V.
Memorie di ieri.
Dalla fiumana di gente che batte il lastrico del
boulevard des Italiens da mattina a notte, sbucò una sera il marchese Ariberto
Puppi incontro a Folco e Gioconda; i quali passeggiavano pel piacere della
giovane che voleva sentire la folla.
La contessa lo notò subito. Camminava malcerto,
quasi zoppicando, e aveva una figura secca ed elegante a un tempo che, vista
una volta, non isfuggiva più all'occhio.
Gioconda lo rammentava bene, del resto.
Sul finire del pranzo di nozze, Ariberto Puppi
le si era messo vicino, abbandonando la sua dama Giustina Baguzzi, parente di
Gioconda, e aveva detto a questa mille graziose parole, facendola
sorridere spesso, ridere qualche volta.
Era stato il solo, fra gli amici di Folco, che
in quella baraonda di gente avesse tenuto il contegno adatto. Egli poteva
prendersi lievemente beffe di Giustina Baguzzi o di qualunque altra signora
caduta in quella riunione come una mosca nel latte; ma Gioconda Dobelli, fatta
quel giorno contessa Gioconda Filippeschi, non era, non poteva, non doveva
essere che la contessa Filippeschi, moglie di un gentiluomo suo amico: nessuno
aveva diritto a chiedere perchè, nè a rammentar la mancanza di cinque secoli di
nobiltà alla sua famiglia.
Il contegno di lui aveva tale espressione.
Ariberto s'era occupato di Gioconda, pur dicendole parole futili e leggere,
come s'occupava delle grandi dame di sua conoscenza. S'era messo francamente
tra lei e il piccolo mondo di sua origine, dando con abile naturalezza una
lezione di forma ai parenti e alle amiche di Gioconda e, insieme, agli amici
suoi, venuti al convegno per divertirsi.
Questi avevano capito; intorno a Gioconda s'era
formato un circolo di gentiluomini, la cui discreta, attenta galanteria aveva
richiamata la giovane alla realtà felice dell'avvenimento e al suo giusto
significato.
Ariberto Puppi era di dodici anni circa maggiore
di Folco; di diciassette, esattamente, più vecchio di Gioconda.
Ella voleva considerarlo vecchio, senz'altro;
aveva calcolato che poteva esserle quasi padre, un papà mandatole dal caso
fortunato. Ma s'era dovuta subito ricredere.
La vita di Ariberto Puppi narratale per sommi
capi da Folco in una di quelle ore di confidenza in cui è più caro il letto
nuziale, non le parve candida quale a un vecchio si conveniva.
Egli correva troppo il mondo; lo si rilevava,
del resto, dal suo stesso linguaggio: aveva veduto l'Europa intera, non una, ma
dieci volte; contava amicizie maschili e femminili non soltanto a Bucarest come
a Pietroburgo, ma nelle alte classi sociali, come tra la gente di teatro, nel
mondo degli scrittori, della diplomazia, degli artisti celebri, come tra gli
specialisti da caffè-concerto. Sapeva la storia d'infinita gente: aveva
pranzato alla tavola d'Edoardo VII e cenato con Rosa Belcolore; parlava di
politica, sempre tenendo l'occhio al retroscena, che valeva per lui il
retroscena della Boite à Fursy; non si sapeva di prim'acchito quando nominava
Jack o Dmitriew se intendeva parlare d'un ministro plenipotenziario o d'un
ammaestratore di foche. Dei diplomatici e dei Re, delle ballerine e degli
uomini politici, delle imprese di teatro e dei governi faceva tutta una cosa.
Disegnava figure e profili, raccontava abitudini visti dal vero. Non c'erano
giornali meglio informati di lui; ossia egli diceva quel che i giornali non
potevano dire.
No, non era il papà.
Gioconda lo constatò con grazia, scuotendo il
capo, dopo che Folco le aveva detto di lui ciò che credeva opportuno di dirle
per suo avviso.
- È un vero peccato! - osservò la giovane. - Noi
avevamo bisogno di un papà: il tuo non ci vuole, il mio non sa; siamo giovani e
la vita è difficile: possiamo aver bisogno d'un consiglio....
- Un consiglio si può sempre chiedere a un
amico, - rispose Folco sorridendo. - Io credo che Ariberto sia sincero quando
dice che mi vuol bene.
- Allora sarà il tuo papà, - concluse la
contessa. - Egli sarà il tuo papà.
