VII.
La tempesta.
Gioconda rilevò non senza inquietudine che del
colloquio abbastanza lungo con Ariberto Puppi, suo marito non le dava alcun
ragguaglio.
Egli disse che avevan parlato d'arte, di stampe,
aspettando lei; e Gioconda ebbe l'impressione che Folco non diceva il vero o
non diceva tutto.
Perchè?
Osservato attentamente Folco, le sembrò
pensieroso: che di tanto in tanto si scuotesse come per non essere sorpreso, ed
esagerasse allora la sua abituale spigliatezza.
Perchè?
Le due domande urgevano. Gioconda sentiva
d'essere sul limitare di un piccolo segreto, il quale le avrebbe dato la chiave
anche dell'altro, della domanda che spesso si rivolgeva: Ariberto era un amico
o un nemico? aveva su Folco un ascendente che giovava a lei o le nuoceva?
Tentò di cogliere Folco alla sprovvista. Chiese:
- Che cosa farà a Londra?
- Non so, rispose Folco.
- Come? non ti ha detto neppur questo?
- Non avevo il diritto d'interrogarlo.
- È vero, ma credevo ch'egli spontaneamente....
- Non mi ha detto nulla, forse perchè è facile
comprendere che a Londra farà quel che faceva qui, cioè niente. Egli passa, del
resto, ogni anno un mese in Inghilterra, ospite di amici....
- E delle stampe, che cosa ti ha detto? -
interrogò bruscamente Gioconda.
La domanda giungeva inaspettata.
Folco, alieno per educazione e per orgoglio
dalla menzogna, non aveva facilità ad inventare; sentì che una vampa gli saliva
alla fronte.
- Oh, - fece distratto, - abbiamo parlato così,
in generale, a proposito di quelle stampe inglesi....
La contessa fu certa, da quel momento, che Folco
mentiva.
Ariberto aveva parlato di ben altro, di cose
tanto gravi e importanti che Folco non poteva riferirgliele esattamente. E che
potevano essere, se non giudizii su lei stessa? Ella era certa che Ariberto non
si sarebbe fatta lecita un'opinione men che favorevole, e che Folco non
l'avrebbe ascoltata senza chiederne la ragione. Ma infine qualche cosa ci
doveva essere. Il giudizio più ostile può essere abilmente larvato con la forma
più cortese.
Ebbe uno slancio d'ira, quasi d'odio contro
Ariberto. Il suo istinto femminile l'avvertiva ch'egli era un nemico: un temibile
nemico perchè raffinatamente gentile.
Le tornò in niente la frase che la direttrice
del collegio di monache presso il quale era stata educata i primi anni,
ripeteva con frequenza: «È inutile uccidere un nemico; basta seppellirlo sotto
i fiori».
Ariberto Puppi doveva essere della stessa
scuola.
Gioconda aveva un carattere impetuoso, ch'ella
vigilava con cura instancabile perchè non traboccasse; ma pur rimanendo giù,
chiusi e frenati, l'impeto, l'ardenza del carattere vivevano sempre.
Al pensiero di poter essere stretta lentamente e
implacabilmente nell'aura di veleno diafano che un abile nemico le seminava
intorno, si sentì soffocare.
Già la docilità perfetta, l'arte di sommessione
con cui riusciva a condurre Folco, le costavano ogni giorno un immane sforzo su
sè stessa; un altro da disarmare con la stessa attenta cautela, con la stessa
obliqua sagacia, l'avrebbe trovata esausta.
Andarono al Museo Cernuschi, ma non videro bene.
Erano ormai ambedue nervosi; un'ombra pesante sembrava esser caduta fra l'uno e
l'altra. Fecero colazione al Pré Catelan, ma parlarono poco; Gioconda
sorrideva, e il suo pensiero era lontano; Folco tentava d'allacciare una
conversazione, e il suo pensiero era lontano.
Mentre rientravano all'albergo il portiere
si presentò ad avvertire che come gli avevano ordinato, aveva fatto notare due
poltrone per lo Châtelet.
- Ah, - disse Folco, quasi sorpreso. - Sta bene.
A che ora?
- Alle nove, - rispose il portiere.
Gioconda si domandò invano che cosa pensasse.
Le due camere da letto erano contigue, Gioconda
udì che Folco apriva il baule; poi dal fruscìo capì che ne levava delle carte,
e da un certo giro di chiave, che apriva una busta di pelle in cui eran chiusi
i suoi manoscritti.
