IX.
Giornate fosche.
Gioconda tenne in quell'occasione un contegno
perfetto.
Sarebbe stato imprudente dimostrare un acerbo
dolore per la morte del conte suocero, il quale non aveva mai voluto
conoscerla, le aveva impedito di varcar la soglia di casa, ed era morto senza
perdonare a lei e a Folco.
Ma sarebbe stato peggio mostrarsi indifferente a
una sciagura, che colpiva Folco nel più alto dei suoi sentimenti. La contessa
non fu nè indifferente nè accasciata; tenne con dignità le gramaglie per
diciotto mesi, e quantunque, tra mobili ed immobili, Folco avesse ereditati
parecchi milioni, non si dipartì dalle abitudini di una vita modesta, badando solo
che degli agi potesse godere Lillia.
Folco era stato percosso fieramente dalla morte
improvvisa del padre.
A Perugia, nello studio del notaio, s'era
trovato di fronte alla madre, alla sorella, al cognato; aveva sperato che la
comunanza della sventura gli permettesse di esprimere loro la sua devozione.
Essi furono di marmo. Salutarono, entrando e
uscendo dallo studio, con un cenno del capo; e perchè v'erano alcune
disposizioni da prendere, ne diedero incarico al notaio, che s'intendesse con
Folco (dissero, anzi, «col conte Filippeschi»), quasi avessero temuto di
rivederlo.
Soltanto il cognato, Corradino Àutari, si
ritrovò, come per caso, l'indomani dal notaio, e abbracciò Folco.
- Sai, - gli disse. - Testardi! È la razza.
- Io sperava, - rispose Folco timidamente, - di
poter presentare mia moglie alla mamma e a Giselda...
Corradino levò le braccia al cielo.
- Non te lo sognare! - esclamò. - Giselda e tua
madre ignorano che tua moglie esista: lo ignoreranno sempre.
E aggiunse, quasi come un ritornello:
- Che vuoi? È la razza. Come dice la divisa di
casa Filippeschi?
- «Crolli il mondo».
- Bene; crollerà il mondo, ed esse rimarranno
immobili.
Folco non osò insistere. Vedeva, ormai
insuperabile ed eterna, la barriera che lo separava da sua madre e da sua
sorella.
Tornato all'albergo, trovò Gioconda pallida,
bella, nelle sue vesti nere, che tenendo tra le braccia la piccola Lillia, le
susurrava parole carezzevoli. Sentì un vano impeto di ribellione.
A che tanto orrore della povera donna? Non era
onesta e diritta come Giselda? Di quale colpa si poteva accusarla, se non
d'avere accolto l'amore di lui e d'aver con lui sopportato bravamente le
traversie della sua vita?
Egli leggeva ogni giorno negli occhi di Gioconda
una domanda: «Mi vogliono?» E volgeva gli occhi altrove, non potendo
rispondere.
Partì, quasi fuggì da Perugia non appena tutte
le prescrizioni di legge furono compiute; lasciò l'ordine al notaio di vendere
a mano a mano i poderi di sua proprietà; non sarebbe mai più tornato.
Quando furono in treno, nello scompartimento che
aveva scelto perchè gli estranei non gli dessero di gomito in quell'ora
inenarrabilmente malinconica, Folco s'avvide che Gioconda piangeva in silenzio.
Era ferita al cuore.
Mai non avrebbe creduto che pure innanzi alla
morte, pure in un giorno di grande lutto, le donne di casa Filippeschi
sarebbero rimaste impassibili di fronte a lei e alla sua bambina. S'aspettava
di giorno in giorno d'esser chiamata a una riconciliazione; ma più ancora
s'aspettava che Folco la imponesse, che facesse prevalere il suo buon diritto e
la sua volontà.
Allorchè, venuta l'ora della partenza, Gioconda
dovette salire in treno per non tornar forse mai più a Perugia e far così
incolmabile l'abisso che la teneva lontana dalla suocera e dalla cognata, il
dolore e l'ira le pervasero l'animo.
Guardò Folco da capo a piedi, quasi lo vedesse
la prima volta. Chiuso nell'abito nero, pallido in volto, gli occhi stanchi
dalle lagrime, biondo, sembrava un fanciullo smarrito. Era un debole, un vinto;
la volontà di lui al paragone della volontà di due donne, le quali erangli pur
legate dai più stretti vincoli di sangue, non valeva nulla, non aveva
significato alcuno; chiunque poteva passarvi sopra e calpestarla.
