è intraprendente e di tendenze moderne sebbene geloso della sua indipendenza. Per l'Italia lo Yemen è la pedina per il mondo arabico.

 

 

Articolo di Roger Labonne nel «Correspondant» del 10 gennaio 1927 su Italia e Asia Minore. L'Italia si interessa per la prima volta nel 1900 dell'Asia Minore: invia una serie di missioni che studiano l'Anatolia meridionale, stabilisce ad Adalia un vice-console, delle scuole, un ospedale, sovvenziona le linee di navigazione che portano la sua bandiera lungo il litorale. S'interessa soprattutto di Smirne, del cui porto fa il centro della sua influenza nel Levante. Gli articoli 8 e 9 del Patto di Londra dicono: «L'Italia riceverà l'intera sovranità del Dodecanneso. In caso di divisione totale o parziale della Turchia, essa otterrà la regione mediterranea che avvicina la provincia di Adalia e che ha già fatto (!) una convenzione coll'Inghilterra». A San Giovanni di Moriana l'Italia precisa nuovamente la sua richiesta (21 aprile 1917). Venizelos, approfittando della partenza di Orlando e Sonnino da Parigi, spinse gli alleati ad assegnare Smirne alla Grecia. Il 1° gennaio 1926, nel discorso di Milano, Mussolini dice: «Bisogna aver fede nella Rivoluzione, che avrà nel 1926 il suo anno napoleonico». Nel '26 non si produsse nulla di veramente notevole, ma per due volte si fu alla vigilia di avvenimenti serii. Cessione di Mossul all'Irak (cioè agli inglesi). La Turchia cedette davanti all'imminenza di un intervento italiano, dopo di aver invano domandato il concorso militare di Mosca in caso di conflitto sul Meandro e sul Tigri. I giornali londinesi confessano ingenuamente che il successo di Mossul è dovuto alla pressione italiana, ma il governo inglese non si preoccupa troppo dell'Italia. Nel gioco anatolico l'Italia ha perduto nel 1926 le sue due carte migliori: con l'accordo di Mossul e con la caduta di Pangalos.

 

Il «Correspondant» del 25 luglio 1927 (vedi «Rivista d'Italia» del 15 luglio 1927: forse c'è errore nelle date, a meno che la «Rivista d'Italia» non sia uscita molto piú tardi della sua datazione) in un articolo, La pression italienne, ha scritto: «Il Duce, lo teniamo da fonte eccellente, avrebbe già voluto due volte la guerra dopo il suo avvento al potere: due volte il maresciallo Badoglio avrebbe rifiutato di prenderne la responsabilità ed avrebbe domandato ed ottenuto di attendere fino al 1935 per essere sicuro». Il discorso sull'anno cruciale è del giugno 1927: il «Correspondant» cercherebbe quindi di dare una spiegazione di questa determinazione avvenire. Il «Correspondant» è rivista molto autorevole conservatrice-cattolica.

 

 

Italia ed Egitto. Articolo di Romolo Tritoni nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928, Le Capitolazioni e l'Egitto (che sarebbe un capitolo di un Manuale di questioni politiche dell'Oriente musulmano di prossima pubblicazione ma che non ho visto annunziato o recensito. Il Tritoni è anche autore di un volume, È giunto il momento di abolire le Capitolazioni in Turchia?, pubblicato a Roma nel 1916, e collabora spesso alla «Nuova Antologia» e alla «Politica» di Coppola. Chi è? È uno dei vecchi nazionalisti? Non ricordo. Mi pare serio e informato: è specialista nelle quistioni del prossimo Oriente. Vedere).

È favorevolissimo alle Capitolazioni, specialmente in Egitto, da un punto di vista europeo e italiano: sostiene la necessità della unità fra gli Stati europei nella quistione, ma prevede che questa unità d'azione non sarà mantenuta per il distacco dell'Inghilterra. Coi 4 punti sull'Egitto già l'Inghilterra tentò di staccarsi dall'Europa affermando di riservarsi la «protezione degli interessi stranieri», clausola non chiara perché sembrava che l'Inghilterra si arrogasse la protezione, escludendone le altre potenze; ma fu spiegato che alla prossima conferenza sulle Capitolazioni l'Inghilterra parteciperebbe su di un piede di uguaglianza con gli altri Stati capitolari.

L'Inghilterra ha in Egitto una colonia molto esigua (se si tolgono i funzionari britannici nell'Amministrazione egiziana e i militari) e accettando l'abolizione delle Capitolazioni venderebbe la pelle degli altri. Per ingraziarsi i nazionalisti, metterebbe in cattiva luce gli altri europei (questo è il punto delicato che preme agli italiani: essi vorrebbero aver amici i nazionalisti, ma fare la politica della colonia italiana in Egitto lasciando l'odiosità della situazione creata dall'Europa all'Egitto sulle spalle dell'Inghilterra: vedere nelle riviste i giudizi sugli avvenimenti egiziani nel 1929-30: sono contradditori, impacciati: l'Italia è favorevole alle nazionalità ma... ecc.; la stessa situazione per l'India, ma nell'Egitto gli interessi sono molto forti e le ripercussioni dei giudizi piú immediate).

