Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Luciano Zuccoli
La volpe di Sparta

IntraText CT - Lettura del testo

  • VI.   Tutta di qua.
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

VI.

 

Tutta di qua.

 

L'ondata del piacere le passò accanto e per poco non la travolse.

Vide in quella cena all'Abbaye la vita parigina notturna, il ritrovo in cui le dame straniere dan di gomito a quelle che non sono dame; notò le eleganze spinte fino alla soglia della stranezza; una folla di donne in abito scollato, di uomini in abito nero, uno spumeggiar di calici, una profusione d'argenti, un ondular discreto di musica invisibile; sentì un fiotto di profumi discordanti salirle alle nari, impregnarle vesti e capelli.

Mangiò poco; non bevve quasi nulla; fingeva d'ascoltare ciò che dicevano i due uomini, Folco e Ariberto, il primo dei quali non aveva occhi se non per lei, e l'altro non vedeva nulla perchè aveva visto troppe volte lo stesso spettacolo o spettacoli consimili.

Ma gli sguardi di Gioconda seguivano con curiosità ciò che avveniva a questa e a quella tavola; faceva gran fatica a non rivolgersi per guardare anche le scene che si svolgevano alle sue spalle. Constatò con ingenua maraviglia che Ariberto conosceva tutti; prima di sedere aveva chiesto il permesso di salutare alcune dame ch'erano a una tavolata non molto discosto, e aveva finito per trovare amiche e amici a tutte le tavole.

La contessa lo vedeva inchinarsi, baciar la mano dell'una e dell'altra, dir qualche parola agli uomini, sorridere: gli chiedevano chi era la giovane signora e il gentiluomo che cenavano con lui; gli occhi dei commensali si posavano su Gioconda discretamente, ma non così di sfuggita ch'ella non comprendesse che si parlava di lei; era soddisfatta; il suo nome correva tra quella folla in cui erano rappresentati quasi tutti i paesi d'Europa.

- Voi incontrate il favore mondiale, cara contessa, - annunziò Ariberto nel tornare alla sua tavola. - Se mi sono attardato un poco, la colpa è più vostra che mia. Non c'è stato uno, non c'è stata una, che non mi abbia chiesto chi è la magnifica dama che Folco e io abbiamo l'onore di servire. Perfino la duchessa di Rejkiavik, la quale ha il difetto di spregiar tutte le donne che non siano mostri, ha dovuto confessare che siete ammirevole.

- Folco, disse Gioconda ridendo, - hai udito? sei contento della tua piccola moglie?...

Folco levò il capo a guardare intorno, per vedere la folla degli ammiratori.

- Se ti fa piacere il.... come ha detto Ariberto?... il favore mondiale, - rispose poi, - io sono certo contento: ma non avevo bisogno d'un plebiscito di questo genere per volerti bene....

Ariberto comprese che Folco Filippeschi era piccato, e mutò subito discorso.

Gioconda intuì a sua volta che Folco rammentava il giuoco di casa Dobelli, l'arte di risvegliar in lui la gelosia; e si morse le labbra. Ella sapeva ormai che invece di aizzar la passione e l'amore, come avviene nel cuore di quasi tutti gli uomini, la gelosia spegneva l'una e l'altro nel cuore di Folco.

- Mostratemi la duchessa di Rejkiavik, - ella pregò Ariberto.

Questi, felice di trovare facile argomento a discorsi che potevano distrarre Folco dalla prima inquietudine, indicò a Gioconda la duchessa e via via i commensali più cospicui, da un re in incognito a un granduca russo, a un generale inglese, dalle attrici meglio note a quella Maria Feodòrowna Petrowski che un'ora prima ballava, tutta d'oro dalla nuca ai tacchi, l'infernal danza moscovita.

La cena si protrasse a lungo, servita da tre camerieri con una gravità la quale pareva invitare a considerare seriamente ogni portata nella sua bellezza complicata prima di gustarla.