Era un debole.
Gioconda che si sentiva capace di perseguire anni
ed anni, ora per ora, un suo disegno con paziente scaltrezza, con tenacità
ostinata, con elasticità felina, aveva pei deboli un senso di commiserazione
non troppo dissimile dal disprezzo.
Fu desolata, scoprendo che la volontà di due
donne era più forte della volontà di suo marito. In un altro istante, presa
come le avveniva, dallo sdegno, si sarebbe lasciata sfuggir dalle labbra parole
amare; ma intuì che non doveva colpire di nuovo Folco già provato dalla
sventura.
Tacque, si rôse dentro, pianse in silenzio.
E non gli perdonò.
La morte subitanea del conte, la ricchezza
sicura, avevano allontanato l'uno dall'altra.
Folco si diceva che in causa di Gioconda aveva
perduto la sua famiglia; che Gioconda a Parigi gli aveva impedito di lavorare,
costringendolo a sciupar tempo in una vita la quale era, per quel momento,
pazzesca. Tornarono, con gli agi, le idee d'ambizione letteraria, e il tempo
perduto sembrava a Folco irreparabile.
Gioconda non dimenticava d'essere stata trattata
da tutti i congiunti di suo marito come una donna che non si deve conoscere,
che non si può ammettere in una casa onesta, come l'ultima delle femmine; e
Folco non aveva saputo spezzare il cerchio di oltraggiante disprezzo in cui
avevan chiusa la sua compagna, colei che portava il suo nome e gli aveva data
Lillia.
Non dissero nulla, ma diventarono ostili l'uno
all'altra. Nè Folco nè la contessa chiesero una spiegazione; pareva
s'intendessero e sapessero già.
Durante il periodo di lutto, Folco potè riavere
l'appartamento dei primi giorni di nozze.
Venivano in quella casa a passare la serata
molti amici; alcuni di amicizia vecchia, come Ariberto Puppi; altri, i più,
d'amicizia nuova, nata dalla ricchezza, farfalloni che accorrevano a tutte le
luci.
Guardandosi intorno perchè si sentiva sola,
Gioconda trovò Ariberto Puppi, il nemico di ieri.
D'un tratto ella si ricredeva sul conto di lui.
Le eran bastate le parole dettele sottovoce, la
sera in cui egli aveva annunziato la morte del conte:
- Andate anche voi! Accompagnatelo!...
V'era un senso amichevole, un consiglio
affettuoso, un tono d'esperienza. La contessa n'era rimasta colpita come da una
rivelazione; aveva guardato Ariberto Puppi allora e poi, di ritorno da Perugia,
con occhi di curiosità indagatrice. Fosse veramente un amico?... Fosse, non
ostante le bizzarrie e le monomanie, un uomo forte?
Gli sorrise, gli diede la mano, tornando; gli
disse con calore:
- Sapete? Rammento sempre le parole di quella
sera: «Andate anche voi! Accompagnatelo». Qualche volta me le ripeto.
- Ecco, vi dirò, contessa, - rispose Ariberto
con un sorriso. Voi credevate che io fossi, non so perchè, vostro nemico....
Gioconda si sentì arrossire.
- .... e perciò, - soggiunse Ariberto fingendo
di non veder quel turbamento ch'era una confessione, avete dato un'importanza
eccezionale alle parole che chiunque vi avrebbe detto in quel giorno di
sventura. Vi siete stupita perchè non vi davo un cattivo consiglio.... Ciò è un
poco offensivo per me; è un poco crudele da parte vostra....
- Vi domando perdono, - si lasciò scappare
Gioconda, alzando gli occhi in volto ad Ariberto.
- Oh, - esclamò questi, inchinandosi a baciarle
la mano, - non chiedetemi perdono di nulla. La colpa è interamente mia. Io
sono, come dire? secco, angoloso, beffardo.... Voi siete pressochè ancora una
fanciulla inesperta e le mie maniere vi sono spiaciute. Il torto era mio; voi
avevate ragione....
- Allora, facciamo la pace? - disse Gioconda
sorridendo.
- Non ne ho bisogno; non devo che continuare a
essere vostro amico, come sono stato sempre.