La colonia italiana in Egitto è molto selezionata, cioè è di quel tipo i cui elementi sono giunti già alla terza o quarta generazione passando dall'emigrato proletario all'industriale, commerciante, professionista; mantenuto il carattere nazionale, aumentano la clientela commerciale dell'Italia, ecc. ecc. (sarebbe interessante vedere la composizione sociale della colonia italiana: è però probabile che un ragguardevole numero di emigrati dopo tre o quattro generazioni sia salito di classe sociale: in ogni modo le Capitolazioni dànno unità alla colonia e permettono ai funzionari italiani e ai borghesi di controllare tutta la massa degli emigrati).

Nei paesi del Mediterraneo dove [sono] abolite le Capitolazioni, l'emigrazione italiana o è cessata, o viene gradualmente eliminata (Turchia) o si trova nelle condizioni della Tunisia, dove si cerca di snazionalizzarla. Abolizione delle Capitolazioni significa snazionalizzazione dell'emigrazione (altra quistione, data dal fatto che l'Italia è potenza esclusivamente mediterranea e ogni mutamento in questo mare la interessa piú che ogni altra potenza).

Naturalmente il Tritoni vorrebbe mantenersi amici gli Egiziani con queste sue opinioni e riconosce che «è di capitale importanza per noi essere amici del loro Paese».

 

 

L'Etiopia d'oggi (articolo della «Rivista d'Italia» firmato tre stelle). L'Etiopia è il solo Stato indigeno indipendente in un'Africa ormai tutta europea (oltre la Liberia). Menelik è stato il fondatore della moderna unità etiopica: i nazionalisti abissini si richiamano a Menelik, il «grande e buono imperatore». Degli elementi che hanno contribuito ad assicurare l'indipendenza dell'Etiopia due sono evidenti: la struttura geografica del paese e la gelosia fra le potenze. La struttura geografica fa dell'Etiopia un immenso campo trincerato naturale, espugnabile solo con forze smisurate e sacrifizi non proporzionati alle scarse risorse economiche che il paese può offrire all'eventuale conquistatore. Lo Scioa, che ha creato l'unità abissina, è a sua volta una fortezza nel campo trincerato e tutto lo guarda e lo domina. Nell'ultimo trentennio è stato creato un esercito imperiale, distinto dai piccoli eserciti dei ras e ad essi superiore tecnicamente; la creazione dell'esercito nazionale è dovuta a Menelik. Già prima della morte di Menelik (1913) la Corte, dato lo sfacelo intellettuale del vecchio imperatore, aveva proclamato (14 aprile 1910) imperatore Ligg Jasu, figlio di una figlia di Menelik, e di ras Mikael. Alla morte di Menelik (11 dicembre 1913) le lotte si scatenarono: Zeoditú, altra figlia di Menelik, e ras Tafari, figlio di ras Makonnen, si coalizzarono e riuscirono ad avere un imponente numero di partigiani. Tafari aveva con sé i giovani. Ras Mikael, tutore di Ligg Jasu minorenne, fu incapace di imporsi alle fazioni e di assicurare l'ordine pubblico come risultò in occasione dell'assalto del 17 maggio 1916 alla Legazione d'Italia. La guerra europea salvò l'Abissinia da un intervento straniero e dette la possibilità all'Abissinia di superare la crisi da sé. Zeoditú e Tafari si unirono per detronizzare Ligg Jasu e dividersi il potere, Zeoditú come imperatrice nominale, l'altro quale erede al trono e reggente (27 settembre 1916). Tafari, appoggiato dai capi militari, ha saputo con energia e scaltrezza ridurre all'obbedienza il paese. Ma il condominio con Zeoditú offrí spesso il destro a intrighi di palazzo non sempre innocui. (Alla fine del '26 o principio del '27) sparirono quasi contemporaneamente il ministro della guerra, fitaurari Hapte Gheorghes e il capo della Chiesa, abuna Mattheos.

