IV.
Il pellicciaio.
Per Parigi non erano partiti lo stesso giorno
del matrimonio.
Folco aveva desiderato restare in città,
affinchè l'appartamento da lui scelto e addobbato in un quartiere quieto,
lontano da genitori e parenti della sposa, parlasse poi, al ritorno dal viaggio
di nozze, le parole dolcemente segrete di quei primi giorni d'intimità.
Tutti i congiunti di Gioconda abitavano un
quartiere formato da una lunga distesa di case bigiognole o nere, bucate da
finestre fitte, l'una accosto all'altra, sventrate da una ininterrotta fila di
botteghe, botteguccie, taverne, ciascuna delle quali esalava il tanfo del suo
traffico vecchio, di carname, di cuoio, di polleria, di vino, di dolciumi agri,
di profumi economici.
Folco lo conosceva bene per quella gita
quotidiana ch'egli faceva a visitar la fanciulla e la famiglia, e bene
conoscevano Folco gli abitanti dell'una e dell'altra ala di strada, avendolo
visto passar tutte le sere. N'era così sazio, vi si sentiva così straniero, che
per sè e la moglie aveva preso in affitto un appartamento all'altro capo della
città, in una via che essendo tra due di gran movimento, non aveva l'incomodo
di troppo frastuono.
Le camere da letto guardavan sopra un folto
giardino, avvivando per la quiete, la mitezza del verde autunnale, la maggiore
ampiezza di cielo, l'illusione nell'animo di Folco d'essere lungi dal resto
della città, e quasi, nei primi giorni, dal resto del mondo.
Folco non s'era ingannato. Sarebbe stato
impossibile trovare una più cara amica, una più tenera amante di sua moglie.
Ella era riuscita a togliergli dall'animo o almeno a calmare l'amarezza per
l'inesorabile contegno della famiglia di lui.
La quale, prima ancora ch'egli confessasse,
aveva saputo le sue intenzioni di matrimonio, perchè il signor Piero Dobelli
aveva chiesto precisi ragguagli sullo stato finanziario di Folco, e Folco s'era
dovuto provvedere dei documenti che gli occorrevano. Aveva saputo così che il
giovane pensava di sposare quella.... come si chiama?... Dobelli Gioconda,
scrivana o cucitrice, e gli aveva spedito incontro il marchese Corradino Àutari
suo cognato.
A dirgli: che il padre non lo avrebbe per nulla
diminuito ne' suoi diritti materiali; sdegnava di costringerlo con mezzi
volgari, e pure sospendendogli ogni assegno, lo assicurava che non avrebbe
ritoccato il testamento, il quale faceva al giovane larghissima parte nei beni
mobili ed immobili di famiglia. Ma Folco riflettesse: sposando quella ragazza,
non avrebbe mai più riveduto nè padre, nè madre, nè sorella; questi, dal giorno
in cui egli avesse dato nome e titolo di contessa Filippeschi alla predetta
Dobelli Gioconda, lo avrebbero pianto per morto.
La maniera generosa e insieme spietata con cui
lo trattavano, colpì il giovane assai più che se i suoi si fossero mostrati
piccini; lo chiudevano in una rete dalla quale non poteva districarsi, perchè
nessuno, poste così le parti del dramma, avrebbe osato dar torto alla famiglia
e ragione a lui. Grazie alla bontà liberale del padre, egli sarebbe stato un
giorno per tutti il conte Folco Filippeschi, ricco e splendido; soltanto pei
suoi, nel concetto segreto, nel giudizio inappellabile del cuore, era o matto o
morto. Che rispondere?... Folco rispose ch'egli non poteva diversamente; che la
sua era la parola dei Filippeschi, ed egli aveva dato parola.
Il cognato, Corradino Àutari, uom grosso di
figura, ma sottile di tatto, aveva compiuto la sua ambasceria senza aggiungere
e senza togliere, guardando in alto, intorno, come ripetesse una canzone
imparata a memoria. Per suo conto pensava che c'era della esagerazione di qua e
di là; che con un ragionevole ritardo da parte di Folco e con un bel gruzzolo
alla famiglia di quei Dobelli, tutto si sarebbe accomodato. Ma erano idee sue;
vedeva il padre e il figlio irremovibili; la testardaggine era il difetto di
casa Filippeschi. E se ne andò pacifico com'era venuto.
Di tutto questo, Folco mise a ragguaglio la
nuova contessa.