E la notizia fu comunicata, prima di partire per
Parigi, ad Ariberto Puppi, il quale alzò le braccia al cielo con gesto di
desolazione:
- Ma quali consigli posso io dare a vostro
marito? - esclamò. - Egli veste benissimo e sa leggere un orario: io non vado
più oltre. Figuratevi, forse lo sapete, che traduceva François Villon, e io
ignorava anche l'esistenza di quel poeta. Non me ne importa nulla, ma ciò può
darvi idea della mia coltura!
Ariberto Puppi aveva la debolezza di mostrarsi
in tutto assai peggio di quel che non fosse: ignorante, pigro, volubile, nullo.
Stanco un giorno della rinomanza di bell'uomo, s'era tirato addosso una
grandine di mali finti, si era foggiato una maschera, s'era messo a camminare
come una navicella in burrasca, appoggiandosi, quando non se ne dimenticava, a
un bastoncino d'ebano.
Gioconda aveva appreso con infinito stupore che
tutti quei mali e quegli inconvenienti di cui Ariberto Puppi si doleva, non
esistevano affatto; egli voleva figurare come un uomo finito: altri hanno la
vanità di figurare sempre gagliardi.
La contessa ne aveva riso.
- È dunque vivo? - domandava a Folco.
- Vivo, vivo! - assicurava Folco. - Non ha mai
avuto un giorno d'emicrania.
- Se hai molti amici come Ariberto, puoi aprire
un manicomio....
- Esemplare unico! - definì Folco.
- Credo che finirà per essermi odioso! -
riflettè la giovane.
Ma quando lo vide quella sera sbucar d'un tratto
dalla fiumana di gente che batteva il lastrico del boulevard, ella
sorrise amichevolmente.
- Dove andate? - chiese Ariberto, quasi si
fossero lasciati un'ora prima.
- Io vado a dare un'occhiata ai balli russi.
Prendiamo un taxi; sapete che non posso camminare.
- Puppi! - gridò Gioconda, piantandosi sul
marciapiede. - Non cominciamo! Se volete essere il papà di Folco, non dovete
più parlare dei vostri malanni da burla.
- Io non parlerò più dei malanni, - consenti
Ariberto, - ma devo confessarvi che non ho mai pensato a essere il papà di
Folco.... Che cosa me ne farei? perchè volete darmi questa afflizione morale in
cambio delle afflizioni fisiche?
- Vi teniamo in serbo, - disse Gioconda, - pel
giorno in cui avremo bisogno di consiglio.
- Ma che? per darvi un consiglio, occorre
sollevare cento chili a braccio teso? sospendere in aria coi denti l'omnibus
del Giardino delle Piante? - domandò Ariberto spaventato.
La contessa rise dagli occhi e fece spallucce.
Non poteva serbare il broncio a un così buffo
amico; quella sera si divertì molto; i suoi sguardi quasi trepidi erano per
Folco; di tanto in tanto gli cercava la mano, perchè non si allontanasse pur
col pensiero; non pareva contenta s'egli non rispondeva col sorriso al sorriso
di lei. Ma rideva assai volentieri alla parola e alle osservazioni di Ariberto;
discuteva animatamente con lui sulle donne che vedeva intorno e sul loro modo
di vestire e di comportarsi.
Verso la fine dello spettacolo, Ariberto era
stanco.
Abituato a vivere con gente che viveva la sua
stessa vita e non aveva nè domande da rivolgergli nè scoperte da fare, il
marchese Puppi si stupiva della garrulità di Gioconda, del suo chiedere
incessante, del suo facile maravigliarsi, di quella curiosità tutta femminile
che vede due, tre cose alla volta e trova due, tre domande da metter fuori.
Egli rispondeva con minore attenzione: guardava
a quando a quando una ballerina sul palcoscenico, dorata dalla nuca ai tacchi,
la quale danzava con infernale rapidità una danza russa; e a quando a quando
Folco Filippeschi al suo fianco; il quale appariva sereno, soddisfatto, l'animo
riposato che gli traluceva dagli occhi senza ombre.
- Che bestia! - pensava Ariberto crudamente. -
Se avesse sposato la ballerina laggiù, non avrebbe avuto più noie e più disagi
che sposando questa ingenuissima e onestissima figliuola; col vantaggio che la
ballerina non si stupirebbe di nulla, e questa invece passa la vita a stupirsi
di tutto.... È una donna da fare, o meglio da rifare. Ci vorrà una bella
costanza, povero Folco!...