La morte dell'abuna ha scatenato la quistione della chiesa nazionale. La chiesa etiopica riconosceva la suprema autorità del patriarca copto di Alessandria che nominava all'alto ufficio di abuna un egiziano (Mattheos era egiziano). Il nazionalismo etiopico vuole un abuna abissino. L'abuna ha in Abissinia una grandissima importanza (piú che l'arcivescovo-primate delle Gallie in Francia) e il fatto che sia straniero presenta dei pericoli, nonostante che la sua autorità sia corretta e in un certo senso controllata dall'echegheh indigeno dal quale dipendono direttamente i numerosi ordini monastici. La parte presa da Mattheos nel colpo di Stato del 27 settembre 1912 a favore di Tafari ha mostrato ciò che potrebbe avvenire. (Quando l'articolo [veniva] pubblicato il patriarca d'Alessandria resisteva ancora alla pretesa abissina: vedere il seguito della quistione). (L'Abissinia ha una capitale religiosa: Aksum). Tafari ha cercato di imprimere un ritmo nuovo alla politica estera abissina. Menelik aveva cercato di limitare la schiavitú e di introdurre l'istruzione obbligatoria, avviando lo Stato verso forme moderne, ma si teneva in un'attitudine di dissidente isolamento. Tafari invece ha cercato di partecipare alla vita europea e si è fatto ammettere nella Lega delle Nazioni, impegnandosi formalmente a estirpare nel piú breve termine possibile la schiavitú. E infatti emanò un bando che imponeva la graduale liberazione degli schiavi, ma finora senza risultato. Gli schiavisti molto forti. (D'altronde l'Etiopia ancora feudale).

Convenzione di Londra del 13 dicembre 1906 fra Italia, Francia, Inghilterra, con cui i tre confinanti si impegnarono: a rispettare lo statu quo politico e territoriale dell'Etiopia; a mantenere, in caso di contese o mutamenti interni, la piú stretta neutralità, astenendosi da ogni intervento negli affari interni del paese; qualora lo statu quo fosse turbato, a cercare di mantenere l'integrità dell'Etiopia, tutelando in ogni caso i rispettivi interessi: per l'Inghilterra il bacino del Nilo e la regolarizzazione delle acque di quel fiume e dei suoi affluenti; per l'Italia l'hinterland dei suoi possedimenti dell'Eritrea e della Somalia e l'unione territoriale tra essi ad ovest di Addis Abeba; per la Francia l'hinterland di Gibuti e la zona necessaria per la costruzione e il traffico della ferrovia Gibuti - Addis Abeba. Le tre potenze si impegnavano di aiutarsi scambievolmente per la protezione dei loro rispettivi interessi.

L'accordo fu concepito in pieno «giro di valzer» dell'Italia con le potenze occidentali, e cioè in pieno sviluppo di quel vasto programma di intese mediterranee (l'accordo di Londra era stato conchiuso in massima il 6 luglio, tre mesi dopo Algesiras) che fu troncato un paio d'anni dopo sotto il ricatto (!) dello stato maggiore austriaco. Cosí alla politica di cooperazione succedette una lotta a colpi di spillo: la sola a guadagnarci fu la Francia che poté prolungare la ferrovia fino ad Addis Abeba (la diplomazia sostiene che l'accordo di Londra fu sottoposto preventivamente a Menelik e firmato solo quand'egli ebbe dato il nulla osta ai ministri delle tre potenze accreditati presso di lui, cosicché le stipulazioni dell'accordo sarebbero anche concessioni implicitamente (!) promesse dall'Abissinia, qualcosa come la situazione del famoso trattato di Uccialli, ancora peggiorato).

Dopo la guerra europea, durante le trattative per i compensi coloniali fissati dal patto di Londra, l'Italia propose di ravvivare l'accordo del 1906, volendo risolvere il problema del congiungimento ferroviario tra l'Eritrea e la Somalia. Ma Londra e Parigi rifiutarono. La Francia non aveva nulla da chiedere all'Abissinia dopo la ferrovia Gibuti - Addis Abeba; l'Inghilterra credeva di ottenere tutto senza unirsi all'Italia. Ma l'Inghilterra fece poi l'accordo del 1925 (due note scambiate tra Mussolini e l'ambasciatore inglese a Roma il 14 e il 20 dicembre 1925). Per esso: l'Italia si impegna ad appoggiare l'Inghilterra nei suoi tentativi per ottenere dall'Etiopia la concessione di lavori di sbarramento al Lago Tana, nella zona che nel 1906 era riservata all'influenza italiana e la concessione di un'autostrada fra il Sudan e il Tana; l'Inghilterra ad appoggiare l'Italia per ottenere la costruzione e l'esercizio di una ferrovia tra l'Eritrea e la Somalia italiana ad ovest di Addis Abeba; l'Inghilterra riconosce all'Italia l'influenza esclusiva (!) nella zona occidentale dell'Etiopia e in tutto il territorio destinato ad essere attraversato dalla ferrovia, con l'impegno da parte dell'Italia di non compiere in quella zona, sulle sorgenti del Nilo Azzurro e del Nilo Bianco e dei loro affluenti, alcuna opera che possa sensibilmente modificare il loro afflusso nel fiume principale. La Francia sollevò gran rumore su questo accordo, presentato come una minaccia dell'indipendenza abissina. La campagna francese ebbe gravi ripercussioni sul nazionalismo etiopico. Ras Tafari [ha] creato due tipografie per la stampa in lingua amarica: sviluppo di letteratura nazionalista incoraggiato da Tafari: xenofobia. Il Giappone è il modello del nazionalismo abissino.

