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Luciano Zuccoli
La volpe di Sparta

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  • IX.   Giornate fosche.
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IX.

 

Giornate fosche.

 

Gioconda tenne in quell'occasione un contegno perfetto.

Sarebbe stato imprudente dimostrare un acerbo dolore per la morte del conte suocero, il quale non aveva mai voluto conoscerla, le aveva impedito di varcar la soglia di casa, ed era morto senza perdonare a lei e a Folco.

Ma sarebbe stato peggio mostrarsi indifferente a una sciagura, che colpiva Folco nel più alto dei suoi sentimenti. La contessa non fu indifferente accasciata; tenne con dignità le gramaglie per diciotto mesi, e quantunque, tra mobili ed immobili, Folco avesse ereditati parecchi milioni, non si dipartì dalle abitudini di una vita modesta, badando solo che degli agi potesse godere Lillia.

Folco era stato percosso fieramente dalla morte improvvisa del padre.

A Perugia, nello studio del notaio, s'era trovato di fronte alla madre, alla sorella, al cognato; aveva sperato che la comunanza della sventura gli permettesse di esprimere loro la sua devozione.

Essi furono di marmo. Salutarono, entrando e uscendo dallo studio, con un cenno del capo; e perchè v'erano alcune disposizioni da prendere, ne diedero incarico al notaio, che s'intendesse con Folco (dissero, anzi, «col conte Filippeschi»), quasi avessero temuto di rivederlo.

Soltanto il cognato, Corradino Àutari, si ritrovò, come per caso, l'indomani dal notaio, e abbracciò Folco.

- Sai, - gli disse. - Testardi! È la razza.

- Io sperava, - rispose Folco timidamente, - di poter presentare mia moglie alla mamma e a Giselda...

Corradino levò le braccia al cielo.

- Non te lo sognare! - esclamò. - Giselda e tua madre ignorano che tua moglie esista: lo ignoreranno sempre.

E aggiunse, quasi come un ritornello:

- Che vuoi? È la razza. Come dice la divisa di casa Filippeschi?

- «Crolli il mondo».

- Bene; crollerà il mondo, ed esse rimarranno immobili.

Folco non osò insistere. Vedeva, ormai insuperabile ed eterna, la barriera che lo separava da sua madre e da sua sorella.

Tornato all'albergo, trovò Gioconda pallida, bella, nelle sue vesti nere, che tenendo tra le braccia la piccola Lillia, le susurrava parole carezzevoli. Sentì un vano impeto di ribellione.

A che tanto orrore della povera donna? Non era onesta e diritta come Giselda? Di quale colpa si poteva accusarla, se non d'avere accolto l'amore di lui e d'aver con lui sopportato bravamente le traversie della sua vita?

Egli leggeva ogni giorno negli occhi di Gioconda una domanda: «Mi vogliono?» E volgeva gli occhi altrove, non potendo rispondere.

Partì, quasi fuggì da Perugia non appena tutte le prescrizioni di legge furono compiute; lasciò l'ordine al notaio di vendere a mano a mano i poderi di sua proprietà; non sarebbe mai più tornato.

Quando furono in treno, nello scompartimento che aveva scelto perchè gli estranei non gli dessero di gomito in quell'ora inenarrabilmente malinconica, Folco s'avvide che Gioconda piangeva in silenzio.

Era ferita al cuore.

Mai non avrebbe creduto che pure innanzi alla morte, pure in un giorno di grande lutto, le donne di casa Filippeschi sarebbero rimaste impassibili di fronte a lei e alla sua bambina. S'aspettava di giorno in giorno d'esser chiamata a una riconciliazione; ma più ancora s'aspettava che Folco la imponesse, che facesse prevalere il suo buon diritto e la sua volontà.

Allorchè, venuta l'ora della partenza, Gioconda dovette salire in treno per non tornar forse mai più a Perugia e far così incolmabile l'abisso che la teneva lontana dalla suocera e dalla cognata, il dolore e l'ira le pervasero l'animo.

