II.
Egli si chiamava Giuseppe Tito Aquileio.
Giuseppe in memoria del nonno paterno; Tito in
omaggio al babbo di Morella, la quale aveva aggiunto il nome d'Aquileio per
segreta preghiera di Edoardo Falconaro, che aveva perduto giovane e caro un
fratello così chiamato.
Per la gente di servizio, il bambino era
Aquileio; e tutti gli altri in famiglia lo chiamavano col suo soprannome,
Farfui, datogli anche questo da Edoardo Falconaro a indicar quel vezzo dei
bambini di scambiare spesso le consonanti, di balbettare, d'inghiomellar le
parole, di interrompersi e di riprendersi, un vezzo che lombardamente si dice
«farfugliare».
I tre anni scorsi dalla nascita di Farfui non
erano stati sempre rosei per Edoardo Falconaro.
Egli aveva subìto perdite ingenti alla Borsa per
il tracollo imprevisto di valori, del cui rialzo vertiginoso non aveva saputo
diffidare a tempo. S'era trovato quasi in miseria, di repente; aveva salvata la
sua riputazione, ma era stato costretto a sacrifizi penosi, a vender cavalli e
carrozze, a vestir dimessamente, a vivere quasi sempre in quel suo appartamento
di via Monte Napoleone, dal quale erano spariti tutti gli oggetti di lusso e
tutti gli addobbi di valore.
La notizia, diffusa in un baleno, ripetuta con
gioia dagli innumerevoli ai quali Edoardo Falconaro era antipatico senza alcun
buon motivo, aveva fatto molta strada, e, ingrossata camminando, s'era
arricchita di particolari.
Lorenzo Moro fu il primo a conoscerla. Morella
ne sofferse amaramente in silenzio, non solo per la rovina dell'amico, ma per
ciò che prevedeva e che doveva avvenire.
Lorenzo corse infatti a trovare Edoardo,
avvertendolo che tutto il suo denaro, e se il denaro non fosse bastato, anche i
suoi immobili erano a disposizione di lui.
Ma urtò contro una volontà inflessibile, contro
un diniego gentile e fermo.
Edoardo abbracciò Lorenzo e rifiutò di prendere
un centesimo. Non si trattava di rovina, come andavano ripetendo gli
sfaccendati, ma semplicemente d'una grossa perdita che aveva già pagato; era
rimasto, certo, in istrettezze, ma ciò non lo angustiava troppo, e già
all'indomani di quella tempesta aveva cominciato a lavorare e a riguadagnare.
E mentre Edoardo parlava tranquillo e deciso,
Lorenzo volgeva intorno l'occhio, notando che la libreria era vuota, che gli
oggetti d'arte erano scomparsi insieme alle armi, tra cui un fucile prezioso
particolarmente caro all'amico. Tutto era stato inghiottito, senza dubbio, da
ciò che Edoardo chiamava sorridendo una tempesta.
Il rifiuto di lui, energico, continuo, ostinato,
finì per irritare e offendere Lorenzo. Egli doveva la sua fortuna a Edoardo, e questi
gli negava il piacere di rendergli in parte il bene avuto e di aiutarlo con
l'entusiasmo e la fiducia con cui era stato aiutato egli stesso.
Edoardo capiva tutte le ragioni di Lorenzo Moro;
capiva d'essere ingiusto e offensivo, ma resisteva tenacemente, crollando il
capo. Se lo vedeva lì, in quella medesima camera in cui aveva attirata Morella,
in cui l'aveva posseduta, la prima volta, in cui era stato forse concepito
Farfui, e il pensiero di stender la mano per prendere danaro dal marito
dell'amante, gli dava una nausea, gli ispirava un ribrezzo da cui eran vinti
tutti i consigli di prudenza e di necessità.
- Hai un orgoglio d'inferno! - urlò finalmente
Lorenzo. - Hai un orgoglio stupido, odioso! Noi non ci saluteremo più. Io non
ti voglio più in casa mia. Non siamo più amici.
Edoardo aveva taciuto anche innanzi a quella
raffica d'improperii; e quando afferrato furiosamente il cappello, Lorenzo
stava per andarsene, Edoardo lo aveva accompagnato fino alla soglia di casa, e
qui l'aveva abbracciato di nuovo, congedandolo con un sorriso:
- Tu non sai quel che ti dici!
Ma Lorenzo era veramente scandalizzato da ciò
ch'egli chiamava l'orgoglio d'Edoardo. Ne parlò col cognato Federico e con
Isidora e poi con Morella, e infine con tutti insieme, giurando che il
Falconaro non avrebbe messo più piede in casa sua, ingiuriandolo di nuovo,
chiamandolo pazzo e ignorante e superbo e presuntuoso, dicendo che avevan
ragione quelli i quali sostenevano ch'era antipatico.