L'articolo della «Rivista d'Italia» riporta brani di articoli e opuscoli: uno studente che [è stato] educato in America scrive: «Impariamo fortemente, apprendiamo molto, perché non vengano gli stranieri a governarci!... Dobbiamo studiare piú che possiamo, perché, se non studiamo, la nostra patria è finita». La Francia desta meno sospetti ad Addis Abeba, perché dopo Fascioda, Gibuti ha per essa solo l'importanza di uno scalo sulla via dell'Indocina. Inoltre, la ferrovia Gibuti - Addis Abeba, che serve tutto il traffico esterno dell'Etiopia, dà alla Francia un monopolio che essa vorrebbe conservare: la Francia può quindi fare una politica di apparente disinteressamento. Ma Ras Tafari vuol far progredire l'Etiopia e quindi [è] favorevole ad altre ferrovie, opere idrauliche ecc.

Esiste ancora tra l'Etiopia e l'Italia una piccola quistione a proposito dei confini tra Etiopia e Somalia. Quando dopo la convenzione di Addis Abeba del 16 maggio 1908 fu definita la frontiera, la missione Citerni eseguí il tracciato sul terreno per quel che riguardava il Benadir. Si lasciò da parte la frontiera del sultanato di Obbia che non presentava urgenza data la speciale situazione di quel protettorato. Ma oggi Obbia [è] occupata dalle armi italiane e bisognerà fissare il tracciato del confine con l'Etiopia.

 

 

Roberto Cantalupo, La Nuova Eritrea, «Nuova Antologia», 1° ottobre 1927. (Funzioni dell'Eritrea: 1) economica: intensificare la sua capacità produttiva e commerciale di esportazione e di importazione, cercando di farne un complemento della Madre Patria e di renderla attiva finanziariamente; 2) politica: dare all'Eritrea una posizione e una funzione tali da rendere possibile un maggior contatto con gli stati arabici della riva asiatica del Mar Rosso, nel restaurare i rapporti economici tra Asmara ed il confinante Ovest etiopico, in modo che l'Eritrea diventi il naturale sbocco al mare delle regioni dell'Abissinia settentrionale e naturale porto di transito delle zone centrali e meridionali della Penisola arabica, dopo che Porto Sudan è diventato sbocco di tutto l'Ovest sudanese e entrepôt dell'Arabia settentrionale).

Dati del Cantalupo ormai invecchiati. Problemi dell'Etiopia: oltre a lotta d'influenza tra Inghilterra, Italia, Francia, potenze confinanti, quali influssi esercitano o possono esercitare ad Addis Abeba gli Stati Uniti e la Russia. Come unico Stato indigeno libero dell'Africa, l'Etiopia può diventare la chiave di tutta la politica mondiale africana, cioè il punto di collisione delle tre potenze mondiali (Inghilterra, Stati Uniti, Russia). L'Etiopia potrebbe mettersi alla testa di un movimento per l'Africa agli Africani.

Sulla situazione sociale etiopica, in cui la chiesa [ha] grande importanza per struttura feudale, cfr. Alberto Pollera, Lo Stato etiopico e la sua Chiesa, pubblicato a cura della Regia Società Geografica (il Pollera è un funzionario coloniale italiano).

 

 

Il nazionalismo italiano. Primo congresso del Partito Nazionalista (Associazione Nazionalista) a Firenze nel dicembre 1910, con la presidenza di Scipio Sighele: Gualtiero Castellini, Federzoni, Corradini, Paolo Arcari, Bevione, Bodrero, Gray, Rocco, Del Vecchio. Gruppo ancora indistinto, che cercava di cristallizzare intorno ai problemi della politica estera e dell'emigrazione le correnti meno pacchiane del tradizionale patriottismo (è un'osservazione poco fatta che in Italia, accanto al cosmopolitismo e apatriottismo piú superficiale è sempre esistito uno sciovinismo frenetico, che si collegava alle glorie romane e delle repubbliche marinaresche e alle fioriture individuali di artisti, letterati, scienziati di fama mondiale. Lo sciovinismo italiano è caratteristico ed ha dei tipi assolutamente suoi: esso era accompagnato da una xenofobia popolaresca anch'essa caratteristica). Il primo nazionalismo comprendeva molti democratici e liberali e anche massoni. Poi il movimento si andò distinguendo e precisando per opera di un piccolo gruppo di intellettuali che saccheggiarono le ideologie e i modi di ragionare secchi, imperiosi, pieni di mutria e di suffisance di Carlo Maurras: Coppola, Forges Davanzati, Federzoni. (Importazione sindacalista nel nazionalismo). In realtà i nazionalisti erano antirredentisti: la loro posizione fondamentale era antifrancese. Subirono l'irredentismo perché non volevano fosse un monopolio dei repubblicani e dei radicali massoni, cioè un'arma dell'influenza francese in Italia. Teoricamente la politica estera dei nazionalisti non aveva fini precisi: si poneva come una astratta rivendicazione imperiale contro tutti; in realtà voleva sopprimere la francofilia democratica e rendere popolare la alleanza tedesca.