Guardò Folco da capo a piedi, quasi lo vedesse la prima volta. Chiuso nell'abito nero, pallido in volto, gli occhi stanchi dalle lagrime, biondo, sembrava un fanciullo smarrito. Era un debole, un vinto; la volontà di lui al paragone della volontà di due donne, le quali erangli pur legate dai più stretti vincoli di sangue, non valeva nulla, non aveva significato alcuno; chiunque poteva passarvi sopra e calpestarla.

Era un debole.

Gioconda che si sentiva capace di perseguire anni ed anni, ora per ora, un suo disegno con paziente scaltrezza, con tenacità ostinata, con elasticità felina, aveva pei deboli un senso di commiserazione non troppo dissimile dal disprezzo.

Fu desolata, scoprendo che la volontà di due donne era più forte della volontà di suo marito. In un altro istante, presa come le avveniva, dallo sdegno, si sarebbe lasciata sfuggir dalle labbra parole amare; ma intuì che non doveva colpire di nuovo Folco già provato dalla sventura.

Tacque, si rôse dentro, pianse in silenzio.

E non gli perdonò.

La morte subitanea del conte, la ricchezza sicura, avevano allontanato l'uno dall'altra.

Folco si diceva che in causa di Gioconda aveva perduto la sua famiglia; che Gioconda a Parigi gli aveva impedito di lavorare, costringendolo a sciupar tempo in una vita la quale era, per quel momento, pazzesca. Tornarono, con gli agi, le idee d'ambizione letteraria, e il tempo perduto sembrava a Folco irreparabile.

Gioconda non dimenticava d'essere stata trattata da tutti i congiunti di suo marito come una donna che non si deve conoscere, che non si può ammettere in una casa onesta, come l'ultima delle femmine; e Folco non aveva saputo spezzare il cerchio di oltraggiante disprezzo in cui avevan chiusa la sua compagna, colei che portava il suo nome e gli aveva data Lillia.

Non dissero nulla, ma diventarono ostili l'uno all'altra. Folco la contessa chiesero una spiegazione; pareva s'intendessero e sapessero già.

Durante il periodo di lutto, Folco potè riavere l'appartamento dei primi giorni di nozze.

Venivano in quella casa a passare la serata molti amici; alcuni di amicizia vecchia, come Ariberto Puppi; altri, i più, d'amicizia nuova, nata dalla ricchezza, farfalloni che accorrevano a tutte le luci.

Guardandosi intorno perchè si sentiva sola, Gioconda trovò Ariberto Puppi, il nemico di ieri.

D'un tratto ella si ricredeva sul conto di lui.

Le eran bastate le parole dettele sottovoce, la sera in cui egli aveva annunziato la morte del conte:

- Andate anche voi! Accompagnatelo!...

V'era un senso amichevole, un consiglio affettuoso, un tono d'esperienza. La contessa n'era rimasta colpita come da una rivelazione; aveva guardato Ariberto Puppi allora e poi, di ritorno da Perugia, con occhi di curiosità indagatrice. Fosse veramente un amico?... Fosse, non ostante le bizzarrie e le monomanie, un uomo forte?

Gli sorrise, gli diede la mano, tornando; gli disse con calore:

- Sapete? Rammento sempre le parole di quella sera: «Andate anche voi! Accompagnatelo». Qualche volta me le ripeto.

- Ecco, vi dirò, contessa, - rispose Ariberto con un sorriso. Voi credevate che io fossi, non so perchè, vostro nemico....

Gioconda si sentì arrossire.

- .... e perciò, - soggiunse Ariberto fingendo di non veder quel turbamento ch'era una confessione, avete dato un'importanza eccezionale alle parole che chiunque vi avrebbe detto in quel giorno di sventura. Vi siete stupita perchè non vi davo un cattivo consiglio.... Ciò è un poco offensivo per me; è un poco crudele da parte vostra....

- Vi domando perdono, - si lasciò scappare Gioconda, alzando gli occhi in volto ad Ariberto.

- Oh, - esclamò questi, inchinandosi a baciarle la mano, - non chiedetemi perdono di nulla. La colpa è interamente mia. Io sono, come dire? secco, angoloso, beffardo.... Voi siete pressochè ancora una fanciulla inesperta e le mie maniere vi sono spiaciute. Il torto era mio; voi avevate ragione....

- Allora, facciamo la pace? - disse Gioconda sorridendo.

