X.
La volpe di Sparta.
Dai giorno in cui aveva riveduto nell'atrio del
Grande Albergo di Stresa Folco Filippeschi, appena uscito di lutto, e s'era
potuta fare amica della contessa Gioconda, la petulante Vittorina Ornavati era
contentissima.
Tutti i damerini che abitualmente corteggiavano
la contessa Filippeschi erano andati ad abitare o si erano fatti assidui del
Grande Albergo, ben lieti di trovarvi non soltanto Gioconda Filippeschi, ma
anche Vittorina Ornavati, graziosa, loquace, vivacissima, che giovava come
contrapposto a Gioconda, la quale, chiusa nel suo orgoglio, era contegnosa e
fredda.
Così ambedue le signore vivevano in un cerchio
di assidue premure, di galanterie pronte, di adulazioni incessanti, che avevano
stancato e stancavano Gioconda, mentre accendevano la fantasia di Vittorina.
Prendeva parte a quel circolo assai spesso anche
Ariberto Puppi. Egli era impercettibilmente beffardo; deciso a non far la corte
a Gioconda se non quasi per ischerzo, e indifferente a Vittorina, che non gli
sarebbe spiaciuta come donna se non avesse chiacchierato, Ariberto poteva
osservare con occhio non velato da alcuna passione le smancerie, le timidezze,
le audacie, le goffaggini, le sottigliezze, le gelosie, le rivalità di quel
gruppo d'uomini, in cui i giovani davan di gomito ai maturi, e i maturi ai
vecchi e i vecchi agli adolescenti. Tutto un uragano di speranze e di timori si
svolgeva sotto gli sguardi curiosi di Ariberto, il quale non aveva nè da temere
nè da sperare.
E perchè il suo cuore era libero e non
annebbiato il cervello, quello spettacolo finiva sempre per umiliarlo.
Gli uomini non gli parevano se non ciò che erano
davvero in quel momento: marionette. Le mani agili di Gioconda tenevano i fili
di almeno venti di quei pupazzi; di cinque o sei, i fili eran tra le mani di
Vittorina. L'una e l'altra potevano farli ridere, sorridere, aggrondare, parlare,
tacere, correre o star fermi, vestirsi di bianco o di nero; ciascuno di quelli
sorvegliava il vicino, perchè non avesse di più; ciascuno era gaio o accigliato
a seconda di ciò che toccava a lui e di ciò che toccava al rivale.
Una trentina di cuori palpitavano all'apparir
delle due giovani, s'affievolivano al loro allontanarsi; le due giovani
dovevano provare la sensazione del domatore che, entrando nella gabbia, vedon
le tigri accovacciarsi quasi per incanto; o meglio ancora, della maestra che
varcando la soglia della scuola distribuisce zuccherini e rimbrotti ai bimbi
secondo il modo con cui recitano la lezione.
Ciò che più faceva sorridere Ariberto Puppi, si
era la certezza che tutti quei gonzi non avevano affatto la sincerità d'un
qualsiasi sentimento: volevano l'una o l'altra, Gioconda o Vittorina, per
vanità; volevano soverchiare i rivali; d'amor vero, di passione vera, neppur
l'ombra.
E Ariberto ammirava l'arte con cui le due donne,
guidate da un impareggiabile istinto, li facevan trottare senza nulla concedere;
ambedue sapevan benissimo che pensare di quel loro serraglio o di quel loro
asilo infantile; benissimo leggevano nel cuore e negli occhi di quegli
instancabili adoratori. Esse li tenevano tutti a distanza, badavano a
distribuir con equità zuccherini e frecciate, in maniera che ciascuno avesse
ogni giorno quanto gli spettava; e ogni giorno li rimandavano a casa mezzo
contenti e mezzo disperati, sorridendo dietro il ventaglio.
Del resto Ariberto sapeva pure che Vittorina
Ornavati amava in silenzio Folco Filippeschi; e che Gioconda Filippeschi,
superba e sdegnosa, non amava nessuno.
Per quest'ultima parte, Ariberto si sforzava a
non essere sincero con sè stesso. La sua esperienza gli diceva che la contessa
aveva per lui tale un'amicizia, tale una confidenza, tale un abbandono d'anima,
che con poco, s'egli avesse voluto, il sentimento avrebbe preso altra forma e
altro nome. Egli non voleva; ma per non volere, stringeva i denti e i pugni.