 

 

Direzione politico-militare della guerra 1914-1918. Confronta l'articolo di Mario Caracciolo (colonnello) Il comando unico e il comando italiano nel 1918 nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Molto interessante e indispensabile per compilare definitivamente questa rubrica. Il Caracciolo è scrittore militare molto serio e che difficilmente si lascia trasportare dalla retorica. Ha scritto un volume nella Collezione Gatti presso Mondadori, Le truppe italiane in Francia.

Per ora mi interessa un particolare (che potrebbe apparire nella rubrica «Passato e presente»), legato alla ripetuta affermazione del Caracciolo della insufficienza dell'apparato industriale italiano: verso il gennaio-febbraio 1918 (cfr. il volume del Caracciolo citato per stabilire esattamente il fatto) l'Italia mandò in Francia 60.000 uomini, lavoratori ausiliari, «che avevamo disponibili perché la nostra industria ancora non aveva potuto darci tutte le armi necessarie per armarli». Questo elemento può dar luogo ad alcune conseguenze: 1) Come sia politicamente erroneo chiamare «imboscati» gli addetti all'industria in tempo di guerra. Erano essi necessari e indispensabili all'attività bellica? Erano tanto necessari che risulta esserci stati troppo pochi «imboscati», tanto da rendere inutilizzabili in Italia 60.000 uomini. Questa propaganda contro i pseudo-imboscati ebbe conseguenze deplorevoli: già prima dell'armistizio furono mandati a Torino dei reparti d'assalto che incominciarono subito la caccia all'«imboscato»; all'uscita dalle officine gli uomini dal bracciale di esonero, e poi nelle vie centrali, erano aggrediti, bastonati e spesso sfregiati in faccia; gli avvenimenti alla spicciolata culminarono nella notte di capodanno 1919 coi fatti di palazzo Siccardi. La censura non permise di fare neanche un cenno a questi avvenimenti.

2) La contrapposizione di combattenti e di esonerati e imboscati da fatto privato diventò fatto di diritto pubblico e ciò è l'aspetto piú grave della quistione, perché lasciò formarsi l'opinione che gli esonerati fossero dei veri «imboscati», non elementi indispensabili per l'attività bellica anche se non combattenti, con sanzione ufficiale. Per legge si deve preferire un ex combattente nelle officine, ecc. (Se nelle officine ci furono degli imboscati veri questi sono da ricercare specialmente nei tecnici di secondo grado: la riduzione al minimo delle operazioni di lavoro determinata dal limitato numero di oggetti fabbricati e dalla loro struttura elementare e il lavoro a serie, avevano ridotto la funzione da quella di maestro d'arte a quella di pura sorveglianza disciplinare: ciò unito all'ampliamento degli impianti dette la possibilità di imboscarsi a molta gente che non aveva mai avuto a che fare coll'industria; questi sono veri imboscati, perché il posto poteva essere assegnato a dipendenti anziani della fabbrica stessa. Cosí non può parlarsi di imboscati per i contadini che entrarono allora in quantità notevoli nelle fabbriche, direttamente dalle campagne o comandati dall'autorità militare. A Torino, la manovalanza delle officine era in gran parte costituita da soldati comandati d'origine contadina). In questi regolamenti sulla assunzione dei disoccupati non si fa neanche il caso speciale dei riformati, per i quali non essere stati combattenti è stato ancora piú involontario.

In Italia, col ristretto apparato industriale in confronto delle necessità del tempo di guerra, il problema è spinoso: necessariamente, l'industria metallurgica e meccanica, ma parzialmente anche altre industrie (chimiche, del legno, tessili) devono essere mobilitate e siccome la produzione deve essere teoricamente illimitata, anche ampliate: quindi non solo devono rimanere in officina le maestranze vecchie, ma dovranno farsi nuove assunzioni. La composizione dell'esercito sarà perciò in prevalenza contadina, mentre la maggior parte degli operai, o almeno una porzione ragguardevole, dovrà lavorare per l'attrezzamento e il munizionamento. Fare di questa necessità un elemento di agitazione demagogica e sanzionarla di inferiorità per gli addetti all'industria, potrà avere questa conseguenza (in assenza di una soluzione organica che è difficile: rotazione tra officina e fronte, ecc.): che realmente nelle officine vorranno rimanere i panciafichisti e che il problema della produzione subirà una crisi, cioè la guerra potrà essere perduta nelle officine per mancanza di rendimento.