- Non ne ho bisogno; non devo che continuare a essere vostro amico, come sono stato sempre.

Gioconda respirò.

Folco era freddo con lei; ma anche non fosse stato, ella sapeva bene che in un'occasione grave, in un'ora di battaglia, egli non avrebbe avuto l'energia, l'esperta sicurezza per consigliarla. Gli altri intorno erano bellimbusti, ganzerini che le facevano la corte e tentavano sviarla; uomini dei quali non si sarebbe fidata, ai quali non avrebbe mai detto parola che non fosse stata scherzosa o ironica.

Da qual parte volgersi?

Con l'impeto del suo carattere si volse tutta ad Ariberto.

Egli se ne accorse e ne fu impacciato. Come dirle: «Badate: se voi pensate che io sono un vecchio, non lo pensano gli altri, non lo penso io stesso, e la mia assiduità può nuocere a voi e a Folco. Ho trentasette anni e molta voglia e molta forza di vivere. Siate prudente, per voi, per me, per tutti»?

Si mise a farle la corte; una corte divertita, un po' leggera, un po' frivola, fatta di lievi sarcasmi, ma instancabile, quasi per avvertirla che anche con lui correva qualche pericolo, che poteva bruciarsi le ali proprio dove supponeva non ci fosse più fuoco.

Gioconda rideva.

- No, no, vi prego, non dite sciocchezze! Sì, sarò bella, sarò elegante, ma questo non vi riguarda....

- Come, non mi riguarda?

- Non vi riguarda. Ascoltatemi: accompagnatemi fuori; non voglio uscire sola, e Folco si secca ad andar pei negozi. Devo far delle compere. Su, venite fuori con me....

Ariberto obbediva, mandando al diavolo Folco.

O che tipo d'imbecille era diventato costui, il quale pareva non occuparsi più di Gioconda e darsi tutto soltanto alla piccola Lillia? Stava con Lillia l'intero giorno, giuocava, con Lillia, conduceva a spasso Lillia, e non vedeva che sua moglie era o accasciata da una noia indicibile o circondata da un nugolo di corteggiatori, alcuni dei quali pericolosi?

Che aveva? Che pensava?

Interrogò discretamente Gioconda, e non ne capì nulla.

Allora, con quella sincerità rude che s'irritava allorchè doveva battere contro una porta chiusa, andò a bussar direttamente alla porta di Folco. Da vecchio amico aveva ben diritto a sapere.

Gli domandò:

- Come mai non accompagni quasi più la contessa?

- Non posso starle sempre alle gonne, - rispose Folco, - sarebbe anche ridicolo: non è una bambina; e i mariti gelosi hanno torto....

- È vero: ma dallo starle alle gonne al non uscir quasi più con lei c'è qualche divario.... Finirà per annoiarsi tremendamente. Le hai portato via anche Lillia....

- Io?... - esclamò Folco. - Ma Lillia è sua quanto mia.

- Senza dubbio; soltanto è sempre con te, o tu sei sempre con lei: si può dire che tu fai le veci della mamma....

- È Gioconda che ti ha incaricato di rivolgermi queste osservazioni?

Ariberto ebbe un gesto di energico diniego.

- No, no; osservo io; non ci vuol molto. Ho visto, per così dire, nascere il vostro matrimonio e perciò noto con facilità i mutamenti.... Sono forse indiscreto?...

- Anzi; la tua amicizia non esisterebbe, se non fosse franca.

- E allora mi sembra che tu sia ingiusto con la contessa; parrebbe quasi che le tenessi il broncio per non so qual cosa....

Folco stette in silenzio un istante: poi disse a mezza voce, quasi confessasse:

- Che vuoi? Ho torto. Ma dalla scomparsa di mio padre, sono andato pensando e ripensando, e ho sentito che Gioconda è stata causa, involontaria ammettiamolo, di molti mali per me. Grazie al mio matrimonio, ho perduto la famiglia. Il papà è morto senza perdonare; mia madre e mia sorella sono inesorabili....

- Ma tu fai colpa alla contessa delle colpe altrui! - esclamò Ariberto.