Era notte tardissima, allorchè Gioconda metteva piede sul predellino dell'automobile per far ritorno all'albergo. Ariberto aveva preso congedo; intendeva prolungar di qualche ora la veglia con alcuni amici che lo avevano invitato alla loro tavola.

Ma appena furono soli nell'automobile e Folco le sedette al fianco, Gioconda indovinò ch'egli era ostile, di malumore.

- Non ti sei divertito? - ella chiese.

- Poco. La folla che ti guarda m'indispettisce, - rispose Folco.

Gioconda gli prese la destra fra le sue piccole mani, e la tenne, in silenzio.

Egli si chinò a baciarla. Come per magia, il malumore e l'ostilità erano sfumati nell'animo di lui al solo contatto di quelle mani.

- Non badarci, - disse, quasi scusandosi. - Ti ho condotta a Parigi perchè ti diverta, e non pensare a me.

La contessa non rispose; guardava i boulevards, oscuri, a quella tarda ora quasi deserti, alcuni popolati da gente malvestita, che rasentava le case. La città non dormiva; era cessata la furia dei veicoli, ma serpeggiava la vita subdola della notte, ma quelle ombre che passavano erano indizio di convegni finiti o di convegni che principiavano; molti rettangoli di luce nelle case svelavano ore d'insonnia o di veglia, in attesa della luce nebbiosa dell'alba.

Gioconda inebriata da quel tuffo di vita mondana, pensava seriamente se non fosse stato possibile ottenere da Folco di rimaner per sempre a Parigi; forse, a poco a poco, non senza molta arte, non senza quella sommissione che vinceva nell'animo di Folco i più ragionevoli propositi.

Ella aveva dimenticato che i danari di Folco non potevano durare eternamente; s'illudeva sulla cifra, sul valore, sulle spese; forse ne aveva altri, Folco, dei quali non aveva parlato.

- Non andremo più all'Abbaye, - ella disse a un tratto.

- Perchè, se ti diverti? - obiettò Folco sorpreso.

La giovine volse il capo per nascondere un sorriso di vittoria.

Ariberto Puppi non comparve l'indomani i giorni successivi; mandò alla contessa un gruppo di orchidee e stette assente una settimana. Gioconda non disse nulla, ma fu inquieta. Quell'uomo conosceva Parigi come ella conosceva la sua piccola casa trafitta da misere finestrucole; era una guida sicura.

Sopra tutto piaceva a Gioconda quel vivere di lui accanto sempre, dentro spesso, alla grande vita internazionale di lusso; quell'udirlo nominar la contessa Filippeschi insieme alla principessa di Furstein, al granduca Vladimir, ai nomi più eletti che rappresentavano l'aristocrazia e la plutocrazia di tutto il mondo, la lusingava.

Finalmente Ariberto venne una sera a prendere «i suoi figliuoli», e andarono a teatro e cenarono.

- Ebbene, - chiese la contessa a Folco, tornando a casa e gettando la stola di zibellino sul letto, - non sono ora tutta di qua?

Rideva al pensiero che i primi giorni ella aveva osato spedir cartoline alla sarta, alla modista, alla moglie del fuochista o del tramviere. Il suo nome figurava ormai nel Figaro con quello di Folco tra i commensali più assidui dei ritrovi più eleganti.

- Sei tutta di qua! - ripetè Folco sorridendo. - Ora andiamo bene.

Tornò alla mente di Gioconda l'idea di stabilirsi a Parigi; ogni volta ch'ella si sentiva sfiorata dall'onda del tramestìo gaio, e poteva vivere la grande vita notturna, il suo cervello s'annebbiava. Era notata per la sua bellezza; ma pure accarezzando la sua ambizione femminile, gli omaggi e gli aggettivi dei giornali su quel tema non le bastavano. Voleva essere, come ella diceva, «distinta», fine, veramente signora.