 

Nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 è pubblicata una piccola nota a firma G. S. (o non era forse C. S., cioè Cesare Spellanzon? Sarebbe grossa!) Beneš l'immemore, abbastanza curiosa, perché si afferma che la «politica delle nazionalità» fu voluta dai nostri piú avveduti uomini politici, caldeggiata con pronto intuito dai maggiori giornali dell'interventismo, adottata spontaneamente dal governo italiano. È vero che G. S. scrive che questa politica si precisava sin d'allora «nei suoi veri termini», cioè favorevole specialmente all'Italia, ma non è neppure vero in questo senso ristretto, perché la politica delle nazionalità si «impose» solo dopo l'ottobre 1917. Ora G. S. si lamenta che Beneš nei suoi Souvenirs de guerre et de révolution (Ernest Leroux, Parigi) attenui i ricordi dell'amicizia «bellica» e giunga alla conclusione che tutti i guai dell'Italia durante e dopo la guerra siano da attribuirsi alla mancanza di chiarezza e di decisione della politica di guerra del paese.

 

In alcuni paesi la formazione delle truppe scelte d'assalto è stata catastrofica, a quanto pare: si è mandato alla distruzione la parte combattiva dell'esercito, invece di tenerla come elemento «strutturale» del morale della massa dei soldati. Secondo il generale Krasnov (nel suo famigerato romanzo) questo appunto era successo in Russia già nel 1915. Questa osservazione può valere come correttivo critico delle recenti opinioni espresse dal generale tedesco von Seeckt sulle armate specializzate di mestiere, che sarebbero buone specialmente per l'offensiva.

 

 

Caporetto. Sul libro del Volpe Ottobre 1917. Dall'Isonzo al Piave, cfr. la recensione di Antonio Panella nel «Pègaso» dell'ottobre 1930. La recensione è benevola ma superficiale. Caporetto fu essenzialmente un «infortunio militare»; che il Volpe abbia dato, con tutta la sua autorità di storico e di uomo politico, a questa formula il valore di un luogo comune soddisfa molta gente che sentiva tutta l'insufficienza storica e morale (l'abbiezione morale) della polemica su Caporetto come «crimine» dei disfattisti o come «sciopero militare». Ma è troppa la compiacenza per la validità di questo nuovo luogo comune, perché non debba esserci una reazione, che d'altronde è piú difficile di quella al precedente luogo comune, come appare dalla critica fatta dall'Omodeo al libro del Volpe. «Assolti» i soldati, la massa militare esecutiva e strumentale («l'outil tactique élémentaire» come Anatole France fa dire a un generale dei soldati), si sente che il processo non è finito: la polemica tra il Volpe e l'Omodeo sugli «ufficiali di complemento» è interessante come indizio. Pare, dall'Omodeo, che il Volpe misconosca l'apporto bellico degli ufficiali di complemento, cioè della piccola borghesia intellettuale e quindi indirettamente indichi questa come responsabile dell'«infortunio», pur di salvare la classe superiore, che è già messa al sicuro dalla parola «infortunio». La responsabilità storica deve essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e stati maggiori occupano una posizione determinata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente (vale anche qui l'«ubi maior, minor cessat»). Ma questa critica che sarebbe veramente feconda, anche dal punto di vista nazionale, brucia le dita.

 

Cfr. il libro del gen. Alberto Baldini sul generale Diaz (Diaz, in 8°, pp. 263, Barbèra ed., L. 15, 1929). Il generale Baldini pare critichi implicitamente Cadorna e cerchi di dimostrare che Diaz ebbe una importanza molto maggiore di quanto non gli sia riconosciuta.

In questa polemica sul significato di Caporetto bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e precisi:

1) Caporetto fu un fatto puramente militare? Questa spiegazione pare ormai acquisita agli storici della guerra, ma essa è basata su un equivoco. Ogni fatto militare è anche un fatto politico e sociale. Subito dopo la sconfitta si cercò di diffondere la convinzione che le responsabilità politiche di Caporetto fossero da ricercare nella massa militare, cioè nel popolo e nei partiti che ne erano l'espressione politica. Questa tesi è oggi universalmente respinta, anche ufficialmente. Ma ciò non vuol dire che Caporetto perciò solo diventi puramente militare, come si tende a far credere, come se fattore politico fosse solo il popolo, cioè i responsabili della gestione politico-militare. Anche se fosse dimostrato (come invece si esclude universalmente) che Caporetto sia stato uno «sciopero militare», ciò non vorrebbe dire che la responsabilità politica debba essere accollata al popolo ecc. (dal punto di vista giudiziario può spiegarsi, ma il punto di vista giudiziario è un atto di volontà unilaterale tendente a integrare col terrorismo l'insufficienza governativa): storicamente, cioè dal punto di vista politico piú alto, la responsabilità sarebbe sempre dei governanti, e della loro incapacità a prevedere che determinati fatti avrebbero potuto portare allo sciopero militare e quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di classe) a impedire una tale possibile emergenza. Che ai fini immediati di psicologia della resistenza, in caso di forza maggiore, si affermi che «occorre rompere i reticolati coi denti» è comprensibile, ma che si abbia la convinzione che in ogni caso i soldati debbano rompere i reticolati coi denti, perché cosí vuole l'astratto dovere militare, e si trascuri di provvederli delle tenaglie, è criminoso. Che si abbia la convinzione che la guerra non si fa senza vittime umane è comprensibile, ma che non si tenga conto che le vite umane non debbono essere sacrificate inutilmente, è criminoso ecc. Questo principio, dal rapporto militare si estende al rapporto sociale. Che si abbia la convinzione, e la si sostenga senza limitazioni, che la massa militare debba fare la guerra e sopportarne tutti i sacrifizi, è comprensibile, ma che si ritenga che ciò avverrà in ogni caso senza tener conto del carattere sociale della massa militare e senza venire incontro alle esigenze di questo carattere, è da semplicioni, cioè da politici incapaci.