- Ti ho già detto che ho torto, - rispose Folco. - Si ha sempre torto quando si ragiona col sentimento e non con la testa; tuttavia, se ne accettano lo stesso le conclusioni. Ho perduto dunque la famiglia; non più padre, non più madre, non più cognato. Ho perduto anche la mia città e la mia terra perchè, non volendo rimetter piede laggiù, tutti i miei beni saranno venduti man mano che l'occasione si presenta.... È molto, come tu vedi....

- È molto, - convenne Ariberto. - Ma la tua famiglia oggi è la contessa, è Lillia.

- Ho torto, - ripetè Folco, - Ma non ho torto sempre. Stammi ad ascoltare. Gioconda che è venuta meco a Perugia, sa bene, quanto me, quali sono state le conseguenze del matrimonio; per darle il mio nome, ho distrutto ogni cosa, ho abbandonato famiglia e amici, e città nativa: quando ne è stato il caso, ho lavorato umilmente....

- Magnificamente, corresse Ariberto.

- Magnificamente se tu vuoi, per sostenere lei e la bambina. Ebbene, che cosa ella m'ha dato in cambio di tutto questo?...

- Come? - esclamò Ariberto stupefatto. - Ma ti ha dato tutta stessa, tutta la sua vita, tutto il suo amore....

- E tutti i suoi capricci! - aggiunse Folco. - Perchè non mi ha assecondato in ciò che mi è più caro, nel mio lavoro e nelle mie ambizioni.... Oh è ben diversa da quei giorni in cui lavorava con me, nel suo salottino povero ch'ella odia, e che io rammento sempre con tenerezza! A Parigi, vedi, in seguito ai tuoi buoni consigli, io ho tentato di riprendere il mio lavoro; ella se ne accorse, e mi fece una tale scena, così inaspettata, così contraria al suo carattere docile, che io ho guardato d'allora in poi quei manoscritti e quei libri con orrore; li ho richiusi nel baule, non ne ho parlato più, e non so nemmeno dove siano andati a finire.... Voleva divertirsi, capisci, divertirsi a qualunque costo, giorno e notte, e non si fermò che quando io le dissi che bisognava ci fermassimo per forza perchè mi rimaneva il denaro appena sufficiente a reggere ancora qualche mese e a cercarmi intanto un impiego.

- Era molto giovane, - scusò Ariberto. - Non sapeva che fosse la vita il danaro.

- E sta bene: ma poi?... Oggi non siamo più nelle stesse condizioni. Abbiamo la ricchezza.

- Mi sembra che non ne abusi, - osservò Ariberto. - Anzi, che non ne usi neppure, perchè non fa alcun lusso e non ha chiesto nemmeno d'avere una carrozza.

- È vero.... Ma se io le parlo dei miei studi passati, del desiderio di riprenderli, di quelle ambizioni che in un giovane sono naturali, Gioconda risponde distratta; una volta era l'entusiasmo, oggi è l'indifferenza....

Ariberto scattò.

- O che uomo sei tu? - disse. - Hai bisogno che una donna, che la moglie, ti parli di letteratura e di Francesco Villon, per metterti a lavorare? Hai bisogno che le tue ambizioni diventino le ambizioni della contessa per sentirle ancora dentro di te?... Ma tu chiedi troppo: ma una donna vive benissimo senza letteratura e senza ambizioni!... Sarebbe straordinario, sto per dire ridicolo, che tua moglie si facesse l'apostolo e il compagno del tuo lavoro, e che scrivesse a macchina sotto dettatura.

- Non esageriamo, - interruppe Folco. - Non chiedo tanto. A me basta ch'ella non sia gelida e quasi repulsiva quando le parlo dei miei progetti.... Comprendo che Gioconda non deve essere l'apostolo del mio lavoro; ma non deve esserne neppure il nemico....

- E che t'importa? - disse Ariberto. - Bada: nelle tue parole c'è una grossa esagerazione: io non credo affatto che la contessa sia nemica del tuo lavoro. Ma voglio ammetterlo per un istante.... E che t'importa? Lavori per lei o per te? Hai una tua convinzione, un tuo concetto, una tua strada da percorrere, o non li hai? Non sei libero della tua persona, del tuo tempo, delle tue idee?.... In tutto questo la contessa non può nulla.

