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Luciano Zuccoli
La volpe di Sparta

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  • XI.   Indizii.
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XI.

 

Indizii.

 

Il lussuoso appartamento che, al ritorno da Stresa, Folco Filippeschi aveva fatto addobbare, fu aperto a ricche feste.

Cessato col lutto l'obbligo del silenzio e del riserbo, Gioconda voleva divertirsi come conveniva alla sua età e come le permetteva la sua alta posizione sociale.

Le feste di casa Filippeschi erano molto frequentate; i corteggiatori crescevano di numero, non soltanto per la fama di bellezza che la contessa godeva, ma per la rinomanza della sua virtù.

Alcuni celebri bellimbusti le stavano intorno, animati dal cieco istinto malvagio di distruggere quella virtù, di calpestare qualche cosa di sacro.

Gioconda era imperturbabile.

Tra gli assidui contava i vecchi amici e li prediligeva: Celso e Vittorina Ornavati, Ariberto Puppi, Nenni Forcioli. Il quale da tempo andava dicendo che doveva recarsi a Parigi per comprare cavalli, e il momento infatti era buono. Ma non si muoveva.

Aveva egli solo trovato la maniera giusta di far la corte a Gioconda. Non le diceva alcun complimento, quasi fosse cieco alla sua bellezza, ma le provava coi fatti che per lei trascurava i più pressanti interessi, mutava abitudini, non reggeva a viverle lontano. Era un corteggiamento serrato ed efficace, del quale nessuno poteva avvedersi; anzi, osservando che per Gioconda non aveva mai una parola che non fosse comune, una premura che non fosse convenzionale, gli amici giudicavano Nenni un orso.

Ariberto Puppi soltanto non si lasciava cogliere a quelle apparenze.

Aveva notato che la contessa, impassibile con tutti, sembrava un poco nervosa quando Nenni tardava. Una sera, durante un ricevimento, nell'attraversare la serra, Ariberto aveva veduto la contessa passare in fretta: seduto sopra un divano di vimini era Nenni Forcioli; e la contessa gli aveva dato la mano a baciare. Di certo ella non aveva attraversato la serra che allo scopo di veder Nenni e di lasciare ch'egli posasse a lungo sulla sua mano le labbra ardenti.

Ariberto fece in tempo a ritrarsi; e imbattutosi con Folco, gli disse bruscamente:

- Tu sai che la donna vuole un padrone?

Folco lo guardò.

- A che proposito? - domandò sorpreso.

- A proposito di niente. Ma la donna vuole un padrone.

E come ritornello, modulò tra le labbra:

- Un pa-dro-ne, un pa-dro-ne!

Folco sorrise: le bizzarrie di Ariberto lo divertivano; lo osservò mentre si allontanava, stretto nella marsina, appoggiandosi un poco al fragile bastoncino d'ebano.

Venivano in casa anche il padre e la madre di Gioconda, il signor Piero e la signora Delfina. Ma non ai trattenimenti: si sarebbero sentiti in qualche impaccio, tra tutti quegli eleganti e quelle dame, non sapendo bene gli usi mondani. Essi venivano a vedere i preparativi, le tavole ornate di cristalli multicolori, con gli argenti di casa Filippeschi, antichi e pesanti. Quella ricchezza li abbacinava.

- È cosa stupenda! - diceva Piero. - Tu sei veramente fortunata, figliuola mia!...

- Ti rammenti quando scrivevi a macchina, sotto dettatura? E il salottino era freddo e bisognava tener la lampada a mezza luce per fare economia di petrolio?

Gioconda tacque al ricordo che le portava innanzi sua madre.

- Ora sei felice, - seguitò questa. - Giovane, bella, ricca, godi tutta la tua libertà....

Eran le parole che Vittorina Ornavati aveva detto a Folco.

- La mia libertà! - ripetè Gioconda.

- Oh certamente! Io potrei uscir la mattina e tornar la sera, e Folco non mi domanderebbe dove sono stata....

- Grande fiducia, grande stima, - spiegò il signor Piero. - E te la meriti!