Gioconda respirò.
Folco era freddo con lei; ma anche non fosse
stato, ella sapeva bene che in un'occasione grave, in un'ora di battaglia, egli
non avrebbe avuto nè l'energia, nè l'esperta sicurezza per consigliarla. Gli
altri intorno erano bellimbusti, ganzerini che le facevano la corte e tentavano
sviarla; uomini dei quali non si sarebbe fidata, ai quali non avrebbe mai detto
parola che non fosse stata scherzosa o ironica.
Da qual parte volgersi?
Con l'impeto del suo carattere si volse tutta ad
Ariberto.
Egli se ne accorse e ne fu impacciato. Come
dirle: «Badate: se voi pensate che io sono un vecchio, non lo pensano gli
altri, non lo penso io stesso, e la mia assiduità può nuocere a voi e a Folco.
Ho trentasette anni e molta voglia e molta forza di vivere. Siate prudente, per
voi, per me, per tutti»?
Si mise a farle la corte; una corte divertita,
un po' leggera, un po' frivola, fatta di lievi sarcasmi, ma instancabile, quasi
per avvertirla che anche con lui correva qualche pericolo, che poteva bruciarsi
le ali proprio là dove supponeva non ci fosse più fuoco.
Gioconda rideva.
- No, no, vi prego, non dite sciocchezze! Sì,
sarò bella, sarò elegante, ma questo non vi riguarda....
- Come, non mi riguarda?
- Non vi riguarda. Ascoltatemi: accompagnatemi
fuori; non voglio uscire sola, e Folco si secca ad andar pei negozi. Devo far
delle compere. Su, venite fuori con me....
Ariberto obbediva, mandando al diavolo Folco.
O che tipo d'imbecille era diventato costui, il
quale pareva non occuparsi più di Gioconda e darsi tutto soltanto alla piccola
Lillia? Stava con Lillia l'intero giorno, giuocava, con Lillia, conduceva a
spasso Lillia, e non vedeva che sua moglie era o accasciata da una noia
indicibile o circondata da un nugolo di corteggiatori, alcuni dei quali pericolosi?
Che aveva? Che pensava?
Interrogò discretamente Gioconda, e non ne capì
nulla.
Allora, con quella sincerità rude che s'irritava
allorchè doveva battere contro una porta chiusa, andò a bussar direttamente
alla porta di Folco. Da vecchio amico aveva ben diritto a sapere.
Gli domandò:
- Come mai non accompagni quasi più la contessa?
- Non posso starle sempre alle gonne, - rispose
Folco, - sarebbe anche ridicolo: non è una bambina; e i mariti gelosi hanno
torto....
- È vero: ma dallo starle alle gonne al non
uscir quasi più con lei c'è qualche divario.... Finirà per annoiarsi
tremendamente. Le hai portato via anche Lillia....
- Io?... - esclamò Folco. - Ma Lillia è sua
quanto mia.
- Senza dubbio; soltanto è sempre con te, o tu
sei sempre con lei: si può dire che tu fai le veci della mamma....
- È Gioconda che ti ha incaricato di rivolgermi
queste osservazioni?
Ariberto ebbe un gesto di energico diniego.
- No, no; osservo io; non ci vuol molto. Ho visto,
per così dire, nascere il vostro matrimonio e perciò noto con facilità i
mutamenti.... Sono forse indiscreto?...
- Anzi; la tua amicizia non esisterebbe, se non
fosse franca.
- E allora mi sembra che tu sia ingiusto con la
contessa; parrebbe quasi che le tenessi il broncio per non so qual cosa....
Folco stette in silenzio un istante: poi disse a
mezza voce, quasi confessasse:
- Che vuoi? Ho torto. Ma dalla scomparsa di mio
padre, sono andato pensando e ripensando, e ho sentito che Gioconda è stata
causa, involontaria ammettiamolo, di molti mali per me. Grazie al mio
matrimonio, ho perduto la famiglia. Il papà è morto senza perdonare; mia madre
e mia sorella sono inesorabili....
- Ma tu fai colpa alla contessa delle colpe
altrui! - esclamò Ariberto.
- Ti ho già detto che ho torto, - rispose Folco.