- È vero, - confessò Folco. - Ma in tutto questo manca il più bello: il sorriso d'una donna!...

Ariberto si alzò; gli pareva che la frase sentimentale fosse molto buffa, ma non volle rilevarlo. D'altra parte aveva parlato abbastanza; le accuse che Folco faceva a Gioconda erano tanto poco fondate, che sarebbero cadute da sole, e il giovane avrebbe riconosciuto alla prima occasione il suo torto.

- Io me ne vado, - disse Ariberto.

E rammentando alfine una delle sue mille infermità fantastiche, soggiunse:

- Ho un certo dolore, qui, al braccio sinistro....

Folco alzò le spalle, ridendo.

- Ti auguro - disse - di non averne mai altri!

Ariberto se ne andò: ma l'indomani vide la contessa, verso l'ora del . Folco era uscito; i soliti amici non erano ancora giunti. Ariberto disse:

- Ho parlato ieri a lungo con Folco.

- Di Francesco Villon, ahimè! - sospirò Gioconda.

- È dunque vero? - esclamò Ariberto sorpreso.

- Che cosa?

- È vero che non volete più udir parlare di Francesco Villon e di letteratura? Permettetemi di essere indiscreto. Io avevo osservato da tempo che in casa vostra c'è un po' di malumore: non siete felici e spensierati, ora che la felicità e la ricchezza vi arridono. La cosa mi è parsa bizzarra; e mi sono fatto lecito di parlarne a Folco.

- Avete fatto benissimo, - approvò la contessa. - Ed egli vi ha risposto che io non traduco più Villon con lui e che mi annoio a udirlo parlare della poesia francese del XV secolo.... Vi ha detto questo?...

- A un dipresso, - rispose Ariberto.

- Ma, caro amico, son due anni che ne sento parlare e son due anni che porto pazienza. Vedete di quali colpe mi accusa? Miserie, non vi pare?

- E perchè non lo lasciate parlare? Tutti noi abbiamo il nostro tic.

- Oh, sì, - esclamò Gioconda ridendo. - Voi avete il tic di parer moribondo.

- E tuttavia mi sopportate benissimo, - osservò Ariberto.

- Non vi sopporterei affatto se foste mio marito.... Del resto, io non mi curo di fingere, non ascolto pazientemente, non gli presto aiuto, non lo incoraggio nelle sue ambizioni. Lo confesso apertamente: e confesso che lo faccio apposta....

- Ma perchè? Perchè questa cattiveria? - interrogò Ariberto. - Così andrete di male in peggio, Folco è un bel giovane, ricco, elegante....

- Che cosa volete dire? Che un giorno potrebbe consolarsi con un'altra?

La contessa rise.

- State tranquillo! - soggiunse. - In ogni modo, farà quel che crederà....

- Quali capricci! - esclamò Ariberto.

Ma Gioconda gli posò una mano sul braccio.

- No, - disse recisamente. - Non sono capricci. Egli mi ha offesa e la mia indulgenza è finita con lui.... Non fate quel viso di stupore! Mi ha offesa col permettere che sua madre e sua sorella mi tenessero lontana come una cosa immonda, e non mi stendessero le braccia neppure il giorno in cui io accompagnava lui ad un pellegrinaggio di dolore.... Capite questo, caro amico?

Ariberto non rispose.

- Intendiamoci bene, - seguitò Gioconda. - Non gli ho mai domandato di mettersi contro la volontà di suo padre. Un giorno egli chiese la mia mano, e non fece parola delle difficoltà che il matrimonio mi avrebbe accumulato intorno. Quando suo padre dichiarò che io non esisteva, che sarebbe morto senza vedermi, non dissi nulla. Certo, non ne avevo piacere. Ma comprendevo bene che la volontà di suo padre era incrollabile, e che, spingendo Folco contro di lui, lo avrei spinto contro una roccia. Suo padre venne a morire: la sorella e la madre accolsero Folco assai peggio che se fosse stato uno sconosciuto: egli non si ribellò. Gli fecero dire per mezzo del notaio che non pensasse di condurre in casa loro «quella donna». Quella donna sono io....

Gli occhi di Gioconda ebbero un lampo.

