VIII.
Vicende.
La signora Delfina e il signor Piero Dobelli
rimasero sbalorditi apprendendo da una conoscente chiacchierina che la contessa
Filippeschi era da otto giorni a Milano. Dopo quattro mesi di assenza, da otto giorni
a Milano, e non aveva avvertito la famiglia del suo arrivo, nè era andata a
trovarla....
- Che cosa si fa? - chiese Delfina.
- Si fa finta di non sapere nulla, e si passa da
casa sua, - rispose Piero.
Uscirono: per abitudine, Delfina andava innanzi;
veniva poi Piero; e da ultimo Dick, il quale essendo vecchio e grasso camminava
piano, indifferente al viavai delle strade popolose come alla vista di altri
cani, che gli davano una fiutata e tiravan via. Per riguardo a Dick, camminava
piano anche Piero e camminava piano anche Delfina; i tre componevano il corteo
della vita pacifica.
- Di questo passo, - osservò Piero, - arriveremo
da Gioconda verso l'alba.
Si consultarono, diedero un'occhiata a Dick, il
quale aveva bisogno di prendere una boccata d'aria, e decisero di noleggiare
una carrozza. Dick si acconciò di malavoglia tra Delfina e Piero, perchè odiava
le novità; e le passeggiate in carrozza erano in casa Dobelli tal novità, che
Dick non ne rammentava due nella sua quattordicenne esistenza.
La contessa Filippeschi era in casa. Si fecero
annunziare, mentre la cameriera apriva loro l'uscio del salotto. Attesero venti
minuti.
Finalmente Gioconda comparve, con la sigaretta
tra l'indice e il medio della sinistra.
La signora Delfina pensava di slanciarsele fra
le braccia, ma l'espressione fredda di Gioconda la rattenne immediatamente. Più
che fredda, era accigliata.
- Ah, siete voi! - disse. - Accomodatevi. Mi fa
piacere di vedervi.
- Capirai: noi ti scrivevamo e tu non
rispondevi! - osservò Piero. - -Sei tornata e non ci hai avvertiti.
- Avevo le mie buone ragioni! - rimbeccò pronta
Gioconda.
- Imbronciata con noi? esclamò Delfina. - Che
cosa ti abbiamo fatto?
- Ma sì: che è questa indegna commedia del
pellicciaio? - proruppe Gioconda.
Delfina volse il capo verso Piero, nello stesso
istante in cui Piero volgeva il capo verso Delfina; e s'interrogarono muti a
vicenda.
- Il pellicciaio? La commedia?... - domandò
Piero.
- Vedo che ve ne siete dimenticati, - seguitò
Gioconda. - Carlo Albèri: non avete inventato voi la storiella di Carlo Albèri
che doveva sposarmi, se non mi sposava Folco?
- Oh Dio, una piccola cosa! - esclamò Delfina.
- Ah, una piccola cosa! - ribattè ironica
Gioconda. - Una piccola cosa che Folco ha scoperto, e pur la quale desidera non
vedervi.... Voi la chiamate una piccola cosa, ed egli la chiama raggiro
indegno, e ne è mortalmente offeso.
- Come diavolo ha potuto scoprire?... -
interruppe Piero.
- Nel modo più semplice; voi scioccamente non me
ne avevate avvertita, - spiegò la contessa, - e io, non sapendo nulla, ho
chiamato l'Albèri prima di partire per Parigi, perchè dovevo comperare una
stola. Folco è sopravvenuto, ha interrogato l'Albèri, e ha saputo così che è
ammogliato da cinque anni.... La conclusione si è che per lungo tempo Folco non
desidera vedervi in casa sua. Mi dispiace dirvi questo, ma io devo obbedire....
- È giusto, è giusto, - rispose Piero alzandosi.
- Ti sei divertita almeno a Parigi? - interrogò
Delfina.
Il volto di Gioconda fu irradiato repentinamente
da una gran luce.
