VI.
Dopo la grave malattia che l'aveva così a lungo
travagliato, Farfui cresceva rigoglioso, quasicchè la natura avesse voluto
compensarlo del male patito. Era di carattere dolce e impressionabile,
attentissimo alla lode e al biasimo; non lo si udiva quasi mai piangere. A tre
anni sapeva spiegarsi con chiarezza, e se scambiava qualche volta una parola
per un'altra, non si lasciava intimorire dalle risa che accoglievano i suoi
spropositi.
Tutti gli erano amici, e la mattina,
accompagnato dalla governante, egli andava a far le sue visite; salutava Adelmo
il portiere e Luigia sua moglie, poi Pierina la cameriera e Maria la cuoca. E
attraversata la strada, visitava la scuderia, chiamando a nome i cavalli dalle
groppe lucide, Febo, Vespa, Bozzolo e Valì. Le bestie volgevano il capo,
rizzavano le orecchie, e parevano fissare il piccoletto con l'umido occhio
inquieto.
In magazzino stava a osservar gli uomini di
fatica, i formidabili uomini dalle braccia nervute e dal dorso poderoso, i
quali davano il rossetto agli stracchini brancicandoli con le mani impiastricciate
della mistura bianca e vermiglia, o smuovevano e ungevano le grosse forme di
grana. Essi passavano gocciolanti di sudore, con quei dischi grevi sulle
spalle, e sorridevano al piccolo, e gli facevan d'occhio, mentr'egli guardava i
giganti dal sotto in su, come avrebbe guardato montagne.
E qualcuno, più audace, gli allungava, passando,
una carezza leggèra. La signorina Claudia protestava immediatamente, perchè
Farfui usciva quasi sempre da quegli amplessi con uno sberleffo di barite o di
rossetto sulle guancie, che lo rassomigliava a un piccolo pagliaccio da circo.
Nello studio del babbo, aveva tra i commessi e
gli impiegati un grande amico, un prediletto. Era Paolino Tornaghi; sposato da
cinque anni con una donna sterile, Paolino aveva tale un amore pei bambini, che
appena vedeva Farfui, abbandonava il mastro e la corrispondenza per pigliarlo
sulle ginocchia e raccontargli le fiabe. Sapeva fiabe mirabili e ne inventava
di nuove, onde Farfui, entrando in istudio, correva subito da Paolino e gli
diceva:
- Palino, raccontami quella del re che menava a
bere le oche.... No, quella del lupo che correva dietro al treno.
Il Tornaghi s'era preso non pochi rabbuffi da
Lorenzo Moro per questo suo vezzo; ma ogni mattina ci ricascava, e nonostante
il terrore che gli incuteva Lorenzo, egli obbediva al suo piccolo amico e
cominciava sottovoce:
- Dunque, una volta c'era un lupo grande,
grande, grande....
Farfui andava in visibilio, fin che uno
sbatacchiar d'usci e un passo pesante non annunciavano l'avvicinarsi di
Lorenzo. Allora Farfui balzava dai ginocchi del suo novellatore, e avendo già
imparato a uccellare il mondo, si gettava a terra per fingere di giuocare col
cestello della carta straccia o col gatto che passeggiava maestoso dallo studio
al magazzino.
La presenza di Farfui allietava tutti. Era
aspettato come un personaggio autorevole, e di ritorno dalle sue visite
raccontava ogni cosa alla mamma, specialmente le fiabe di Paolino Tornaghi,
gettando occhiate sospettose al babbo, perchè su quell'affare delle fiabe non andavano
d'accordo.
- Bambino mio, tu farai cacciare il povero
Tornaghi! - osservava dolente Morella. - Non andare a disturbarlo; lascialo
lavorare.
- No, no, facciamo bene! - rispondeva Farfui,
scotendo i riccioli d'oro sulla fronte.
«Facciamo bene» voleva dire nel suo linguaggio
sintetico che lui e Paolino gabbavano insuperabilmente il papà.
Il pomeriggio, se non andava in carrozza con
Edoardo Falconaro, usciva a passeggio con Morella e si recava a far visita alla
zia Isidora o ai nonni. Il bambino baciava sempre Isidora con entusiasmo, quasi
con violenza, perchè sentiva tanta dolcezza in quell'anima sincera, che gli
sembrava sempre d'essere accarezzato dalla voce e dallo sguardo di lei.
La nonna Gina non gli piaceva per niente. Con
l'istinto prodigioso dei bambini, egli aveva capito subito ch'ella era una
sciocca apatica, la quale ripeteva ciò che dicevano gli altri e non aveva nè un
pensiero, nè un sentimento suo proprio. Ma il nonno Tito lo amava, tanto lo
amava, da commetter follie per lui.