Ella lo ascoltava quasi con devozione, sempre,
parlasse egli di casi della vita, o di arte, o di studi, o scherzasse. Pianse
per lui, lo accarezzò, disse che amare era una grande sventura, che a lei si
negava il conforto dell'affetto largito pure alle bestie.
Folco non poteva vedere il caro volto inondato
di lagrime, i magnifici occhi velati, la soave bocca rattratta dal singhiozzo.
Aveva pensato più volte che sarebbe stato
prudente non andare a Parigi, poichè l'assegno di casa gli veniva a mancare, e
una trentina di migliaia di lire delle quali poteva ancora disporre sarebbero
presto sfumate; Gioconda alla quale aveva confidato il savio proposito dopo il
colloquio con Corradino Àutari, s'era mostrata subito contenta; rinunziava a
Parigi ben volentieri, se la rinunzia poteva assicurare un po' di pace al suo
Folco.
Ma questi, vedutala poi afflitta più giorni per
le acerbe dichiarazioni dei Filippeschi, non aveva saputo tener fermo. Gli
pareva di dovere egli darle qualche gioia, almeno una piccola soddisfazione di
vanità femminile. Il matrimonio non poteva per lei esser tutto nell'accogliere
le carezze del marito e nel cambiar di casa.
Non deve Folco, d'altra parte, continuare i suoi
studi e compiere le ricerche alla Biblioteca Nazionale?
Per ciò insiste, prega, ottiene che la contessa
muti ella pure d'avviso.
È così stabilito. Ella si dà subito a preparare
il corredo pel viaggio; e canta, gaia, con gli occhi ardenti di piacere come il
giorno in cui Folco le ha messo nel dito l'anello di rubino.
Un pomeriggio, tornando dalla passeggiata, Folco
trova in anticamera parecchie grandi scatole sulla cassapanca, e seduti due
ragazzi che le hanno portate. La cameriera gli spiega che la signora contessa
ha mandato a chiedere del pellicciaio.
- Bene, bene! - disse Folco.
Oltrepassata la soglia del salottino, vede
Gioconda, la quale prova innanzi allo specchio una giacca di martora. Sono,
tutt'intorno, sulle poltrone, sulla tavola, a terra, molte altre pelliccie
irsute, aggomitolate a guisa di belve, che mescolano forme e colori, bigio,
nero, bianco, rosso di fuoco, argento, su cui la seta delle fodere mette
riflessi di metallo.
Gioconda va speditamente incontro a Folco.
- Sto cercando - annuncia con un sorriso -
qualche cosa che mi si adatti: una giacca o una stola. Che preferisci?
- Allora giungo a proposito? - Interroga Folco,
allegro.
- Mandato dal cielo, amore mio, per
consigliarmi....
Ma il conte ammutolisce d'un subito.
Da un angolo del salotto, dov'era curvo a
disporre la roba già vista, si leva e si avanza con parecchi goffi inchini, il
pellicciaio. È Carlo Albèri, il giovanotto impomatato, quel Carlo Albèri che ha
negozio presso la casa dei Dobelli, voltato il canto, a sinistra; quella specie
di pupazzo dal volto roseo e dal sorriso meccanico, che voleva sposare
Gioconda.
Folco scruta lui, scruta Gioconda, interrogativo
e accigliato: ma l'uno e l'altra, quasi non capissero nè imaginassero lo sdegno
silenzioso del conte, appaiono imperturbabili. Carlo Albèri seguita a
sciorinare stole, posandole cautamente sugli òmeri della contessa o aiutandola
a infilar le maniche delle giacche.
- Ebbene, - riprende la signora, - che ti
sembra?... Mi va?... Ti piaccio?
Girando sui tacchi, si mette a fianco del marito
perchè la veda bene, e gli sorride intanto con gli occhi socchiusi: ha un
gesto, coi capi della stola fra le mani, pieno di civetteria.
- No, - risponde secco il conte.
E, tentato dalla voglia di farsi capire, benchè
il cuore gli dica che la tentazione non è degna di lui, si fa lecito di
soggiungere a Carlo Albèri:
- No; cotesta non va! La tenga per la sua futura
sposa....
- La mia futura? - esclama il pellicciaio col
volto atteggiato a stupore per la frase malaccorta. - Non ci arrivo più, signor
conte....
E con un sospiro che ha del rammarico, finisce:
- Sono ammogliato da quattro anni....