- Si ha sempre torto quando si ragiona col sentimento e non con la testa;
tuttavia, se ne accettano lo stesso le conclusioni. Ho perduto dunque la
famiglia; non più padre, non più madre, non più cognato. Ho perduto anche la
mia città e la mia terra perchè, non volendo rimetter piede laggiù, tutti i
miei beni saranno venduti man mano che l'occasione si presenta.... È molto,
come tu vedi....
- È molto, - convenne Ariberto. - Ma la tua
famiglia oggi è la contessa, è Lillia.
- Ho torto, - ripetè Folco, - Ma non ho torto
sempre. Stammi ad ascoltare. Gioconda che è venuta meco a Perugia, sa bene,
quanto me, quali sono state le conseguenze del matrimonio; per darle il mio
nome, ho distrutto ogni cosa, ho abbandonato famiglia e amici, e città nativa:
quando ne è stato il caso, ho lavorato umilmente....
- Magnificamente, corresse Ariberto.
- Magnificamente se tu vuoi, per sostenere lei e
la bambina. Ebbene, che cosa ella m'ha dato in cambio di tutto questo?...
- Come? - esclamò Ariberto stupefatto. - Ma ti
ha dato tutta sè stessa, tutta la sua vita, tutto il suo amore....
- E tutti i suoi capricci! - aggiunse Folco. -
Perchè non mi ha assecondato in ciò che mi è più caro, nel mio lavoro e nelle
mie ambizioni.... Oh è ben diversa da quei giorni in cui lavorava con me, nel
suo salottino povero ch'ella odia, e che io rammento sempre con tenerezza! A
Parigi, vedi, in seguito ai tuoi buoni consigli, io ho tentato di riprendere il
mio lavoro; ella se ne accorse, e mi fece una tale scena, così inaspettata,
così contraria al suo carattere docile, che io ho guardato d'allora in poi quei
manoscritti e quei libri con orrore; li ho richiusi nel baule, non ne ho
parlato più, e non so nemmeno dove siano andati a finire.... Voleva divertirsi,
capisci, divertirsi a qualunque costo, giorno e notte, e non si fermò che
quando io le dissi che bisognava ci fermassimo per forza perchè mi rimaneva il
denaro appena sufficiente a reggere ancora qualche mese e a cercarmi intanto un
impiego.
- Era molto giovane, - scusò Ariberto. - Non
sapeva che fosse nè la vita nè il danaro.
- E sta bene: ma poi?... Oggi non siamo più
nelle stesse condizioni. Abbiamo la ricchezza.
- Mi sembra che non ne abusi, - osservò
Ariberto. - Anzi, che non ne usi neppure, perchè non fa alcun lusso e non ha
chiesto nemmeno d'avere una carrozza.
- È vero.... Ma se io le parlo dei miei studi
passati, del desiderio di riprenderli, di quelle ambizioni che in un giovane
sono naturali, Gioconda risponde distratta; una volta era l'entusiasmo, oggi è
l'indifferenza....
Ariberto scattò.
- O che uomo sei tu? - disse. - Hai bisogno che
una donna, che la moglie, ti parli di letteratura e di Francesco Villon, per
metterti a lavorare? Hai bisogno che le tue ambizioni diventino le ambizioni
della contessa per sentirle ancora dentro di te?... Ma tu chiedi troppo: ma una
donna vive benissimo senza letteratura e senza ambizioni!... Sarebbe
straordinario, sto per dire ridicolo, che tua moglie si facesse l'apostolo e il
compagno del tuo lavoro, e che scrivesse a macchina sotto dettatura.
- Non esageriamo, - interruppe Folco. - Non
chiedo tanto. A me basta ch'ella non sia gelida e quasi repulsiva quando le
parlo dei miei progetti.... Comprendo che Gioconda non deve essere l'apostolo
del mio lavoro; ma non deve esserne neppure il nemico....
- E che t'importa? - disse Ariberto. - Bada:
nelle tue parole c'è una grossa esagerazione: io non credo affatto che la
contessa sia nemica del tuo lavoro. Ma voglio ammetterlo per un istante.... E
che t'importa? Lavori per lei o per te? Hai una tua convinzione, un tuo
concetto, una tua strada da percorrere, o non li hai? Non sei libero della tua
persona, del tuo tempo, delle tue idee?.... In tutto questo la contessa non può
nulla.
- È vero, - confessò Folco. - Ma in tutto questo
manca il più bello: il sorriso d'una donna!...
