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Luciano Zuccoli
Farfui

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  • PARTE SECONDA.
    • VI.
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VI.

 

Dopo la grave malattia che l'aveva così a lungo travagliato, Farfui cresceva rigoglioso, quasicchè la natura avesse voluto compensarlo del male patito. Era di carattere dolce e impressionabile, attentissimo alla lode e al biasimo; non lo si udiva quasi mai piangere. A tre anni sapeva spiegarsi con chiarezza, e se scambiava qualche volta una parola per un'altra, non si lasciava intimorire dalle risa che accoglievano i suoi spropositi.

Tutti gli erano amici, e la mattina, accompagnato dalla governante, egli andava a far le sue visite; salutava Adelmo il portiere e Luigia sua moglie, poi Pierina la cameriera e Maria la cuoca. E attraversata la strada, visitava la scuderia, chiamando a nome i cavalli dalle groppe lucide, Febo, Vespa, Bozzolo e Valì. Le bestie volgevano il capo, rizzavano le orecchie, e parevano fissare il piccoletto con l'umido occhio inquieto.

In magazzino stava a osservar gli uomini di fatica, i formidabili uomini dalle braccia nervute e dal dorso poderoso, i quali davano il rossetto agli stracchini brancicandoli con le mani impiastricciate della mistura bianca e vermiglia, o smuovevano e ungevano le grosse forme di grana. Essi passavano gocciolanti di sudore, con quei dischi grevi sulle spalle, e sorridevano al piccolo, e gli facevan d'occhio, mentr'egli guardava i giganti dal sotto in su, come avrebbe guardato montagne.

E qualcuno, più audace, gli allungava, passando, una carezza leggèra. La signorina Claudia protestava immediatamente, perchè Farfui usciva quasi sempre da quegli amplessi con uno sberleffo di barite o di rossetto sulle guancie, che lo rassomigliava a un piccolo pagliaccio da circo.

Nello studio del babbo, aveva tra i commessi e gli impiegati un grande amico, un prediletto. Era Paolino Tornaghi; sposato da cinque anni con una donna sterile, Paolino aveva tale un amore pei bambini, che appena vedeva Farfui, abbandonava il mastro e la corrispondenza per pigliarlo sulle ginocchia e raccontargli le fiabe. Sapeva fiabe mirabili e ne inventava di nuove, onde Farfui, entrando in istudio, correva subito da Paolino e gli diceva:

- Palino, raccontami quella del re che menava a bere le oche.... No, quella del lupo che correva dietro al treno.

Il Tornaghi s'era preso non pochi rabbuffi da Lorenzo Moro per questo suo vezzo; ma ogni mattina ci ricascava, e nonostante il terrore che gli incuteva Lorenzo, egli obbediva al suo piccolo amico e cominciava sottovoce:

- Dunque, una volta c'era un lupo grande, grande, grande....

Farfui andava in visibilio, fin che uno sbatacchiar d'usci e un passo pesante non annunciavano l'avvicinarsi di Lorenzo. Allora Farfui balzava dai ginocchi del suo novellatore, e avendo già imparato a uccellare il mondo, si gettava a terra per fingere di giuocare col cestello della carta straccia o col gatto che passeggiava maestoso dallo studio al magazzino.

La presenza di Farfui allietava tutti. Era aspettato come un personaggio autorevole, e di ritorno dalle sue visite raccontava ogni cosa alla mamma, specialmente le fiabe di Paolino Tornaghi, gettando occhiate sospettose al babbo, perchè su quell'affare delle fiabe non andavano d'accordo.

- Bambino mio, tu farai cacciare il povero Tornaghi! - osservava dolente Morella. - Non andare a disturbarlo; lascialo lavorare.

- No, no, facciamo bene! - rispondeva Farfui, scotendo i riccioli d'oro sulla fronte.

«Facciamo bene» voleva dire nel suo linguaggio sintetico che lui e Paolino gabbavano insuperabilmente il papà.

Il pomeriggio, se non andava in carrozza con Edoardo Falconaro, usciva a passeggio con Morella e si recava a far visita alla zia Isidora o ai nonni. Il bambino baciava sempre Isidora con entusiasmo, quasi con violenza, perchè sentiva tanta dolcezza in quell'anima sincera, che gli sembrava sempre d'essere accarezzato dalla voce e dallo sguardo di lei.

La nonna Gina non gli piaceva per niente. Con l'istinto prodigioso dei bambini, egli aveva capito subito ch'ella era una sciocca apatica, la quale ripeteva ciò che dicevano gli altri e non aveva un pensiero, un sentimento suo proprio. Ma il nonno Tito lo amava, tanto lo amava, da commetter follie per lui.