Ella conosceva bene quella busta. L'aveva tenuta
in casa, da fanciulla, presso la macchina da scrivere, e ogni sera Folco vi
aggiungeva una pagina di note o di traduzione. La busta sapeva la povera vita
oscura d'altri tempi. Gioconda vi aveva, più di una notte insonne, posato il
capo a piangere, l'aveva serrata al petto con furore, quasi la busta avesse
contenuto, inesplicabile e misterioso, l'avvenire di lei.
Gioconda andò sulla soglia a guardare, stese le
braccia nel vano, appoggiando le mani all'uno e all'altro stipite. Era un suo
gesto abituale; avanzava il capo a sorridere e a chiamare Folco.
Ma non sorrideva quel giorno. Scorse Folco, il
quale, volgendo le spalle, s'era messo a tavolino e rileggeva o annotava con
una matita.
- Lavori? chiese la contessa.
Folco trasalì, come destato di soprassalto.
- Sì. - rispose, girando la testa a guardarla. -
Lavoro un poco.
Gioconda avanzò di qualche passo.
- Lavorerai anche stasera? - seguitò.
- Se fosse possibile....
- Allora bisogna avvertire che le poltrone allo
Châtelet sono libere, - disse Gioconda.
Folco si alzò, avvicinandosi a sua moglie. Aveva
sentito nelle sue parole un malcontento, una freddezza, che gli riuscivano
dolorosamente nuove.
- Ti dispiace? - interrogò.
- Non mi dispiace affatto, - rispose la contessa
allontanandosi.
Aveva veduto sul tavolino la busta, le carte coi
segni ch'ella odiava; tutta la sua vita brancolante di fanciulla povera dalla
biancheria di cotone era balzata fuori come per magìa da quel baule, a
rammentarle la cecità della fortuna.
- Ti dispiace? - ripetè Folco, seguendola.
- No, - disse ancora Gioconda, con la stessa
freddezza.
E prese posto in una poltrona, guardando qua e
là, fuor che in faccia al giovane.
Poi travolta all'improvviso dall'indole veemente
che si svelava contro la sua stessa volontà, esclamò di scatto:
- Questo, ti ha detto Ariberto? che devi
lavorare? che non dobbiamo andar più a teatro?... Perchè non mi hai riferito le
sue parole? Egli deve aver detto qualche cosa anche contro di me....
Folco la interruppe con un gesto.
- Mi stupisco, - ribattè, - che tu possa anche
semplicemente supporlo. Ariberto non ha avuto per te se non parole
d'ammirazione e d'amicizia. E tu puoi credere che io avrei permesso una frase
non deferente, non gentile?
- E sia! - riprese la contessa. - È stato
deferente, gentile, amico, ammirativo, tutto quello che vuoi. Ma perchè hai
taciuto tutto ciò che ti ha detto? Perchè mi hai inventato le bugie più
puerili? Credevo tu avessi compreso che fremo, da stamane. Non per le opinioni,
non per i consigli di Ariberto, dei quali posso anche non tener conto;
ma perchè ho capito che non ho più la tua confidenza e che tu tenti
d'ingannarmi. Ariberto ti sprona a lavorare. Fa benissimo. E perchè tu racconti
invece che avete parlato di stampe e di arte? Ha dunque espresso qualche
giudizio che io non devo sapere? Una volta quando ero la tua amica e la tua
fidanzata, tu mi raccontavi perfino i tuoi progetti letterari, senza nemmeno
assicurarti che fossi capace di comprenderli; oggi che sono tua moglie, tu mi
metti in disparte, e i colloquii col più intimo dei tuoi amici diventano
misteriosi per me?... È un consiglio di Ariberto, anche questo?
Folco guardava Gioconda, attonito.
Era irriconoscibile.
Aggomitolata nella poltrona, pareva non vivesse
se non nel viso fattosi pallidissimo, quasi bianco; anche le labbra le si erano
scolorite per l'ira, e gli occhi nel pallore mandavano una fiamma
straordinaria. Aveva perduto la grazia di fanciulla ignara, che sembrava essere
rimasta non tocca in lei; l'espressione della sfida, d'un orgoglio vendicativo,
malvagio, le pervadeva tutto il volto.
Sarebbe stato difficile dire s'era più bella
nelle ore di calma gioia o in quell'ora d'impeto furioso; certo la donna
appariva d'un tratto, dritta sul busto, alta col capo, in tutta la sua forza
felina.
- Gioconda, t'inganni! - interruppe Folco.
- No, non m'inganno. Sento che Ariberto Puppi
non mi è stato mai amico. Forse anch'egli, come i tuoi, mi crede indegna perchè
vengo da povera piccola gente e mi sono conservata pura tra le privazioni.
Forse perchè la mia casa è fredda d'inverno e mio padre non è stato mai a
Parigi, a Londra, e non si è mai ubbriacato di sciampagna?