Gioconda dà in una limpida risata; getta d'un
colpo la stola, ne prende un'altra dalle mani di Carlo Albèri, il quale attende
quieto e grave alla bisogna.
Folco è stupefatto; così la contessa come il
pellicciaio sono sinceri, lontani dal sospettare quel che gli passa pel capo;
ella ride, egli è tutto in pena tra l'ammucchiar la roba guardata e il metterne
innanzi della nuova. La scena è tanto semplice, che il conte si domina, sorride
a Gioconda, le consiglia di buon grado l'acquisto di una stola e d'un manicotto
di zibellino per tremila lire all'incirca.
Ma quando Carlo Albèri, chiamati i ragazzi a
riporre il tesoro, prende congedo con inchini più rilevati, camminando fin sul
limitare a ritroso, Folco gli ripete:
- Davvero, Lei è ammogliato da quattro anni?...
- Il signor conte non può dubitarne, - conferma
il pellicciaio un po' scosso da tanta insistenza. - Tutto il quartiere dove
abito lo sa: quattro anni, cinque fra pochi mesi....
- Non me dubito, - conclude persuaso il conte. -
Domandavo, perchè Lei mi pare molto giovane....
Carlo Albèri se ne va, orgoglioso
dell'inaspettato complimento; e non appena l'uscio gli si è chiuso alle spalle,
Gioconda cinge delle braccia il collo del marito.
- Sei stato molto gentile, a farmi così bel
regalo!
Ma come presa da un'idea repentina, si stacca da
Folco, e ride ancora.
- Quel povero Albèri! - esclama. - Perchè
domandargli se è ammogliato? È rimasto a bocca aperta, e avrà creduto che tu
voglia rapirgli la sua perla!
- La conosci? - -interroga Folco.
- Oh sì! La signora Albèri ha i capelli di
stoppa rossi ed è tonda da tutti i lati.... Non credo ti convenga!
Folco notando il tono leggero e schietto con cui
parla la contessa, l'attira a sè nuovamente e la bacia sulla bocca.
È sincera.
E per lungo tempo il conte non osa più fare
allusione a quell'episodio: gli brucia dentro, gli torna crudele alla memoria,
lo irrita, lo umilia.
Chi lo ha giuocato mediante la commedia del
probabile fidanzamento della fanciulla col pellicciaio? La signora Delfina o il
signor Piero? o l'una a istigazione dell'altro? Presolo in trappola, abusando
della sua facile impressionabilità giovanile, lo han condotto lemme lemme a
sposar la loro figliuola; del che è ben lieto, nonostante i dissapori colla
famiglia e le gravi conseguenze economiche.
Ma perchè dubitar delle sue intenzioni leali,
trattarlo da gonzo e costringerlo? Così i bassi mercanti di minuterie e di
similoro si destreggiano sulle fiere con l'uomo di campagna; gli danno a
credere che se non compera subito, al prezzo domandato, verrà un altro, pronto
a dare di più; e il campagnuolo truffato ride melenso al pensiero che ha per
poca moneta ciò che gli altri cercano invano per molta.
Folco Filippeschi tacque: sentiva un ritegno
delicato anche verso la moglie, la quale apprendendo le miserabili giunterie
ond'ella gli era stata profferta e quasi gettata tra le braccia, ne avrebbe
arrossito per sè e per i suoi.
E Folco non avrebbe forse parlato mai più di
quel molesto episodio. L'amore voluttuoso e tenero di Gioconda lo ripagava
d'ogni malinconia.
Ma a Parigi ella è come ebbra di gioia, di
fracasso, di luce, di vanità, d'impazienza, di stupore: gli spettacoli si
susseguono; non v'è tempo a gustarli tutti. Quella vita, così lontana dalla sua
vita di fanciulla piccola borghese, ch'ella non poteva figurarsela se non con
un sorriso di desiderio rassegnato, ora le sta intorno, la tocca, la trascina,
la fa sua.
La strada pulsante, coperta di folla, annegata
in un fragore interminabile che sale, irrompe nelle case, con le voci rauche
imperiose delle automobili o il rimbombo sordo di grossi orrendi veicoli,
sembra eccitarla quasi fosse diffusa nell'aria un'essenza di febbre che le
penetra per tutti i pori. La contessa non vorrebbe riposare per non perdere
un'ora; anche dall'albergo guarda di tratto in tratto le luci fantastiche che
trapelano di là dalle cortine alle finestre; giù è l'onda fitta, nera della
folla, corteo senza fine; ai lati e in alto bruciano tutti i colori, dalla
sommità delle case ai piedi delle botteghe; nel mezzo quattro file rapide di
carrozze e di automobili. Passerà ella pure tra quella tempesta di fracasso,
per quella via ampia su cui ondeggia un fumo, una nebbia? forse più lontano,
laggiù, dove la luce si diffonde come una striscia bianca all'orizzonte?...