Morella non ricordava ch'egli fosse giunto mai a mostrare i suoi tesori d'arte ad alcuno; e per Farfui, il vecchio dimenticava ogni prudenza. La giovane era sempre tra sorpresa e commossa nel vedere che Tito permetteva al bambino di giuocare co' suoi avorii; glieli preparava egli stesso, allineati sul tavolotto, tutto un esercito di figurette preziose, di pezzi da scacchiera, d'ometti e di donnine, di cani e di tigri e di cavalli.

Così, a un lato della tavola stava il vecchio sorridente e dall'altra il bambino, che aveva dato un nome a ciascuna figura e combinava, tra tutte, spaurevoli drammi e grandi battaglie; ma quasi avesse indovinato il pregio di quei balocchi e l'amore onde li circondava il nonno, Farfui li moveva garbatamente, non li urtava mai, non li lasciava mai cadere; e Tito n'era entusiasta.

- È un boia, è un boia! - andava esclamando, perchè il boia per lui era, a ciò che se ne capiva, la più alta espressione del genio.

Talchè un giorno, interrogato da un amico di casa, il quale fingeva di non riconoscerlo e gli domandava chi fosse, Farfui gli aveva risposto gravemente:

- Sono il boia!

In campagna, Farfui aveva un altro eccellente amico; quel piccolo Poldo, il quale contava ormai sette anni. Morella lo aveva soprannominato, per certe sue ragioni, che Edoardo solo intendeva, «il rivelatore», e s'era impuntata a farlo studiare, contrariamente al desiderio di Lorenzo, il quale sosteneva che i contadini istruiti sono più ignoranti degli altri.

Poldo faceva gran fatica a capire, ma studiava con la tenacità ferma e inflessibile della sua semplice razza, e perchè gli costava maggior pena che ai condiscepoli, una nozione appresa ed entratagli in testa non ne usciva più, era scolpita nel marmo. Aveva avuto da Morella il permesso di giuocare con Farfui, del quale egli si faceva il guardiano geloso e perspicace; possedeva ancora il cavalluccio, senza ruote, annerito dalle mani e dal terriccio, e quel fazzoletto che gli aveva regalato Edoardo. Lo adoperava nei giorni di festa, e poi lo riponeva con cura.

Ma tutto andava bene per cinque giorni della settimana. Il sabato e la domenica, Poldo era irreperibile; appena Lorenzo giungeva a Villa Mora, il ragazzetto spariva e stava rintanato a casa sua; non aveva mai potuto dimenticare la sassata arrivatagli tre anni prima tra capo e collo, e n'aveva conservato tale paura, che la presenza del padrone lo faceva scappare ancora a gambe levate.

Non appena Lorenzo ripartiva per Milano, Poldo tornava a sbucar fuori e ripigliava i giuochi con Farfui. Anche Farfui era lieto che suo padre se ne andasse; egli sentiva che la sua presenza metteva freddo e impaccio; il volto della mamma si abbuiava; la vita diventava arcigna. A ogni istante risonava la voce di Lorenzo che faceva un'osservazione o si lagnava dello strepito di cui era oltremodo insofferente. Bisognava riporre trombette o pifferi e tamburo. Il lunedì era un bel giorno. Poldo e Farfui giuocavano furiosamente con un certo cavallo a dondolo, piantato, dritto e bianco, sui sostegni ondulanti.

Farfui teneva in testa un cappello di carta uscito dalla fabbrica speciale di Poldo, ch'era abilissimo a foggiar cappelli guerreschi coi fogli dei giornali, e Poldo aveva in capo un bell'elmo nichelato di Farfui, il quale preferiva i cappellucci leggeri dell'amico.

Ma l'elmo di Farfui era piccolino e stava in capo a Poldo per miracolo, dondolando a ogni passo. Farfui caracollava superbo, urlava ordini strampalati a un esercito invisibile e scoteva la testa per dare all'aria i ritagli di carta che pendevano dal suo copricapo.

La scena li entusiasmava; e una volta, mentre si sbracciava a comandare, Farfui era ruzzolato da cavallo; un'altra volta, durante una carica, Poldo era andato a finir dietro una siepe, e l'elmo si ora tutto ammaccato; ora cascava l'uno, ora cascava l'altro, ma i due piccoli stavano zitti per non aver rimproveri da Morella.

Così, a Milano e in campagna, nella sua casa di porta Ticinese e a Villa Mora, dai nonni e dagli zii, Farfui non contava che amici.

E adagio adagio, gli si formava un carattere orgoglioso, freddamente audace, forte a sostenere il male, nemico delle querimonie, gentile ma pervicace; un carattere, nel quale Morella sapeva leggere quasi sbigottita l'impronta nitida e incancellabile d'Edoardo Falconaro.