In quel momento, Gioconda, come usava, toccò la
mano di Folco e gli sorrise: Folco le sorrise. Nel cervello di Ariberto passò
il dubbio, senza ragione, senza gradazione, che la giovane non fosse sincera.
Dove aveva egli letto un profilo di donna, che sembrava far tutto quanto voleva
il suo innamorato e faceva invece tutto quanto voleva lei?
- Maria Feodòrowna Petrowski, - disse Gioconda
ad alta voce, guardando nel programma.
- La ballerina, - aggiunse distratto Ariberto.
Ma dove aveva letto quel profilo? andava
chiedendosi.
Leggeva tanto poco, per abitudine, che non
doveva essergli difficile rammentare una pagina. E la scovò infatti nella
memoria. Aveva comperato le liriche del Villon e le aveva guardate qua e là,
sbadigliando, tanto per sapere di che e di chi voleva occuparsi Folco
Filippeschi; subito gli eran caduti gli occhi sulla pagina in cui il poeta
parla con rancore della sua amante, l'ingannatrice docile.
Mentre i due, Folco e Gioconda, guardavan la
scena, tornò a fissarli.
Era facile comprendere che il conte Filippeschi
non vedeva nella contessa la donna, la moglie, la compagna, l'amica; vedeva la
perfezione. Non aveva detto venti parole nella serata e lasciava parlar lei; la
scrutava per sapere se godeva; era orgoglioso di leggere su quel volto piccolo
e bruno l'espressione del piacere, stava attento ad ogni suo gesto, quasi per
interpretarlo. La beveva, o si lasciava bere.
- E Villon? - chiese a un tratto Ariberto.
Folco sussultò come avesse udito lo sbatacchiar
fragoroso d'un uscio alle sue spalle.
- Non dovevi lavorare intorno a Villon? -
seguitò Ariberto. - Mi avevi detto, se non erro, che avresti cercato alla
Biblioteca Nazionale ciò che ti occorre?
- C'è tempo, - rispose Folco. - Ora Gioconda
deve divertirsi.
- Tocca alla contessa richiamarti al lavoro. -
-osservò Ariberto, sorridendo per attenuare nelle parole il senso di
rimprovero.
La contessa volse il capo lentamente.
- Io? - disse con indifferenza Ma subito si
corresse:
- Io sarei felice di veder lavorare il mio
Folco. Non m'importerebbe nulla di rimanere sola all'albergo se sapessi che
Folco è alla Biblioteca o non ha tempo d'accompagnarmi a teatro.
- Un giorno o l'altro, - promise Folco piuttosto
a sè medesimo che ad Ariberto, - mi ci metterò.
- Quanto rimarrete a Parigi? - domandò Ariberto.
- Chi sa? - disse Folco. - Fin che fa piacere a
Gioconda.
- Eh allora! - esclamò Ariberto ridendo.
Ma Gioconda gli lanciò un'occhiata insolitamente
fredda.
Quei discorsi la rattristavano. Gli studi
letterari di Folco le portavano il ricordo del salottino male illuminato da una
lampada miserabile, le facevano risuonare all'orecchio il ticchettìo della
macchina da scrivere, le spiegavano innanzi tutto il quadro dei giorni di
timore. Aveva tanto sofferto per la speranza di innamorare il conte Folco
Filippeschi, per lo spavento di vederlo sfuggire!...
François Villon non aveva oramai sulla sua anima
se non il potere di risvegliar quegli echi dolorosi. La sera che aveva
trascritto il Rondeau era stata seguita per lei da una tormentosa notte di
dubbi, una delle tante notti in cui sognava a occhi aperti. Folco l'amava?
L'amava davvero o si trattava d'un semplice capriccio? Era molto giovane:
poteva allontanarsi, dimenticarla, incontrar più facili prede. Ed ella si
comportava secondo prudenza, o doveva essere più ardita? continuare nel suo
riserbo o svelare abilmente a Folco con un tremito, con un gesto, con una
parola impensata, ch'era innamorata di lui?... L'alba si levava che la
fanciulla non aveva ancor trovato riposo.