2) Cosí la responsabilità, se è esclusa quella della massa militare, non può neanche essere del capo supremo, cioè di Cadorna, oltre certi limiti, cioè oltre i limiti segnati dalle possibilità di un capo supremo, della tecnica militare, e delle attribuzioni politiche che un capo supremo ha in ogni caso. Cadorna ha avuto gravi responsabilità, certamente, sia tecniche che politiche, ma queste ultime non possono essere state decisive. Se Cadorna non ha capito la necessità di un «governo politico determinato» delle masse comandate e non le ha esposte al governo, è certo responsabile, ma non quanto il governo e in generale quanto la classe dirigente, di cui, in ultima analisi, ha espresso la mentalità e la comprensione politica. Il fatto che non ci sia stata una analisi obbiettiva dei fattori che hanno determinato Caporetto e un'azione concreta per eliminarli, dimostra «storicamente» questa responsabilità estesa.

3) L'importanza di Caporetto nel decorso dell'intera guerra. La tendenza attuale tende a diminuire il significato di Caporetto e a farne un semplice episodio del quadro generale. Questa tendenza ha un significato politico e avrà delle ripercussioni politiche nazionali e internazionali: dimostra che non si vogliono eliminare i fattori generali che hanno determinato la sconfitta, ciò che ha un peso nel regime delle alleanze e nelle condizioni che saranno fatte al paese nel caso di una nuova combinazione bellica, poiché le critiche di se stessi che non si vogliono fare nel campo nazionale per evitare determinate conseguenze necessarie all'indirizzo politico-sociale, saranno fatte indubbiamente dagli organismi responsabili degli altri paesi in quanto l'Italia è presunta poter far parte di alleanze belliche. Gli altri paesi, nei calcoli in vista di alleanze, dovranno tener conto di nuovi Caporetto e vorranno dei premi di assicurazione, cioè vorranno l'egemonia anche oltre certi limiti.

4) L'importanza di Caporetto nel quadro della guerra mondiale. È data anche dai mezzi forniti al nemico (tutti i magazzini di viveri e di munizioni ecc.) che permisero una piú lunga resistenza, e la necessità imposta agli alleati di ricostituire questi depositi con turbamento di tutti i servizi e piani generali.

È vero che in tutte le guerre e anche in quella mondiale, si ebbero altri fatti simili a Caporetto. Ma occorre vedere (all'infuori della Russia) se ebbero la stessa importanza assoluta e relativa, se ebbero cause simili o paragonabili, se ebbero conseguenze simili o paragonabili per la posizione politica del paese il cui esercito subí la sconfitta. Dopo Caporetto l'Italia, materialmente (per gli armamenti, per gli approvvigionamenti, ecc.) cadde in balia degli alleati, la cui attrezzatura economica non era paragonabile per efficienza. L'assenza di autocritica significa non volontà di eliminare le cause del male ed è quindi un sintomo di grave debolezza politica.

 

 

Gli ufficiali in congedo. Traggo le notizie dal discorso del senatore Libertini tenuto al Senato il 10 giugno 1929. L'Unione Nazionale degli Ufficiali in congedo illimitato (U.N.U.C.I.) è sorta in relazione al R. D. L. 9 dicembre 1926 (n. 2.352) convertito in legge il 12 febbraio 1928 n. 261: diede frutti molto scarsi, perché, dice il Libertini, «mancava in essa lo spirito necessario a darle vita».