Quel fragile piccolino dai capelli d'oro e dagli occhi grigi, era un superbo. Non piangeva più; non faceva mai un gesto d'ira o di dispetto; se qualcuno lo contrariava, chiudeva dentro la sua angoscia e non ne lasciava trasparir nulla, soffrendo in silenzio.

Morella n'era veramente spaventata; pensava con terrore che il suggello era lampante; e quando il bambino avesse avuto tutto il suo sviluppo fisico e avesse potuto spiegar meglio la sua indole, la somiglianza con Edoardo Falconaro, quella somiglianza che già aveva colpito l'occhio vigile di Mariano Frigerio, si sarebbe rivelata anche all'occhio torpido e distratto di Lorenzo.

La giovane ne fu tanto scombuiata, che per sincerarsi de' suoi dubbi, volle cimentare Farfui.

Lo aizzò a sfidare i pericoli, sorvegliandolo e fingendo di lasciarlo solo. Egli aveva paura di Fox, un mastino basso e quadrato, dai canini sporgenti e dalla grinta minacciosa, il quale stava di guardia al magazzino. Quel formidabile ceffo atterriva Farfui; ma perchè sua madre lo aveva beffato, il piccoletto era andato un giorno ad accarezzare la bestia, e in breve se l'era fatta amica.

Farfui aveva anche paura dell'oscurità; vedeva nell'ombra forme eteroclite che si movevano; e tuttavia s'era avventurato una sera nel grande salotto e vi era rimasto per qualche tempo, per rassicurare Morella che rideva dei bambini paurosi.

Ogni volta che la giovane lo incitava a qualche impresa, gli spiegava pazientemente, con le parole ch'egli poteva comprendere, tutti i rischi ai quali sarebbe andato incontro. Farfui ascoltava, fremeva, tremava dentro, e poi si accingeva al cimento. Un moto ansioso della bocca, gli occhioni grigi sbarrati, l'andatura rigida svelavano tutto il suo orgasmo e il lavorio interno ch'egli compieva per vincere stesso, prima ancora delle difficoltà immaginate dalla sua fantasia e ingrandite a bella posta dalla parola della mamma.

Era l'istinto di Edoardo che agiva sul piccoletto; quell'istinto di guerra, quella voluttà del rischio, che avevano tratto il Falconaro da molti brutti passi e lo rallegravano allorchè occorreva compiere uno sforzo, al quale gli altri avrebbero soggiaciuto. Era la superbia di morire piuttosto che patire una umiliazione. Come sarebbe stato possibile vincere l'impronta morale, che insieme alla rassomiglianza fisica andava facendosi di giorno in giorno più limpida?

Per una mela, un frutto che non gli piaceva, Farfui aveva arrischiato, o aveva creduto d'arrischiare la vita.

Posta una mela sull'alto d'un armadio, Morella aveva detto al bambino che se l'avesse arrivata, sarebbe stata sua. Poi aveva soggiunto che per salire fin laggiù, Farfui avrebbe forse perduto del sangue.

La vista del sangue era insostenibile pel bambino. Nessuna paura agguagliava in lui la paura del sangue. E udendo quelle parole, fece una smorfia, subito rattenuta. Morella scrutava avidamente il visetto roseo del figlio, che le stava innanzi a gambe larghe, meditabondo; e sperava e temeva nel tempo medesimo ch'egli non avesse animo per tanto pericolo e per un premio di cui non sapeva che farsi.

Ma d'un tratto la giovane sussultò. Farfui s'era deciso dopo una breve e violenta lotta interiore.

Non potendo smuovere la tavola, pregò sua madre di porla vicino all'armadio; e sulla tavola fece posare una sedia larga, e su questa una più piccola, e infine la sua seggioletta di legno verde a fiori rossi, ch'egli amava come una persona viva.

- Bada che non ti tengo! - gli disse Morella.

- Sì, - egli rispose, arrampicandosi.

Le sedie tentennarono. La giovane stava presso il figlio, pronta ad afferrarlo, ma fingeva di guardare altrove.

- Bada di non cadere! - ella ammonì, per togliergli coraggio.

- Sì, - egli ripetè con la voce turbata, accingendosi a scalar la piramide delle sedie.

- Bada di non perdere sangue!

Egli non rispondeva; s'aggrappava con le manine, a ogni dondolio rimaneva un istante immobile, e riprendeva poi risoluto.

Morella non potè reggere a quello spettacolo. Strappò Farfui dalla tavola, e strettolo al seno, gli coperse il volto di baci.

- Che fare? - pensava. - È suo, suo, suo!...

Farfui non riuscì mai a comprendere perchè sua madre singhiozzasse convulsamente e gli bagnasse il viso di scottanti lagrime. Per una mela non c'era ragione di commuoversi tanto.

 

 

 




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