Poi di giorno le toccava ascoltar le discussioni
tra sua madre e suo padre. Erano giunte da Perugia le informazioni su Folco
Filippeschi, di cui il signor Piero aveva dato incarico a un amico. Eccellenti;
magnifiche; insuperabili; un matrimonio di prim'ordine!... Folco sarebbe stato
ricchissimo; apparteneva a una nobiltà la cui origine si perdeva nella notte
dei secoli. Carattere mite; giovinezza pura; non si conoscevano di lui nè
trascorsi, nè vizii, nè debolezze, nè amoretti; dedito interamente a' suoi
studi; avido di gloria, ambizioso.
La mamma osservava, però, che i giorni passavano
e che l'ambizioso non si decideva. Avrebbe voluto un poco più di civetteria da
parte di Gioconda, di quella civetteria innocente, ignara, che è efficacissima;
il suo riserbo la faceva parer fredda, non lasciava nemmeno capire se aveva o
non aveva una simpatia per Folco, e Folco doveva trovare in sè il coraggio per
due, se voleva fare un passo risoluto.
Il signor Piero opinava invece che il contegno
di Gioconda non doveva mutare in nulla. Si fa presto a commettere un'imprudenza
che poi si rammenta e si rinfaccia a distanza di anni. Occorreva che Folco
Filippeschi si avanzasse lui, da solo; non avesse a pensare che Gioconda era in
cerca d'un marito.
La fanciulla ascoltava umiliata quelle diatribe,
accarezzando Dick aggomitolato sul suo grembo.
Finalmente un raggio di sole squarciava le cupe
nubi di quei giorni; Folco le aveva offerto l'anello di rubino col motto. Tale una
gioia rabbiosa s'era scatenata nell'animo della fanciulla, che, rimasta sola,
aveva addentato l'anello, come si addenta una preda da troppo tempo covata con
gli occhi. Tuttavia era stata ancora in dubbio, fino al giorno delle nozze,
fino al ritorno dal Municipio e dalla chiesa: allora soltanto aveva sentito la
tensione aspra dei nervi allentarsi; s'era abbandonata piangendo fra le braccia
di Folco.
E non era finita. A Parigi, egli le svelava il
raggiro stupido tramato da suo padre e da sua madre in silenzio: la storiella
del probabile fidanzamento con Carlo Albèri, ammogliato da ben cinque anni! Ne
aveva provato un subito rancore contro quei due: perchè non avvertirla, non
consigliarsi prima con lei?... O che mai era ella, perchè si tentassero tutte
le maniere di sbarazzarsene?... Poteva bene, bella, pura, intelligente, essere
amata da un conte Filippeschi, senza chiuder questi in una rete di volgarissime
giunterie.
I suoi l'annoiavano. Le scrivevano di continuo a
Parigi pel denaro. Sapevano che Folco non sarebbe stato diseredato, ma sapevano
pure che da casa non gli mandavano più un quattrino; e quanto sarebbe durata
quella situazione penosa?... Che la ragazza - la contessa Filippeschi era
tuttora e sempre in casa, la ragazza - ci pensasse, facesse economia,
trattenesse il conte....
Gioconda da più giorni non rispondeva.
Il marchese Ariberto Puppi col rammentarle
Francesco Villon e gli studi letterari di Folco, l'aveva inscientemente
ripiombata in quei ricordi angusti; umiliazioni, trepidanze, volgarità, insonnie,
lagrime: le liriche del poeta da capestro non le dicevano altro.
Si guardò rapidamente intorno; sbarrò gli occhi
quasi per abbacinarli al torrente di luce artificiale che inondava il teatro.
Le sembrò che tutte le donne le quali occupavano poltrone e palchetti, fossero
sue amiche, pari a lei; forse ella era anche più su, nella scala sociale. Esse
ignoravano Carlo Albèri, Dick, suo padre, sua madre, la lampada poco pulita, la
macchina da scrivere; erano simpatiche, vestivano tutte benissimo.
Gioconda assorbiva con voluttà il presente per
dimenticare il passato, per distruggerlo, perchè non osasse tornar mai.
- Folco, - disse, volgendosi a suo marito.
Desiderava prolungar le ore di godimento, che
l'allontanassero sempre più dalla casa bigiognola con le botteghe respiranti il
tanfo del loro traffico vecchio.
- Folco, - disse, - dopo lo spettacolo, vorrei
cenare....
- Ma certo, certo, - rispose Folco. - Ho molto
piacere di vederti così ben disposta.
- È una buona idea! - approvò Ariberto. - Vi condurrò
all'Abbaye; siete mai stati all'Abbaye?...
Allora la giovane sorrise anche a lui, un
sorriso mite di gratitudine.
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