Ariberto si alzò; gli pareva che la frase
sentimentale fosse molto buffa, ma non volle rilevarlo. D'altra parte aveva
parlato abbastanza; le accuse che Folco faceva a Gioconda erano tanto poco
fondate, che sarebbero cadute da sole, e il giovane avrebbe riconosciuto alla
prima occasione il suo torto.
- Io me ne vado, - disse Ariberto.
E rammentando alfine una delle sue mille
infermità fantastiche, soggiunse:
- Ho un certo dolore, qui, al braccio
sinistro....
Folco alzò le spalle, ridendo.
- Ti auguro - disse - di non averne mai altri!
Ariberto se ne andò: ma l'indomani vide la
contessa, verso l'ora del tè. Folco era uscito; i soliti amici non erano ancora
giunti. Ariberto disse:
- Ho parlato ieri a lungo con Folco.
- Di Francesco Villon, ahimè! - sospirò
Gioconda.
- È dunque vero? - esclamò Ariberto sorpreso.
- Che cosa?
- È vero che non volete più udir parlare di
Francesco Villon e di letteratura? Permettetemi di essere indiscreto. Io avevo
osservato da tempo che in casa vostra c'è un po' di malumore: non siete felici
e spensierati, ora che la felicità e la ricchezza vi arridono. La cosa mi è
parsa bizzarra; e mi sono fatto lecito di parlarne a Folco.
- Avete fatto benissimo, - approvò la contessa.
- Ed egli vi ha risposto che io non traduco più Villon con lui e che mi annoio
a udirlo parlare della poesia francese del XV secolo.... Vi ha detto questo?...
- A un dipresso, - rispose Ariberto.
- Ma, caro amico, son due anni che ne sento
parlare e son due anni che porto pazienza. Vedete di quali colpe mi accusa?
Miserie, non vi pare?
- E perchè non lo lasciate parlare? Tutti noi
abbiamo il nostro tic.
- Oh, sì, - esclamò Gioconda ridendo. - Voi
avete il tic di parer moribondo.
- E tuttavia mi sopportate benissimo, - osservò
Ariberto.
- Non vi sopporterei affatto se foste mio
marito.... Del resto, io non mi curo di fingere, non ascolto pazientemente, non
gli presto aiuto, non lo incoraggio nelle sue ambizioni. Lo confesso
apertamente: e confesso che lo faccio apposta....
- Ma perchè? Perchè questa cattiveria? -
interrogò Ariberto. - Così andrete di male in peggio, Folco è un bel giovane,
ricco, elegante....
- Che cosa volete dire? Che un giorno potrebbe
consolarsi con un'altra?
La contessa rise.
- State tranquillo! - soggiunse. - In ogni modo,
farà quel che crederà....
- Quali capricci! - esclamò Ariberto.
Ma Gioconda gli posò una mano sul braccio.
- No, - disse recisamente. - Non sono capricci.
Egli mi ha offesa e la mia indulgenza è finita con lui.... Non fate quel viso
di stupore! Mi ha offesa col permettere che sua madre e sua sorella mi
tenessero lontana come una cosa immonda, e non mi stendessero le braccia
neppure il giorno in cui io accompagnava lui ad un pellegrinaggio di dolore....
Capite questo, caro amico?
Ariberto non rispose.
- Intendiamoci bene, - seguitò Gioconda. - Non
gli ho mai domandato di mettersi contro la volontà di suo padre. Un giorno egli
chiese la mia mano, e non fece parola delle difficoltà che il matrimonio mi
avrebbe accumulato intorno. Quando suo padre dichiarò che io non esisteva, che
sarebbe morto senza vedermi, non dissi nulla. Certo, non ne avevo piacere. Ma
comprendevo bene che la volontà di suo padre era incrollabile, e che, spingendo
Folco contro di lui, lo avrei spinto contro una roccia. Suo padre venne a
morire: la sorella e la madre accolsero Folco assai peggio che se fosse stato
uno sconosciuto: egli non si ribellò. Gli fecero dire per mezzo del notaio che
non pensasse di condurre in casa loro «quella donna». Quella donna sono io....
Gli occhi di Gioconda ebbero un lampo.