Quanto ai due mariti, Folco Filippeschi non
pareva menomamente impensierito della subdola guerra che tutti quegli amici
intendevano muovere alla sua felicità. Era certo che nessuno valesse
un'occhiata? era sicuro della virtù di Gioconda? vigilava senza dare a
vedere?... Non si poteva dire: andava e veniva, lasciava la contessa alle prese
coi galanti, partiva il suo tempo tra la lettura, le lunghe indiavolate corse
in automobile, le gite con la piccola Lillia.
Che Vittorina Ornavati fosse innamorata di lui,
non s'era accorto o aveva fatto finta di non accorgersi; e tuttavia se n'era
accorta Gioconda, la quale aveva notato che la voce di Vittorina mutava,
rivolgendosi a Folco, e che la graziosa donna arrossiva un poco quando vedeva
avvicinarsi il giovane.
- Attenta! - le disse un giorno Ariberto
scherzando. - La piccola Vittorina vi porterà via il marito!
- Scusatemi, - rispose la contessa alzando le
spalle. - Se Folco è tanto stupido, non è il caso di contenderlo....
- Stupido, stupido! - borbottò Ariberto. - De
gustibus et coloribus.... Sapete il proverbio. E poi, in un quarto d'ora di
distrazione, visto che la piccola ce ne fa una malattia....
- Non sarà a questo modo che Folco potrà farmi
dimenticare i suoi torti! - rimbeccò la contessa.
- Rammentate ancora i suoi torti?
- Com'egli rammenta i miei....
- Non avete fatto pace? non vi siete spiegati?
- Nemmen per sogno!... E volete ch'io sia gelosa
di lui, quando egli non è geloso di me?
- Superbi: tutt'e due troppo superbi! - osservò
Ariberto.
- Ma è vero o non è vero che Folco non è geloso?
- incalzò la contessa.
Ariberto rise.
- Penserà di voi, - disse, - quel che voi
pensate di lui: «Se è tanto stupida!...»
- Ah no, caro Ariberto! Io ho la scelta; egli
non ha che quella povera piccola Vittorina; io ne ho venti al mio sèguito....
- Sì, ma confessate che tutti i venti, messi
insieme, non valgono Folco!...
Gioconda non rispose.
L'altro marito, Celso Ornavati, vedeva benissimo
che parecchi bellimbusti stavano intorno a Vittorina; ma egli aveva la sua
teoria: una giovane deve superare il periodo dell'amicizia intima di casa, cioè
dei corteggiatori che si fanno amici intimi; superato il quale, ella diventa
savia, avveduta e inaccessibile come una fortezza sopra un picco. Per Vittorina
quel periodo era già valicato da tempo. E Celso si dilettava di filosofia
bergsoniana, poi era passato al Nietzsche, poi allo Schopenhauer....
- Ma tu cammini come i gamberi! - gli aveva
detto un giorno Folco ridendo.
- Lascia fare: ognuno cammina come può!
- È un gambero filosofico! - aveva definito
Ariberto Puppi.
Egli s'era divertito fino a quel giorno, vedendo
la gara di tanti uomini, che tutti, l'uno dopo l'altro, dovevano rinunziare
alle loro speranze. Ma d'un tratto, Ariberto non si divertì più.
Era venuto a far parte del gruppo un giovane di
trent'anni, Stefano Forcioli, che gli amici chiamavano Nenni. Di media statura,
tutto muscoli, bruno in volto, asciutto, angoloso, dava a capire immediatamente
ciò ch'egli era: un domatore di cavalli. Appassionato per gli svaghi sportivi,
ma in modo speciale per l'ippica, possedeva una scuderia da corsa, la quale gli
costava non soltanto molti quattrini ogni anno, ma cure infinite e tempo. A
vederlo, lo si immaginava subito in tenuta da fantino, giubba nera su calzoni
bianchi, la frusta sotto il braccio, le braccia tese, il corpo curvo come in
agguato, nello sforzo supremo del galoppo finale.
Ariberto lo conosceva da tempo. Non aveva fama
di donnaiuolo. Tuttavia Ariberto avrebbe voluto vederlo meno assiduo al tè
della contessa Filippeschi, mentre Nenni non mancava a un solo. Ariberto
pensava a ciò che la contessa gli aveva detto un giorno: le donne han bisogno
d'un padrone; ed ecco il padrone: quell'uomo da scuderia, abituato a ordini
secchi, brevi, a forzar cavalli all'ostacolo, a levarsi poco dopo l'alba, a
lavorare tutto il giorno come uno scozzone.