- Ah! - disse.
E l'esclamazione parve più eloquente d'ogni
descrizione ai due Dobelli.
- L'avevo sempre detto, io, che Parigi è una
grande città! - osservò Delfina a Piero. Ma tu sei tutto per la Triplice.
- Che c'entra? - ribattè Piero. - La Triplice in
politica, siamo d'accordo; ma per divertirsi non c'è che Parigi, non dico di
no.
Seguì una pausa.
- E?... - interrogò di nuovo Delfina con
un'occhiata significativa.
Gioconda capì, arrossì un poco, e rispose:
- Sì....
- Che nome gli darete? - domandò Piero.
- Nomi di casa Filippeschi: Manfredi o Lillia, -
dichiarò la contessa.
- E il padre del conte, la madre, la sorella? -
domandò Delfina.
- Tutti come morti. Folco ha scritto e
riscritto, ha mandato amici, e non ha ottenuto nulla.
- Duri, gli animali! - si lasciò scappare il
signor Dobelli.
- Però, a me non dispiace, vedi? - riflettè
Delfina. - Gente di carattere: si sente la razza.
- Già; resta a vedere di qual razza si tratta! -
rimbeccò Piero.
Erano giunti sulla soglia.
- Arrivederci, figliuola! - disse Piero,
baciando Gioconda in fronte. - Verrai tu a trovarci?
- Senza dubbio! promise la contessa,
abbracciando Delfina, poi Piero, e abbassandosi a fare una carezza a Dick.
Uscirono com'erano venuti: Delfina innanzi,
quindi Piero, Dick da ultimo; piano tutti e tre.
Gioconda non aveva detto il più e il meglio.
Non appena tornato da Parigi, e fatto il conto
di ciò che gli rimaneva, Folco Filippeschi s'era dovuto mettere alla ricerca
d'un impiego. Sperava di trovare un posto pel quale la sua coltura non fosse
inutile; ma i suoi sforzi erano riusciti vani, uno dopo l'altro. Presso un
avvocato bisognava fare il copista, con uno stipendio miserrimo; presso i
giornali v'era piuttosto pletora che scarsezza di redattori; i ricchi signori
non usavano più il segretario, e di certo non avrebbero dato la preferenza a un
giovane che per nascita e titoli era un loro pari.
Ariberto Puppi, tornato a sua volta da Parigi,
s'era interessato egli pure a quella ricerca, bussando alle porte degli amici,
delle semplici conoscenze, dei suoi stessi fornitori.
Un giorno si presentò a Folco con un mezzo
sorriso imbarazzato.
Il posto c'è! - disse. - Ma....
Gli sembrò che Folco fosse allegro.
S'interruppe.
- Forse hai già trovato? - domandò.
- No, - rispose Folco. - Sono allegro per un
altro motivo. Gioconda mi ha detto.... mi ha confessato....
- Ho capito, - fece Ariberto, sorridendo. - Sei
papà: augurii!
- Ecco: e tu comprendi che in questo caso
accetto qualunque posto senza discutere, purchè mi dia da vivere.
Ariberto voleva rammentargli i quattrini
sciupati a Parigi per capriccio della contessa, i quattrini che in quell'ora
sarebbero stati doppiamente preziosi; ma si frenò. Disse che il posto c'era:
commesso agli stipendi della Casa Adolfo Scotti e C. Occorreva un certo
coraggio ad accettarlo; bisognava star sulla breccia a viso aperto, servire il
pubblico anonimo, trangugiar forse qualche boccone amaro. Stipendio,
ducentocinquanta al mese.
Ariberto si guardò dall'aggiungere che la cifra
dello stipendio era dovuta a lui, vecchio e cospicuo cliente della Casa; e
disse invece che s'era voluto usare un riguardo alla persona di Folco.