- Folco non si ribellò.... Ah, badate, caro
Ariberto!... Si può essere deferenti e rispettosi verso la madre e la sorella,
ma a patto che esse non insultino. Folco non trovò la forza di dire: «Quella
donna è la contessa Gioconda Filippeschi, è mia moglie, è la madre della mia
bambina; quella donna era una fanciulla onestissima quando io l'ho sposata e la
sua onestà non era facile, perchè non le mancavano intorno tranelli e
tentazioni. Quella donna ha tenuto sempre una condotta esemplare; se voi non
volete conoscerla, tanto peggio per voi! Ella non ha mai mendicato nè la vostra
stima, nè la vostra protezione, perchè si contenta della tranquillità della sua
coscienza». Folco non ha avuto il coraggio di dir questo....
- Giuggiole! Non era poco.... - esclamò
Ariberto.
- Era la verità o no?
- Perfettamente, cara contessa. Ma non tutte le
verità si possono dire.
- Come, non potete dire che vostra moglie è
onesta? - interrogò Gioconda.
- Senza dubbio: ma la madre e la sorella di
Folco lo sanno quanto voi: non fanno questione di onestà e di rispettabilità;
anzi, non fanno questione di nulla. Obbediscono ciecamente, senza discutere, ai
concetti del conte. Folco ha veduto giusto. Qualunque parola sarebbe stata
vana.
- Benissimo, dategli ragione, - esclamò
Gioconda. - Fatto è che io rimasi sola all'albergo, giunsi a Perugia quasi di
nascosto, ne ripartii quasi di nascosto; la contessa Filippeschi a Perugia
era.... Come dire?... una merce di contrabbando, a guisa d'una femmina perduta.
Folco mi caricò in treno, silenziosamente, mi ricondusse a Milano; e perchè mi
vide piangere, me ne chiese anche il motivo, quasi avessi dovuto ridere!...
Gioconda fece una pausa, guardò in volto Ariberto,
poi proseguì:
- Ebbene: Folco mi ha offesa. Io non gli ho
perdonato. Non so se gli perdonerò mai.
- Andiamo, via! - fece Ariberto. - Dovete
riconoscere che la partita era difficile da giuocare; non poteva già condurvi
in casa Filippeschi contro la volontà di sua madre....
- Doveva far comprendere che la sua volontà sola
esisteva ormai!...
- Occorreva una forza eccezionale, - disse
Ariberto. - E Folco non l'ha.
- Ah, esclamò Gioconda con un sorriso ironico. -
Voi credete dunque che essere debole sia un'attenuante agli occhi di una donna?
Io non so se di donne vi intendiate: mi hanno detto che sì. E allora dovete
saper meglio di me che le donne vogliono, hanno bisogno d'un padrone; una donna
che ha per marito un uomo di carattere debole è sola nel mondo, è indifesa: e
dacchè sono stata a Perugia e ho visto Folco lasciar vincere e stravincere
contro di me sua madre e sua sorella, io ho avuto la sensazione di essere
sola....
- Non potete dimenticare, - osservò Ariberto,
che Folco vi ha dato un gran nome....
- Ah no! - interruppe Gioconda. - Un gran nome?
Ma se i Filippeschi mi ignorano? Ma se devo confessare che non ho mai messo
piede a palazzo Filippeschi, e non so nemmeno se mia cognata Giselda è bionda o
bruna, se mia suocera è alta o piccola?... Quale diverso trattamento mi
avrebbero fatto i Filippeschi, se Folco mi avesse tolto dal fango della strada?
Dite voi....
Ariberto non disse nulla. Cercò degli occhi il
suo bastoncino d'ebano, vi si appoggiò lievemente e si rivolse a Gioconda:
- Ora, contessa, credo che Folco sia meno
crudele di voi, certo meno severo. Egli riconoscerà il suo torto....
- Purchè non sia troppo tardi! - mormorò
Gioconda.
- Oh, oh! Non dite parole che si potrebbero
giudicar male. Arrivederci, contessa.... Ho un piccolo dolore qui, alla spalla
sinistra....
La contessa lo guardò sorridendo.
- E poi? - domandò.
- E poi un poco d'emicrania.... E poi i vostri
corteggiatori che sopraggiungono per il tè.... Contessa, questi mi fanno più
male che tutti i reumi del mondo!...
Baciò la mano a Gioconda, e si allontanò
cautamente, con passo incerto.
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