Era il contrasto di Folco; questo, fine, amante
delle buone lettere, coltissimo, con una fantasia impressionabile e con animo
aperto alla bellezza; l'altro, duro, chiuso a tutti i gusti d'arte, imperioso e
laconico.
Ariberto fingeva sorriderne. Nenni non faceva la
corte nè a Gioconda nè a Vittorina: aveva per l'una e per l'altra nulla più che
la premurosa cortesia del gentiluomo verso la donna; mai non gli usciva dalle
labbra un complimento, mai non pareva accorgersi nè della bellezza e
dell'eleganza di Gioconda, nè della grazia e della civetteria di Vittorina.
Mandava fiori di tanto in tanto, come s'usa, accompagnava l'una signora o
l'altra alla passeggiata, indifferentemente; era impossibile capire s'egli
avesse una preferenza.
- Uhm! - disse Ariberto.
E tentò scoprire terreno con Gioconda, un giorno
in cui Nenni era assente.
- Credo che quell'analfabeta non vi dispiaccia,
cara contessa....
- Oh, a proposito, - interruppe Gioconda, - voi
che lo chiamate sempre analfabeta, guardate qua, come sa scrivere bene....
- Ah, è capace di fare la sua firma? - esclamò
Ariberto.
E prese la lettera che Gioconda gli porgeva e la
volse e la rivolse: una calligrafia verticale, alta, precisa come uno stampato;
la calligrafia d'un uomo risoluto e tenace.
- Bene! - seguitò Ariberto. - Che cosa vi
scrive: che vi ama?...
- Che mi ama lo so già, senza che me lo scriva,
- rispose crudelmente Gioconda, per irritare Ariberto. - Si scusa di non poter
essere oggi dei nostri.
- Qualche appuntamento?...
La contessa diede in una risatina ironica.
- Volete farmi diventar gelosa anche di lui? -
esclamò. - Ho detto ch'egli mi ama; non ho detto che lo ami io....
- Giuggiole! - fece Ariberto. - Non lo direte
mai!...
- Insomma, devo esser gelosa, per farvi piacere?
- No: per farmi piacere, dovreste metterlo alla
porta....
- Ariberto, Ariberto, - disse Gioconda in tono
di rimprovero. - Voi passate il segno, voi mi offendete, credendo ch'io possa
amare lui o chiunque altri....
Ariberto si piegò subito a baciarle la mano, in
atto umile; tuttavia pensò ch'ella non era sincera e che fingeva benissimo....
Ma in quel punto sulla soglia del Grande Albergo
comparve la figura asciutta e svelta di Nenni Forcioli.
- Ahi! - mormorò Ariberto.
La contessa mosse incontro a Nenni, con
un'espressione di letizia, con un sorriso così limpido, che Ariberto fece girar
tra le dita nervosamente il bastoncino d'ebano.
- Come mai? - ella chiese. - Io non vi aspettava
più....
- Se volete, torno via! - disse Nenni ridendo.
- No, no, ve ne prego! esclamò Gioconda con
involontario calore. - Sedete qui, accanto a me; oggi siete la pecorella
smarrita.
- Ah Dio, siamo fritti; mi scambia i lupi con le
pecore! - borbottò Ariberto, chinandosi un poco verso Vittorina.
- Sono andato all'appuntamento, - spiegò Nenni.
Ho sbrigato tutto in venti minuti e con l'automobile sono corso qui.
Non una parola di più. Nenni Forcioli sapeva
fermarsi a tempo. A qual pro aggiungere una frase galante? I fatti parlavano
per lui, e Gioconda era intelligente.
Ariberto se ne andò prima degli altri. Egli
pensava che Nenni, quella canaglia abituata alle scaltrezze della scuderia,
poteva anche avere inventato l'appuntamento per dar risalto alla premura di
sbarazzarsene e di giungere in tempo da Gioconda.
- È il padrone! - disse Ariberto a sè medesimo.
- Furbo e ostinato.