- Gioconda! - esclamò Folco, movendo un passo
contro di lei. - Non devi parlare in questo modo nè dei miei, nè di Ariberto!
Te lo proibisco!...
La contessa tacque subito. Si alzò, andò alla
finestra, scostò macchinalmente le cortine e guardò la folla nera nella strada.
- Ariberto mi ha rammentato che sono a Parigi
per lavorare, - seguitò Folco con voce più calma. - Ho fatto male a non
dirtelo; ne convengo; e te ne chiedo scusa. Credevo che pel mio lavoro tu non
avessi più simpatia, e mi ripromettevo di lavorare solo. Ecco tutto. Ariberto
non ha detto altro. Cioè, sì: ha dello che si augura di sapermi presto
riconciliato coi miei e di veder te accolta dalla mia famiglia come meriti....
Fece una pausa, aspettando che Gioconda
riconoscesse il suo errore.
Gioconda taceva.
- Hai capito? - seguitò Folco dolcemente. - Ti
chiedo perdono di non averti riferito subito ogni cosa; non vi sono misteri nè
tra te e me, nè tra me e Ariberto. Ho taciuto per una delicatezza esagerata,
per non importunarti con i miei vecchi scartafacci. Non è una colpa....
Gioconda restava immobile a guardar dalla
finestra senza vedere.
- Gioconda! - ripetè Folco avvicinandosele.
Tentò di abbracciarla e si sentì respinto.
- Non credi a quello che ti ho detto? - domandò
stupito. - Credo! - rispose la contessa volgendosi.
Ella era pallida e la sua voce non aveva tono.
- E allora? Non ti pare d'avere avuto torto?...
La contessa tacque.
- Gioconda! pregò Folco. - Rispondimi una
parola.
- Non so, - disse Gioconda lentamente, - se ho
avuto torto. È possibile. Ma so bene che c'è qualcuno ormai il quale può tutto
su di te, può farti mutar vita da un'ora all'altra, può domani anche nuocerti
con un consiglio sbagliato....
- Oh, - fece Folco sorridendo. Sei gelosa
d'Ariberto?
- Io temo ch'egli non sia sincero, - rispose la
contessa.
Folco frenò a stento un gesto d'impazienza.
- Ma che vuoi? Finora non ho avuto da lui se non
parole molto savie: credo ch'egli mi sia veramente affezionato e che la sua
amicizia onesta e la sua esperienza mi siano utili.
- La sua esperienza? - esclamò Gioconda.
Si rattenne un istante, poi soggiunse:
- Ma non mi hai raccontato tu stesso ch'egli ha
corso tutto il mondo in cerca di piaceri? che non ha mai fatto nulla? che non
ha esperienza se non di giuoco, di donne, di cavalli? Sono tue parole, queste,
e me le dicevi quando io ingenuamente volevo chiamarlo papà o volevo facesse da
padre a te.
- È verissimo, - rispose Folco. - Tuttavia,
sotto un'apparenza frivola si nasconde un'anima diritta, che non oserebbe mai
darmi un consiglio il quale non venisse da considerazioni di probità e d'onore.
La contessa non dissimulò un sorriso lievemente
sarcastico.
- Sei molto ingiusta con lui, - osservò Folco. -
Io vorrei sapere che cosa tu desideri. Forse ti dispiace che io riprenda a
lavorare?
- Oh, no! - ribattè vivamente Gioconda. - Sono
contenta che ti occupi dei tuoi studi!
- Forse vuoi che allontani Ariberto, senza un
motivo, anzi quando ho motivo a essergli grato per le sue parole affettuose?
La giovane tacque. Rimaneva in lei
l'impressione, ostinata, che Ariberto fosse un nemico temibile; ma comprese
che, neppur pregato, Folco non se ne sarebbe potuto sbarazzare d'un colpo.
Meglio era attendere e vigilare.
- Non desidero nulla, - rispose freddamente. -
Tutto sta bene come tu dici.
- Gioconda, te ne prego. Aiutiamoci a dissipar
questo malinteso.
- Non c'è alcun malinteso, - assicurò Gioconda
con la medesima freddezza. - Vorrei rimanere sola!
Folco la guardò, interrogativo. La vide pallida,
con la fronte annuvolata. Varcò la soglia senza rispondere. Gioconda chiuse
l'uscio. Folco udì girare la chiave nella toppa.
Allora egli afferrò la busta, i manoscritti, i
libri che giacevano sul tavolino, e con un gesto desolato li gettò di nuovo nel
baule.
Fissò l'uscio chiuso, domandandosi invano la
ragione di tanta severità.
Egli non sapeva ancora che il peggior nemico
della donna è colui il quale la convince d'avere avuto torto.
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