(Questa affermazione è interessante, in quanto per «spirito» si intende precisamente la concessione di benefici materiali, i quali, in questo caso, vengono velati eufemisticamente nell'espressione «giuste aspirazioni della benemerita classe degli ufficiali in congedo, i quali sentivano di avere bene meritato dalla Patria per i servizi da loro prestati nella guerra di redenzione ed intendono perciò esser tenuti nella considerazione che meritano, moralmente e materialmente». Se si fosse trattato di classi popolari, non si sarebbe trattato di «spirito» ma di basse avidità materialistiche, suscitate dalla demagogia, ecc. Questo modo di pretendere «gratuitamente» dalle masse popolari ciò che invece è «pagato» alle altre classi è caratteristico dei dirigenti italiani: se le masse rimangono passive, la colpa non è dell'insipienza dei dirigenti e del loro gretto egoismo, ma dei demagoghi: è poi notevole il modo di ragionare per cui è «materialistico» chi vuole migliorare le proprie condizioni economiche ma non è tale chi non vuole peggiorare sia pure di poco le proprie: si domanda «materialisticamente», si rifiuta «idealisticamente»; chi non ha è gretto, chi ha è altruista perché non dà, ecc.).

Nuova legge del 24 dicembre 1928, n. 3.242, che concede benefizi. Il Libertini a questo punto esamina la situazione degli ufficiali in congedo in Jugoslavia e in Francia. In Francia gli ufficiali di riserva, se viaggiano per recarsi alle conferenze ed esercitazioni nelle scuole di perfezionamento fuori residenza, ricevono indennità dai 12 ai 32 franchi giornalieri a seconda della durata dell'assenza; indennità chilometriche di prima classe (tariffa militare) andata e ritorno, ecc. ecc. A partire dal 1° gennaio 1925 l'ufficiale di riserva francese riceve 700 franchi a titolo di indennità di prima vestizione; a chi non ha riscosso questa indennità, si dà un vestito gratis.

In Jugoslavia: sono iscritti all'Albo degli ufficiali in congedo ed ex combattenti costituito nel 1922, 18.000 ufficiali di riserva e 35.000 ex combattenti, cioè a dire la quasi totalità degli ufficiali in congedo. In caso di «servizio» per istruzione, ecc., [sono] vettovagliati, alloggiati e rimborsati delle spese di viaggio.

Ancora a proposito dello «spirito», nel discorso alla Camera il generale Gazzera, sottosegretario alla guerra, ammise che il provvedimento di invitare gli ufficiali in congedo a prestare volontariamente servizio durante il periodo estivo di esercitazioni ha avuto questo risultato: nel 1926 si presentarono 1.007 ufficiali, nel '27 206 e nel 28 165!!

(Lo Stato deve curare gli ufficiali in congedo per due fondamentali ordini di ragioni: la prima di carattere tecnico, perché questi ufficiali, che saranno richiamati come tali in caso di mobilitazione, non perdano la qualifica professionale acquistata e la sviluppino anzi coll'apprendimento teorico-pratico delle innovazioni che vengono introdotte nei sistemi tattici e strategici; la seconda di carattere ideologico facilmente comprensibile.

A proposito dello «spirito» e della «materia» le osservazioni non riguardano naturalmente gli ufficiali, ma i dirigenti. Le cifre del Gazzera sono molto interessanti, piú ancora se si considera che molti sono gli ufficiali appartenenti alle organizzazioni ufficiali politiche: sono da mettere insieme alle cifre sull'appartenenza alle associazioni di propaganda coloniale citate da Carlo Curcio nella «Critica fascista» del luglio 1930: da tener presente per la rubrica Passato e Presente).

 

Leggere attentamente le discussioni specialmente del Senato sui bilanci militari. Si possono trovare molte osservazioni interessanti sulla reale efficienza delle forze armate e per il confronto tra il vecchio e nuovo regime.

 

 

Per una politica annonaria razionale e nazionale di Guido Borghesani, nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1927, è un mediocre articolo, con dati poco sicuri e elaborati primitivamente. Sostiene la tesi generale che in Italia si consuma troppo grano e che perciò oltre alla lotta per avere un miglior raccolto granario dove è tecnicamente piú produttiva la semina di questo cereale, si dovrebbe tendere a sostituire il grano con altri cibi. La quistione è però questa, che per es. la Francia, le cui abitudini sono nel mangiare molto simili a quelle dell'Italia, non solo consuma per abitante tanto grano quanto l'Italia, ma consuma molto piú di altri cibi fondamentali (zucchero: Francia, kg. 24,5; Italia, kg. 8), (formaggio e burro calcolati in latte: Francia, hl. 3; Italia, hl. 0,8). Il problema del grano in Italia è di miseria, non di soverchio consumo, anche se la tesi generale è giusta, nel senso del grande squilibrio: in Italia il maggior consumo di grano in confronto del granoturco, ecc., è l'unico indice di un certo miglioramento dietetico.

 

 

1919. Articoli della «Stampa» contro i tecnici d'officina e clamorose pubblicazioni degli stipendi piú alti. Bisognerebbe vedere se a Genova, la stampa degli armatori, fece la stessa campagna contro gli stati maggiori quando essi entrarono in agitazione e furono aiutati dagli equipaggi.




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