- Folco non si ribellò.... Ah, badate, caro Ariberto!... Si può essere deferenti e rispettosi verso la madre e la sorella, ma a patto che esse non insultino. Folco non trovò la forza di dire: «Quella donna è la contessa Gioconda Filippeschi, è mia moglie, è la madre della mia bambina; quella donna era una fanciulla onestissima quando io l'ho sposata e la sua onestà non era facile, perchè non le mancavano intorno tranelli e tentazioni. Quella donna ha tenuto sempre una condotta esemplare; se voi non volete conoscerla, tanto peggio per voi! Ella non ha mai mendicato la vostra stima, la vostra protezione, perchè si contenta della tranquillità della sua coscienza». Folco non ha avuto il coraggio di dir questo....

- Giuggiole! Non era poco.... - esclamò Ariberto.

- Era la verità o no?

- Perfettamente, cara contessa. Ma non tutte le verità si possono dire.

- Come, non potete dire che vostra moglie è onesta? - interrogò Gioconda.

- Senza dubbio: ma la madre e la sorella di Folco lo sanno quanto voi: non fanno questione di onestà e di rispettabilità; anzi, non fanno questione di nulla. Obbediscono ciecamente, senza discutere, ai concetti del conte. Folco ha veduto giusto. Qualunque parola sarebbe stata vana.

- Benissimo, dategli ragione, - esclamò Gioconda. - Fatto è che io rimasi sola all'albergo, giunsi a Perugia quasi di nascosto, ne ripartii quasi di nascosto; la contessa Filippeschi a Perugia era.... Come dire?... una merce di contrabbando, a guisa d'una femmina perduta. Folco mi caricò in treno, silenziosamente, mi ricondusse a Milano; e perchè mi vide piangere, me ne chiese anche il motivo, quasi avessi dovuto ridere!...

Gioconda fece una pausa, guardò in volto Ariberto, poi proseguì:

- Ebbene: Folco mi ha offesa. Io non gli ho perdonato. Non so se gli perdonerò mai.

- Andiamo, via! - fece Ariberto. - Dovete riconoscere che la partita era difficile da giuocare; non poteva già condurvi in casa Filippeschi contro la volontà di sua madre....

- Doveva far comprendere che la sua volontà sola esisteva ormai!...

- Occorreva una forza eccezionale, - disse Ariberto. - E Folco non l'ha.

- Ah, esclamò Gioconda con un sorriso ironico. - Voi credete dunque che essere debole sia un'attenuante agli occhi di una donna? Io non so se di donne vi intendiate: mi hanno detto che sì. E allora dovete saper meglio di me che le donne vogliono, hanno bisogno d'un padrone; una donna che ha per marito un uomo di carattere debole è sola nel mondo, è indifesa: e dacchè sono stata a Perugia e ho visto Folco lasciar vincere e stravincere contro di me sua madre e sua sorella, io ho avuto la sensazione di essere sola....

- Non potete dimenticare, - osservò Ariberto, che Folco vi ha dato un gran nome....

- Ah no! - interruppe Gioconda. - Un gran nome? Ma se i Filippeschi mi ignorano? Ma se devo confessare che non ho mai messo piede a palazzo Filippeschi, e non so nemmeno se mia cognata Giselda è bionda o bruna, se mia suocera è alta o piccola?... Quale diverso trattamento mi avrebbero fatto i Filippeschi, se Folco mi avesse tolto dal fango della strada? Dite voi....

Ariberto non disse nulla. Cercò degli occhi il suo bastoncino d'ebano, vi si appoggiò lievemente e si rivolse a Gioconda:

- Ora, contessa, credo che Folco sia meno crudele di voi, certo meno severo. Egli riconoscerà il suo torto....

- Purchè non sia troppo tardi! - mormorò Gioconda.

- Oh, oh! Non dite parole che si potrebbero giudicar male. Arrivederci, contessa.... Ho un piccolo dolore qui, alla spalla sinistra....

La contessa lo guardò sorridendo.

- E poi? - domandò.

- E poi un poco d'emicrania.... E poi i vostri corteggiatori che sopraggiungono per il .... Contessa, questi mi fanno più male che tutti i reumi del mondo!...

Baciò la mano a Gioconda, e si allontanò cautamente, con passo incerto.

 

 

 




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