Morella non ricordava ch'egli fosse giunto mai a
mostrare i suoi tesori d'arte ad alcuno; e per Farfui, il vecchio dimenticava
ogni prudenza. La giovane era sempre tra sorpresa e commossa nel vedere che
Tito permetteva al bambino di giuocare co' suoi avorii; glieli preparava egli
stesso, allineati sul tavolotto, tutto un esercito di figurette preziose, di
pezzi da scacchiera, d'ometti e di donnine, di cani e di tigri e di cavalli.
Così, a un lato della tavola stava il vecchio
sorridente e dall'altra il bambino, che aveva dato un nome a ciascuna figura e
combinava, tra tutte, spaurevoli drammi e grandi battaglie; ma quasi avesse
indovinato il pregio di quei balocchi e l'amore onde li circondava il nonno,
Farfui li moveva garbatamente, non li urtava mai, non li lasciava mai cadere; e
Tito n'era entusiasta.
- È un boia, è un boia! - andava esclamando,
perchè il boia per lui era, a ciò che se ne capiva, la più alta espressione del
genio.
Talchè un giorno, interrogato da un amico di
casa, il quale fingeva di non riconoscerlo e gli domandava chi fosse, Farfui
gli aveva risposto gravemente:
- Sono il boia!
In campagna, Farfui aveva un altro eccellente
amico; quel piccolo Poldo, il quale contava ormai sette anni. Morella lo aveva
soprannominato, per certe sue ragioni, che Edoardo solo intendeva, «il
rivelatore», e s'era impuntata a farlo studiare, contrariamente al desiderio di
Lorenzo, il quale sosteneva che i contadini istruiti sono più ignoranti degli
altri.
Poldo faceva gran fatica a capire, ma studiava
con la tenacità ferma e inflessibile della sua semplice razza, e perchè gli
costava maggior pena che ai condiscepoli, una nozione appresa ed entratagli in
testa non ne usciva più, era scolpita nel marmo. Aveva avuto da Morella il
permesso di giuocare con Farfui, del quale egli si faceva il guardiano geloso e
perspicace; possedeva ancora il cavalluccio, senza ruote, annerito dalle mani e
dal terriccio, e quel fazzoletto che gli aveva regalato Edoardo. Lo adoperava
nei giorni di festa, e poi lo riponeva con cura.
Ma tutto andava bene per cinque giorni della
settimana. Il sabato e la domenica, Poldo era irreperibile; appena Lorenzo
giungeva a Villa Mora, il ragazzetto spariva e stava rintanato a casa sua; non
aveva mai potuto dimenticare la sassata arrivatagli tre anni prima tra capo e
collo, e n'aveva conservato tale paura, che la presenza del padrone lo faceva
scappare ancora a gambe levate.
Non appena Lorenzo ripartiva per Milano, Poldo
tornava a sbucar fuori e ripigliava i giuochi con Farfui. Anche Farfui era
lieto che suo padre se ne andasse; egli sentiva che la sua presenza metteva
freddo e impaccio; il volto della mamma si abbuiava; la vita diventava arcigna.
A ogni istante risonava la voce di Lorenzo che faceva un'osservazione o si
lagnava dello strepito di cui era oltremodo insofferente. Bisognava riporre
trombette o pifferi e tamburo. Il lunedì era un bel giorno. Poldo e Farfui
giuocavano furiosamente con un certo cavallo a dondolo, piantato, dritto e
bianco, sui sostegni ondulanti.
Farfui teneva in testa un cappello di carta uscito
dalla fabbrica speciale di Poldo, ch'era abilissimo a foggiar cappelli
guerreschi coi fogli dei giornali, e Poldo aveva in capo un bell'elmo nichelato
di Farfui, il quale preferiva i cappellucci leggeri dell'amico.
Ma l'elmo di Farfui era piccolino e stava in
capo a Poldo per miracolo, dondolando a ogni passo. Farfui caracollava superbo,
urlava ordini strampalati a un esercito invisibile e scoteva la testa per dare
all'aria i ritagli di carta che pendevano dal suo copricapo.
La scena li entusiasmava; e una volta, mentre si
sbracciava a comandare, Farfui era ruzzolato da cavallo; un'altra volta,
durante una carica, Poldo era andato a finir dietro una siepe, e l'elmo si ora
tutto ammaccato; ora cascava l'uno, ora cascava l'altro, ma i due piccoli stavano
zitti per non aver rimproveri da Morella.
Così, a Milano e in campagna, nella sua casa di
porta Ticinese e a Villa Mora, dai nonni e dagli zii, Farfui non contava che
amici.
E adagio adagio, gli si formava un carattere
orgoglioso, freddamente audace, forte a sostenere il male, nemico delle
querimonie, gentile ma pervicace; un carattere, nel quale Morella sapeva
leggere quasi sbigottita l'impronta nitida e incancellabile d'Edoardo
Falconaro.