La contessa non volle ribattere.

- Vedete qua, - ella soggiunse. - Quando ricevo una lettera, la lascio sul tavolino, sulla sedia, dove il caso vuole. Non c'è pericolo che Folco ne guardi nemmeno la soprascritta.

- Grande stima! ripetè il signor Piero.

Gioconda alzò le spalle. Non poteva non pensarla diversamente; e le pareva ridicolo ch'ella non avesse a temer nulla da suo marito, potesse essere anche imprudente con lui, mentre doveva guardarsi da Ariberto Puppi.

La presenza assidua di costui cominciava ad infastidirla. Era un amico, ma un amico ingombrante, che aveva occhio a tutto, che solo aveva letto nel cuor di lei, che sembrava vigilarla da tempo e col suo contegno riservato le esprimeva un muto rimprovero, quasi uno stupore doloroso.

Egli aveva còlto più d'una volta, involontariamente, la contessa e Nenni Forcioli mentre parlavano sottovoce.

La contessa e Nenni si cercavano. Per lui ella aveva ripreso amicizia con certe famiglie presso le quali era certa d'incontrarlo; ed egli per lei non mancava a una festa, sebbene di solito per lo passato se ne astenesse, perchè non ballava e non poteva divertirsi; piccole gradazioni, che allo sguardo penetrante d'Ariberto non andavano perdute.

In quei trattenimenti, la contessa e Nenni non avevano occasione di star molto insieme; tutt'al più giuocavano a bridge allo stesso tavolino. Ma nessuna festa finiva senza che il Forcioli trovasse maniera di parlare a Gioconda brevemente, con frasi rotte, con emozione; e quantunque Gioconda non rispondesse, si allontanava sempre un poco pallida e turbata.

- Uhm! - andava dicendo Ariberto a stesso. - Dov'è Folco?...

Folco era, come le leggi mondane esigono, dappertutto fuor che presso sua moglie; non si vedeva al fianco di lei se non per accompagnarla alla festa e ricondurla a casa.

La contessa era mutata. Si occupava poco anche della piccola Lillia. Cercava con avidità di distrarsi, non come una volta, per vedere ciò che non aveva mai veduto, per inebbriarsi di lusso e di rumore; ma come per isfuggire a medesima, a un pensiero che la incalzasse, a una tentazione che la circuisse. C'era qualche cosa nella sua vita che le stava sopra e la perseguitava.

Un giorno, mentre prendeva il in casa Filippeschi ed era presente anche Folco, Ariberto notò che Gioconda non aveva più il suo bel rubino col motto.

- Forse l'avete perduto? - chiese ingenuamente.

La contessa arrossì.

- No, non l'ho perduto, - balbettò. - Si è guastato e l'ho dato ad aggiustare.

Poi, volgendosi a Folco:

- Non volevo dirtene nulla, per timore che tu mi sgridassi.

Folco sorrise, indulgente. Ariberto si scusò.

- Ho commesso una goffaggine, contessa!... Già, è vero: bisogna pensar dieci volte prima di parlare, e poi.... stare zitti.

Ma la goffaggine, secondo Ariberto, l'aveva commessa Gioconda con la sua risposta. Come, l'anello di rubino si era guastato? Ma si trattava d'un solo grosso rubino, senza contorno di brillanti, senza decorazioni d'alcun genere. Un rubino non si guasta: c'è o non c'è. Piuttosto, Nenni Forcioli aveva espresso il desiderio che l'anello col motto non ci fosse più; e Gioconda aveva obbedito.

- Non ha torto, - pensò Ariberto sarcastico. - Ormai il motto si può lievemente modificare: «Trois étions....»;

L'indomani l'anello ricomparve sul dito di Gioconda. Non era più «guastato», o miracolosamente il gioielliere aveva riparato il guasto in un soffio.

- Uhm! - disse Ariberto a medesimo. E gli parve che Nenni Forcioli fosse di cattivo umore; poi, sul finir del ricevimento, Gioconda gli disse alcune parole sottovoce: spiegava; e Nenni Forcioli si rasserenò.

 

 

 




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