E senza parere, studiava il portamento, l'atteggiamento, gli sguardi, i gesti delle grandi signore italiane, inglesi, russe, francesi, con le quali si trovava nelle sale dei teatri, nei luoghi di convegno alla moda. Non solo, in breve, non tormentava più Folco e Ariberto con una tempesta di domande attonite, ma sapeva apparir freddissima in pubblico, quasi indifferente agli spettacoli, come tutta la sua giovinezza fosse trascorsa nel fasto che non ha più nulla da desiderare, come ella tornasse da viaggi in cui aveva visto ogni cosa.

Così era «tutta di qua».

Folco se ne stupiva senza parlare; perchè non appena varcata la soglia della loro camera all'albergo, Gioconda traboccava di gioia, d'allegria, di spensieratezza; si accoccolava volontieri per terra, cantava a gola spiegata, sfrenava quasi selvaggiamente la furia delle domande; era per Folco solo, nella più soave intimità, la ragazza che camminava trasognata in un paese di incanti e aveva bisogno di aggrapparsi al braccio di lui per non vacillare.

Il marchese Puppi, il quale voleva bene davvero a Folco Filippeschi, e non sapeva ancora definire la contessa, oscillando a volta a volta fra i giudizi più contradditorii, seguitava a osservar la coppia: con curiosità Gioconda; con qualche timore Folco.

Egli non aveva potuto assodare se non che Folco Filippeschi era incappato fino al collo; buona cosa, giudicava Ariberto, in amore; temibilissima nel matrimonio. L'amore è breve: il matrimonio è eterno; l'amore è un episodio, il matrimonio è la vita; si può per un mese, per un anno rinunziare alla propria personalità, trascurare i propri interessi; non si può per la vita intera. Occorre che nel matrimonio l'uomo sia il padrone, quanto più gli è possibile amorevole e persuasivo; ma padrone.

Per ciò Ariberto Puppi non s'era ammogliato.

- È una «cuffia»! - egli disse a medesimo, per definire l'amore di Folco verso Gioconda.

Una sera udì che un poco celiando, un poco da senno, la contessa avanzava l'idea di stabilirsi a Parigi; così abilmente, con tanta cautela, ch'egli rammentò certi topolini, i quali prima d'arrischiare una corsa alla luce sporgono il musetto, fiutano l'aria, drizzan le orecchie, volgono il capo di qua e di ; e non appena il silenzio e l'odore li rassicurano, via di galoppo, saltellando felici al sole, al vento.

- Perbacco! - si lasciò sfuggire Ariberto.

- Che cosa significa «perbacco»? - interrogò pronta Gioconda.

Ariberto si strinse nelle spalle ridendo.

- Non significa nulla! - spiegò. - Tocca a Folco dir l'ultima parola.

Folco non disse, e Gioconda non domandò.

Ma se Ariberto non riusciva ancora a capir bene lei, ella non riusciva affatto a capire Ariberto.

Era un amico? era un nemico? Proteggeva Gioconda o proteggeva Folco? a quale dei due avrebbe portato aiuto e consiglio in caso di dissenso? Sotto la squisitezza delle maniere signorili, Ariberto sembrava a Gioconda impenetrabile. Non appena si trattava d'esprimere un'opinione che avesse qualche peso, egli si distraeva con una sagacia diplomatica, la quale era riuscita a irritar più d'una volta Gioconda, d'una irritazione tuttavia ben dissimulata.

Quel «perbacco» significava «che sciocchezza!» o «che buona idea»? Non si sapeva. Negli occhi della contessa si accese un lampo d'ira, ch'ella non potè nascondere se non volgendo il capo subitamente.

L'indomani mattina, mentre Folco leggeva il giornale, aspettando che Gioconda si abbigliasse per uscire, fu telefonato al conte Filippeschi che il marchese Puppi lo attendeva nella sala di lettura per dirgli una parola.

- È Ariberto, - si volse Folco a Gioconda. - Che può volere?