Quel fragile piccolino dai capelli d'oro e dagli
occhi grigi, era un superbo. Non piangeva più; non faceva mai un gesto d'ira o
di dispetto; se qualcuno lo contrariava, chiudeva dentro sè la sua angoscia e
non ne lasciava trasparir nulla, soffrendo in silenzio.
Morella n'era veramente spaventata; pensava con terrore
che il suggello era lampante; e quando il bambino avesse avuto tutto il suo
sviluppo fisico e avesse potuto spiegar meglio la sua indole, la somiglianza
con Edoardo Falconaro, quella somiglianza che già aveva colpito l'occhio vigile
di Mariano Frigerio, si sarebbe rivelata anche all'occhio torpido e distratto
di Lorenzo.
La giovane ne fu tanto scombuiata, che per
sincerarsi de' suoi dubbi, volle cimentare Farfui.
Lo aizzò a sfidare i pericoli, sorvegliandolo e
fingendo di lasciarlo solo. Egli aveva paura di Fox, un mastino basso e
quadrato, dai canini sporgenti e dalla grinta minacciosa, il quale stava di
guardia al magazzino. Quel formidabile ceffo atterriva Farfui; ma perchè sua
madre lo aveva beffato, il piccoletto era andato un giorno ad accarezzare la
bestia, e in breve se l'era fatta amica.
Farfui aveva anche paura dell'oscurità; vedeva
nell'ombra forme eteroclite che si movevano; e tuttavia s'era avventurato una
sera nel grande salotto e vi era rimasto per qualche tempo, per rassicurare
Morella che rideva dei bambini paurosi.
Ogni volta che la giovane lo incitava a qualche
impresa, gli spiegava pazientemente, con le parole ch'egli poteva comprendere,
tutti i rischi ai quali sarebbe andato incontro. Farfui ascoltava, fremeva,
tremava dentro, e poi si accingeva al cimento. Un moto ansioso della bocca, gli
occhioni grigi sbarrati, l'andatura rigida svelavano tutto il suo orgasmo e il
lavorio interno ch'egli compieva per vincere sè stesso, prima ancora delle
difficoltà immaginate dalla sua fantasia e ingrandite a bella posta dalla
parola della mamma.
Era l'istinto di Edoardo che agiva sul
piccoletto; quell'istinto di guerra, quella voluttà del rischio, che avevano
tratto il Falconaro da molti brutti passi e lo rallegravano allorchè occorreva
compiere uno sforzo, al quale gli altri avrebbero soggiaciuto. Era la superbia
di morire piuttosto che patire una umiliazione. Come sarebbe stato possibile
vincere l'impronta morale, che insieme alla rassomiglianza fisica andava
facendosi di giorno in giorno più limpida?
Per una mela, un frutto che non gli piaceva,
Farfui aveva arrischiato, o aveva creduto d'arrischiare la vita.
Posta una mela sull'alto d'un armadio, Morella
aveva detto al bambino che se l'avesse arrivata, sarebbe stata sua. Poi aveva
soggiunto che per salire fin laggiù, Farfui avrebbe forse perduto del sangue.
La vista del sangue era insostenibile pel
bambino. Nessuna paura agguagliava in lui la paura del sangue. E udendo quelle
parole, fece una smorfia, subito rattenuta. Morella scrutava avidamente il
visetto roseo del figlio, che le stava innanzi a gambe larghe, meditabondo; e
sperava e temeva nel tempo medesimo ch'egli non avesse animo per tanto pericolo
e per un premio di cui non sapeva che farsi.
Ma d'un tratto la giovane sussultò. Farfui s'era
deciso dopo una breve e violenta lotta interiore.
Non potendo smuovere la tavola, pregò sua madre
di porla vicino all'armadio; e sulla tavola fece posare una sedia larga, e su
questa una più piccola, e infine la sua seggioletta di legno verde a fiori
rossi, ch'egli amava come una persona viva.
- Bada che non ti tengo! - gli disse Morella.
- Sì, - egli rispose, arrampicandosi.
Le sedie tentennarono. La giovane stava presso
il figlio, pronta ad afferrarlo, ma fingeva di guardare altrove.
- Bada di non cadere! - ella ammonì, per
togliergli coraggio.
- Sì, - egli ripetè con la voce turbata,
accingendosi a scalar la piramide delle sedie.
- Bada di non perdere sangue!
Egli non rispondeva; s'aggrappava con le manine,
a ogni dondolio rimaneva un istante immobile, e riprendeva poi risoluto.
Morella non potè reggere a quello spettacolo.
Strappò Farfui dalla tavola, e strettolo al seno, gli coperse il volto di baci.
- Che fare? - pensava. - È suo, suo, suo!...
Farfui non riuscì mai a comprendere perchè sua
madre singhiozzasse convulsamente e gli bagnasse il viso di scottanti lagrime.
Per una mela non c'era ragione di commuoversi tanto.
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