Folco prende parte alla felicità della giovane;
è felice egli pure della ingenua gratitudine ch'ella gli dimostra.
Gioconda spedisce ogni giorno un diluvio di
cartoline e di vedute alle sue amiche: viene da gente oscura, vive tra la luce;
desidera che quella gente sappia di qual luce viva e qual'è la sua gioia.
Folco osserva, lasciando che si sbizzarrisca.
Gli pare un poco strano ch'ella si senta ancor legata al mondo da cui l'ha
tolta e che ne voglia eccitar l'incanto o l'invidia: non ha saputo ancor
formarsi l'animo del presente, obliando i giorni di dubbio, di attesa, di
miseria. La contessa Gioconda Filippeschi manda cartoline a un capo fabbrica,
alla moglie di un tramviere, alla figliuola di un bollatore di lettere. Folco
osserva e non dice nulla.
Ma la contessa ha la preferenza per la madre: le
scrive quasi quotidianamente, narrando le sue giornate; è ancora sotto il
dominio di quella scaltra donna che ha fatto la fortuna della figliuola grazie
al raggiro e la perfetta grazia della menzogna. Folco non può dimenticarlo.
Una sera vede la contessa a tavolino, con la
penna nella destra, come di solito.
- Scrivo alla mamma, - ella spiega. - L'avverto
che andiamo a Versailles domani, perchè le sue lettere non abbiano a perdersi.
- Sarebbe una vera disgrazia! - ribatte Folco
ironico. - E poichè le scrivi, dovresti dire a tua madre che non c'era alcun
bisogno di mentire per costringermi a sposarti. Ti avrei sposata lo stesso.
Gioconda, già stupita del tono insolito con cui
parla suo marito, abbandona la penna, e chiede:
- Che significa?
- Era inutile, - spiega Folco, - la storiella di
Carlo Albèri: che se non ti avessi sposata io, ti avrebbe sposata lui.
La giovane si leva di scatto.
- Questo, ti hanno raccontato? Chi ti ha
raccontato questo?
- Tua madre; per poco io non prendeva a schiaffi
quell'innocente pellicciaio disgraziato....
- Che vergogna! - esclama Gioconda. - Perchè
mentire così?
- Lo domando anch'io: perchè mentire così? -
ripete Folco ridendo. - Si credeva forse che io ti avrei sposata per gelosia di
quel pover'uomo? Come si è potuto pensare di costringermi con uno stratagemma
ridicolo?... Io ti sposava perchè ti volevo, perchè ti amavo davvero.
Gioconda, volte le spalle alla tavola, piange a
capo chino.
Folco, pure sentendone dolore, vuole dir tutto
il suo pensiero e non tornar daccapo un'altra volta.
- La cosa in sè, - aggiunge prendendo posto in
una poltrona e attirando sulle ginocchia la giovane, la quale reclina il capo
sulla spalla di lui e lo ascolta, - la cosa in sè non ha nulla di grave; ma
rivela che i tuoi non rifuggono dall'inganno, e ciò mi dispiace. Io vorrei che
tu non fossi un po' di qua e un po' di là; un poco mia e un poco di tua
madre; un po' di ieri, un poco di oggi.... Mi comprendi?
- Vorresti che io fossi tutta di qua, tutta di
oggi, tutta tua, insomma? - traduce Gioconda con un sorriso attraverso alle
lagrime.
- Ecco!
- Hai ragione, ti domando scusa! - dice la
giovane alzandosi. - Guarda: non scrivo più a quegli amici.
Straccia prestamente un mucchio di cartoline già
pronte con l'indirizzo.
- Alla mamma scriverò più di rado, - promette,
mandando la lettera a raggiungere le cartoline.
Si volta, sta pensosa a fissare suo marito, il
volto del quale è ormai sereno.
- Del resto, sai? - dice, avvicinandosi quasi
impacciata, - tutta tua sono stata sempre, anche quando ero un poco di là, un
poco di ieri. Sono stata sempre tutta tua.
E sorridendogli quasi timidamente, si acquatta
docile ai piedi di Folco.
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