- Ma! - disse Gioconda inquieta.

- Io scendo: tu mi raggiungi.

- Fra poco.

Nella sala di lettura, guardando alcune stampe inglesi, le quali rappresentavano scene di caccia a cavallo, Ariberto Puppi ruminava dentro di i pensieri che lo avevano deciso a quel colloquio. Vestiva in abito grigio, teneva sotto il braccio il cappello floscio, e, dimentico delle sue numerose infermità, aveva posato il bastoncino d'ebano sulla tavola nel mezzo della sala.

Andò con un sorriso amichevole incontro a Folco.

- Sei vestito per uscire? - chiese, scorgendo nella sinistra di Folco il cappello e il bastone.

- Sì; Gioconda mi deve raggiungere qui; andiamo al Museo Cernuschi.

- Ah, sta bene!

Sedettero su un divano; quindi Ariberto riprese:

- Io devo partir domattina per Londra; sono passato a salutarti, e mi riservavo di venire stasera a presentare i miei omaggi alla contessa....

- Mi spiace molto che tu parta, - rispose Folco. - Dispiacerà molto anche a Gioconda.... Ma tornerai presto, speriamo?

- Rimarrò a Londra un mese, almeno.

- Oh, allora ci ritroverai qui! - esclamò Folco.

- Davvero? - fece Ariberto. - Ancora un mese a Parigi?

- Che vuoi? - spiegò Folco. - Gioconda ci si diverte. Non hai udito che iersera parlava di stabilirci?

- Ti pare? Io ho creduto che scherzasse! - ribattè vivamente Ariberto. - Perchè questa vita....

Si arrestò, quasi ravvedendosi a tempo.

- Ebbene? - interrogò Folco sorridendo. - Questa vita?...

- Mi permetti di parlarti con franchezza: non mi terrai il broncio? - domandò Ariberto.

- Ma te ne prego; so che tu mi vuoi bene; le tue osservazioni possono essere giuste o non giuste, ma sono certamente dettate dalla sollecitudine per me, per noi.

- Non conti, - incalzò Ariberto, - che io ho un'infinità d'anni più della contessa, più di te? Sono un vecchio.

- Pei vecchi il diritto della parola è sacro! - disse Folco ridendo. E così?...

- Ti dicevo che questa vita è dannosa alla contessa e a te; alla contessa perchè non le concede un'ora di quiete; a te, perchè non ti lascia far nulla.

Io credo che la contessa per la prima ne sia stufa e non osi dirtelo: oramai ha veduto tutto quanto di strano e di eccezionale la vita di Parigi può offrire a una signora; avete percorso rapidamente il ciclo; non potete che ripercorrerlo, due, tre, dieci volte, non so con quanto gusto....

Fece una pausa, guardò Folco per comprendere quale effetto sortivano le sue parole; ma il giovine a testa china disegnava con la punta del bastone imaginarii disegni sul tappeto.

- Per ciò credevo, - soggiunse Ariberto esitante, - che non vi sareste trattenuti ancora a lungo.

Folco levò il capo e, guardando dritto Ariberto negli occhi, interrogò:

- Tu mi consigli di andarmene?

- Non ho il diritto di consigliare, - rispose Ariberto prudentemente.

- Ma se ti chiedessi un consiglio? - fece il giovane.

- Allora ti direi che puoi anche rimanere, purchè non dimentichi lo scopo pel quale sei venuto qui, purchè tu tragga qualche profitto da questo lungo soggiorno.

- Ma non potrei più tener compagnia a Gioconda, - obiettò Folco. - Il giorno alla Biblioteca Nazionale; la sera a coordinare le notizie raccolte, a studiare e a leggere....

- Se non erro, - osservò Ariberto, - la contessa ha detto che sarebbe lieta di vederti lavorare e che nulla le importerebbe di rinunziare ai divertimenti quando ciò ti fosse utile.

- Tu credi?