- Tutto benissimo! - rispose Folco. - Non
m'importa affatto di stare sulla breccia. A Milano ho poche conoscenze. Le
persone di spirito, in ogni caso, mi daranno ragione: quanto agli imbecilli,
non dobbiamo curarcene.
Ariberto gli strinse la mano senza parlare;
Folco lo abbracciò. Poi corse a recar la notizia a Gioconda, che da molti
giorni seguiva con paura, con trepidanza, la sorda lotta di Folco, e temeva non
avesse energia sufficiente a superarla. Quando udì che Ariberto lo aiutava, il
cuore le si allargò; aveva di lui un concetto strano, fra l'odio e
l'ammirazione; il suo intervento assicurava, agli occhi di Gioconda, la
vittoria.
- Ebbene, - le disse Folco, - ora credi che
Ariberto mi sia amico?.... Non gli devo tutto in questo istante?
La contessa ebbe il suo sorriso enigmatico.
- Non discutiamo! - rispose.
- Perchè non vuoi piegarti all'evidenza? -
insistette Folco.
- Ma che fosse amico tuo non ho mai dubitato! -
esclamò Gioconda. - Dubito sempre che sia amico mio.... È un'impressione; potrò
ravvedermi col tempo.
Folco entrò così agli stipendi della Casa
Scotti. Non gli riuscì difficile impratichirsi di quel commercio; stette, come
diceva Ariberto, sulla breccia, francamente, valorosamente. Quasi, ci si
divertiva; non gli dispiaceva quel lavoro febbrile, che i primi giorni lo aveva
stremato di forze; non gli dispiaceva quella sfilata di gente che trattava le
futilità, le maglie di seta, gli oggettini leggiadri e inutili, con gravità
pensosa; non gli dispiaceva, sopra tutto, guadagnarsi la vita. Pensava al bimbo
che doveva nascere, e al piacere di potergli raccontare, un giorno, che papà
vendeva le calze e i fazzoletti mentr'egli veniva alla luce.
Che cosa non avrebbe fatto per quel bambino di
domani, per quel piccolo Manfredi o per quella piccola Lillia? Dov'erano le sue
stolte ambizioni letterarie, l'illusione superba di conquistar l'alloro coi
libri?... Folco ne sorrideva senza amarezza, come di sogni puerili. E mai non
gli era parso che la festa fosse così dolce; che il riposo fosse così
confortante, così lieto.
Andava a spasso con Gioconda la domenica, come
un piccolo borghese, e qualche volta a teatro, nei posti popolari: egli
abituato a tutte le squisitezze d'una esistenza ricca, godeva l'esistenza
modesta del commesso, placidamente; non aveva occhi se non per Gioconda e non
rammentava il lusso, i capricci, lo scialo d'un giorno, quasi non li avesse mai
conosciuti. In verità, se lo stipendio fosse stato un poco più largo e gli
avesse dato modo di curar meglio Gioconda, non lo avrebbe barattato con un
patrimonio, perchè sentiva tutto l'orgoglio nobile della fatica, tutta la
soddisfazione di lavorare per sua moglie e pel suo bambino.
Gioconda, in silenzio, dissimulando abilmente,
soffriva.
Dopo quella prima visita al ritorno da Parigi, i
suoi avevano appreso che Folco s'era dovuto acconciare a un posticino con
modesto stipendio; che Gioconda aveva venduto manicotto e stola e tutti quanti
i suoi oggetti preziosi, eccettuati l'anello nuziale e l'anello di rubino; che
anche Folco aveva venduto libri, stampe, quadri; che s'erano ridotti in due
camere mobigliate.
- Hai preso la via più lunga, - osservò la
signora Delfina, - ma finisci per vivere come e peggio tu avessi sposato il
pellicciaio....
- Distinguiamo! - interruppe il signor Piero,
comprendendo che Gioconda era ferita dalle parole inconsciamente crudeli di sua
madre. - Il conte Filippeschi è sempre il conte Filippeschi; e un giorno sarà
ricchissimo.