E da quel giorno volse tutta la sua attenzione
su di lui, ma non vide nulla; Nenni sembrava non avanzare punto nella simpatia
e nella dimestichezza con Gioconda; sembrava anche non impensierirsene e non
tentare niente per ottener da lei qualche piccolo privilegio, qualche leggero
vantaggio sugli altri.
Ariberto vide invece che avanzava molto
Vittorina verso Folco.
Vittorina aveva finito, impaziente e
capricciosa, per pregare Folco d'essere più assiduo.
Folco s'era acconciato a soddisfarla e non
mancava più alla tavola di Vittorina; di là poteva osservare l'armeggio, il
gareggiare dei suoi amici intorno a Gioconda. In verità, non credeva tanto; non
aveva mai sospettato che sua moglie fosse così stretta d'incessante assedio.
Ella ballava ogni giorno, poco prima del tè, un valzer; e per ottener l'onore
d'esserle cavaliere, era uno spingersi, un supplicare, un accorrere, che
strappavano qualche sorriso ad Ariberto.
Nenni Forcioli non ballava, epperò non
supplicava mai; stava egli pure a guardar gli altri, placido e curioso.
Tutto ciò mise una punta nel cuore di Folco. Non
già che dubitasse di Gioconda, ma gli sapeva male ch'ella vivesse in
quell'aria, tra quegli adulatori smaccati, ciascuno dei quali si credeva capace
di farle perdere la testa e sperava anzi di giungervi, presto o tardi.
Spiaceva anche, a Folco, di dover notare che
Vittorina Ornavati lo amava; ella era insistente, lo interrogava di continuo,
lo pregava con un piccolo broncio geloso di non guardare sempre dalla parte di
sua moglie. Folco doveva prestarsi a lasciarsi adorare, e ciò gli dava idea
d'una grande ridicolaggine.
Vittorina, dopo tutto, era discreta: non
chiedeva se non ch'egli le stesse vicino e che non fosse accigliato. Da tempo
Folco appariva a tutti melanconico e taciturno, la sua fronte aveva una ruga
precoce, le sue parole erano spesso ironiche; v'era un senso d'amarezza in
tutto ciò che diceva, come se qualche cosa gli ribollisse dentro, gli lacerasse
l'animo.
- Io non so comprendere: - gli osservò un giorno
Vittorina. - Siete sempre sarcastico, mentre la felicità vi arride. Non è vero?
La felicità di Folco era un tema che Vittorina
trattava di frequente, quasi per sondare, per assicurarsene.
Folco non rispose.
- Voi siete felice, - seguitò Vittorina, - e non
potreste non esserlo. Giovane, colto, ricco, sano, possedete una moglie che
tutti vi invidiano; la vostra bambina è deliziosa. Che cosa potete chiedere di
più? E come mai siete sempre imbronciato?
Folco la guardò.
- Cara amica, - disse.
Esitò un istante, quindi proseguì:
- Forse anche a voi, a scuola, hanno raccontato
la storia del giovane spartano....
- Che? Il giovane spartano? E chi era?
- Un giovane spartano aveva rubato una
volpicella; e per non essere punito, poichè il furto era causa di gravissima
condanna, egli nascose la volpe fra la tunica e il petto. Condotto innanzi al
magistrato, sostenne di non aver rubato nulla; e mentr'egli si difendeva, la
volpe andava rodendogli il petto e le viscere. Il giovane rimase impassibile
all'atroce dolore; fu liberato, ma morì poi per lo strazio che la volpe aveva
fatto delle sue carni.... Spero abbiate compreso, cara amica....
- Oh, sì, ho compreso benissimo, - esclamò
Vittorina.
Ma non aveva compreso nulla; e quella sera
medesima ella disse a suo marito:
- O Celso, che cosa significa questa storia
della volpe di Sparta?...
- La volpe di Sparta?... Non ne so nulla io....
Allora Vittorina ripetè a Celso il racconto che
le aveva fatto Folco.
- Mah! - osservò Celso. - È un racconto
simbolico. Vorrà dire che anch'egli è rôso da qualche dolore segreto, da
qualche volpicella che ha voluto prendere a dispetto degli altri....
Vittorina tacque: stavolta aveva compreso
davvero.
Celso era per andarsene, quando tornò indietro.
- Bada però, - aggiunse, - che la storia del
giovane spartano è una frottola, come tutta la storia greca.... Non vorrei che
tu t'impressionassi per la morte di quel ragazzo....
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