- Perchè dubitarne? Bisognerebbe che io le facessi l'affronto di supporre che mentiva.

Seguì un breve silenzio, durante il quale Folco riprese a disegnar ghirigori sul tappeto; poi di nuovo alzò la testa e domandò:

- Lavorare, a che scopo?

- È una domanda molto delicata, - fece Ariberto, esitando di nuovo.

- Ti prego di parlare con franchezza, - disse Folco, - -di esporre tutto il tuo pensiero....

- Lavorare ti sarà sempre giovevole, - riprese Ariberto, - anche se non ti renderà danaro per ora. Ti sarà giovevole agli occhi della tua famiglia, della quale, io credo, ambisci la stima....

- Senza dubbio, - esclamò Folco.

- Tu ti sei messo contro i tuoi, a causa del matrimonio, - seguitò Ariberto. - I tuoi ti vedono a Parigi per più mesi, viver la vita elegante e dimenticare ogni giorno meglio i tuoi disegni di studio. Ciò non mi pare prudente da parte tua. Ben altro sarebbe il giudizio che farebbero di te, se sapessero che il matrimonio non ti ha distolto dai tuoi progetti, e che il tempo passato a Parigi non è stato tutto sciupato. Io ho sempre la speranza, perdonami se te lo dico, di vederti riconciliato coi tuoi e la contessa accolta come ella merita. Il tuo lavoro sarà un buon argomento in tuo favore, mentre l'ozio può non nuocere, ma certo non giova.

- Hai ragione, - disse Folco.

- Inoltre, seguitò Ariberto, incoraggiato dall'approvazione dell'amico, - presto o tardi avrai bisogno di danaro.

- Oh, - interruppe Folco, - non sarà un libro di studi critici o di profili letterarii che potrà darmi da vivere!

- E allora? - interrogò Ariberto.

- Lavorerò diversamente: farò un mestiere.

- Suvvia! - esclamò Ariberto stupito, - è molto.... è molto....

E non trovava la parola adatta, sufficientemente dolce.

- È molto originale ciò che tu dici, - seguitò poi. Come? Sei in procinto di guadagnarti da vivere facendo un mestiere, e ti balocchi a Parigi, tra cene e teatri? Ma se lo sapesse, la contessa per la prima te lo impedirebbe!... A me la vita di Parigi costa in media duecento lire al giorno.

- Noi siamo più modesti, - osservò Folco. - Finora spendiamo noi due ciò che tu spendi da solo; ma certo spendiamo troppo per quello di cui posso disporre.

- È un'altra ragione per deciderti a partire o per riprendere i tuoi studi, - ribattè Ariberto.

Folco si alzò e gli stese la mano.

- Ti ringrazio, - disse. - Non dimenticherò la prova d'amicizia che mi hai dato con le tue leali parole!

Stette un poco in ascolto, poi aggiunse:

- Te ne prego: non parlarne a Gioconda. Credo sia qui....

Si udiva infatti nel corridoio un lieve fruscìo di gonne sulla corsia azzurra.

Ariberto si piantò innanzi a una delle stampe inglesi, e accennando col bastoncino d'ebano, osservò ad alta voce:

- No, no, Folco; tu hai torto di credere che siano antiche. Se non erro, sono imitazioni; belle imitazioni senza dubbio, ma temo siano state colorate sulla tiratura in nero.... Oh, contessa, buon giorno! Sono venuto a portarvi il mio saluto....

La contessa ch'era apparsa sulla soglia, gli porse la destra da baciare; apprese che Ariberto doveva partire per Londra e se ne mostrò dolente; ma subito parve rasserenata:

- Un mese? - disse. - Soltanto un mese? Allora ci ritroveremo qui, perchè noi non abbiamo alcuna intenzione di andarcene. Non è vero, Folco?

Folco acconsentì con un moto del capo, e gettò un'occhiata ad Ariberto Puppi. Voleva dire:

- Vedi?... Come si fa?...

 

 

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License