- E quando verrà questo giorno? - rimbeccò
Delfina. - Fra un mese, fra un anno, fra dieci anni? Magari fra venti, anche; e
la giovinezza di Gioconda sarà sfiorita tutta negli stenti.
La logica di sua madre appariva alla contessa
inesorabile ed esatta. Per certo, ella si guardava dal pensar con desiderio
alla morte del conte suocero; ma il periodo di prova durissima, tanto più dura
in quanto era succeduto immediatamente agli splendori della vita parigina,
poteva essere ben lungo.
Nacque intanto la bambina, Lillia. - La felicità
di Folco aveva dell'esagerazione, della follia, dell'ubbriacatura. Mandò subito
un telegramma ai suoi; fece avvertire Piero e Delfina che perdonava l'inganno
del pellicciaio, anzi non lo rammentava più, e potevan venire ad abbracciar la
figliuola. Cantava, saltava, si portava intorno la bambinetta bellissima, sordo
alle raccomandazioni della levatrice, la quale gli teneva dietro perchè non la
soffocasse.
Gioconda era contenta, ma d'un contento più pacato.
Sorrideva, commossa alla felicità traboccante di suo marito, e guardava con
amore la piccola Lillia che vagiva.
Aveva desiderato un maschio, un bel Manfredi,
bruno con gli occhi avana iniettati di pagliuzze d'oro.
Le nasceva una femmina rosea, con un ciuffetto
di capelli così biondi, che parevano bianchi.
Non se ne lagnò; le volle bene ugualmente, la
curò con attenzione, palpitò ai suoi dolori, visse delle sue gioie.
- Io la chiamerei François Villon, - disse Folco
in uno slancio di letizia. - Se non avessi tradotto François Villon, non ti
avrei sposata e non avrei oggi Lillia.
- Che diventerebbe mai, povera Lillia, -
riflettè Gioconda, - per imitare il tuo poeta?
Ma di repente le parole festose tacquero nella
casa.
Una sera comparve Ariberto Puppi.
Egli veniva di rado a visitar Gioconda e Folco.
S'era accorto che la contessa era gelida con lui, e quantunque non trovasse la
ragione di quel contegno, non intendeva chiederla, nè far capire che aveva
capito; poi Folco era l'intero giorno occupato, ritornava a casa la sera
stanchissimo; non si sapeva quale fosse l'ora meno inopportuna per una visita.
Da ultimo, Ariberto pensava che alla contessa, orgogliosissima, sapeva male
forse ch'egli, compagno di cene e di svaghi a Parigi, vedesse la sua povertà
presente; e per delicatezza stava lontano.
Folco gli corse incontro a ringraziarlo della
visita inaspettata; ma si arrestò vedendo l'espressione dolente, grave, ch'era
sul volto d'Ariberto.
- Folco, - disse questi dopo essersi inchinato
alla contessa, - io devo compiere un incarico molto penoso.
- Mio Dio! - esclamò con voce soffocata il
giovane. - Sta male la mamma?
- No; si tratta di tuo padre; devi partire
subito.
- È molto ammalato? - interrogò Folco
affannosamente.
- Molto. Parti subito.
Folco si gettò nell'altra camera a preparare una
valigia.
Ariberto fece qualche passo, avvicinandosi a
Gioconda.
- Andate anche voi! - consigliò sottovoce. - Suo
padre è morto; Folco avrà bisogno d'un cuore fedele. È il notaio che mi
telegrafa, perchè avverta Folco, la cui presenza è necessaria all'apertura del
testamento. Andate anche voi. Accompagnatelo!
Gioconda tremava, pallidissima.
- Vi ringrazio! - disse ella pure sottovoce.
Corse da Folco, lo serrò stretto; gli mormorò
all'orecchio:
- Ti accompagno!
Folco la guardò, comprese; e si abbandonò tra le
braccia di lei, piangendo disperatamente.
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