Morella respirò e fu contenta.
Le piaceva quella superbia, di cui ella sola
conosceva la ragione occulta; le pareva di vedere Edoardo come quella sera
d'estate, quand'egli guidava Febo attraverso i boschi affascinati e immobili
nell'incanto lunare, ed ella gli recitava i «lieder» di Ludwig Uhland. Quanto sembrava
lontano quel tempo, e con quanta tenerezza ella lo ripensava!...
Un giorno uscì con Farfui, e si recò arditamente
da Edoardo, nella casa di via Monte Napoleone, della quale non aveva più
varcato il limitare da quella volta in cui la sua bocca aveva dato e ricevuto
il primo bacio insanguinato.
Andava a portare a Edoardo il denaro dei suoi
risparmi che Lorenzo ignorava, e i suoi gioielli, di cui Lorenzo non chiedeva
mai conto; poco, una trentina di migliaia di lire, ma anche quelle avrebbero
potuto giovare e riparare alle prime conseguenze della perdita subita
dall'amico, forse mettendolo in grado di ricomprare i cavalli e lo carrozze, di
cui aveva bisogno perchè il suo credito fosse mantenuto e le esagerazioni dei
nemici venissero subito smentite.
Ella pensava che da lei, dalla mamma di Farfui,
dalla selvaggia amante d'un giorno, egli avrebbe potuto accogliere l'aiuto
piccolo ma non inutile; pensava, femminilmente, che si trattava d'un prestito
momentaneo di cui nessuno avrebbe mai avuta notizia.
Edoardo accolse Morella e Farfui, maravigliato
ma felice.
Adorava Farfui; era suo, tutto suo; bastava
guardarne l'espressione e il colore degli occhi; suo e di Morella, la cui
chioma era egualmente ricca e bionda. E se lo teneva fra le braccia, e lo
portava intorno, e lo baciava e gli mostrava certo incisioni inglesi di cavalli
e di caccie, onde aveva rapidamente sostituiti i quadri di valore scomparsi col
meglio dell'addobbo. Il bambino rideva, dando piccoli schiaffetti in faccia al
grande amico e tirandogli i lunghi baffi.
In quella casa, di cui aveva bene in mente i
particolari di lusso, Morella sentiva la desolazione improvvisa, e stava muta a
osservare Edoardo, che faceva ballare Farfui sulle ginocchia, fischiando a fior
di labbra una marcia guerresca, oblioso in quel momento e del rovescio immane
che l'aveva colpito e della sorda gioia dei nemici e della lunga lotta che
avrebbe dovuto intraprendere per rifarsi.
La giovane sedutagli di fronte, era impacciata,
non sapendo come parlare, e tenendo fra le mani una cassetta chiusa e ravvolta
in carta turchina. Ma quando Edoardo mise Farfui a terra, Morella fece aprire
le mani al bambino e sostenendole sotto con la sua destra, vi depose l'involto.
- Dàllo a Edoardo!... - disse. - Dàllo a
Edoardo!
Il bambino obbedì, e camminando a stento,
aiutato dalla mamma, piantò la cassetta, pesantemente sulle ginocchia
dell'uomo.
- Oh! - esclamò questi con un gaio riso. - M'hai
portato i confetti? il mondo cammina a rovescio. Toccava a me darti i confetti.
Ma io non ti aspettava, che vuoi? e non ho confetti in casa.... Adesso questi
li mangeremo insieme, con Farfui e la mamma.
Morella tremava, mentre Edoardo andava svolgendo
la carta.
Egli aperse la cassetta, vi gettò un'occhiata, e
impallidì.
Ma si vide innanzi Morella a capo basso,
incapace di parlare, e notò due lagrime che le scendevano per le guancie. Egli
si riprese subito; non poteva rimproverarla; la donna era venuta ad offrirgli
il denaro e i gioielli con la stessa prontezza, con cui gli avrebbe offerta la
vita, se questa gli fosse stata utile.
Edoardo richiuso la cassetta e andò a deporla in
grembo a Morella; poi le mormorò sottovoce:
- Ti ringrazio, cara. Non è possibile!
E non disse altro.
Aveva sentito intera la disperata tristezza di
quell'amore profondo, che si struggeva di non poter far nulla per lei; e
trascinato da un impeto, serrò in un medesimo abbraccio silenzioso Morella e
Farfui, tutto il suo mondo, tutta la sua vita, tutta la sua passione.
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