XII.
Il padrone.
Miss Mary Garnett, la governante, inglese, venne
ad avvertire la contessa che la piccola Lillia non voleva alzarsi: era molto
rossa in faccia, e miss Mary Garnett temeva avesse la febbre.
Gioconda stava facendo colazione con Folco nella
piccola sala da pranzo di puro stile veneziano del decimottavo secolo; era la
sala a cui non accedevano invitati. Gioconda la preferiva alla grande, di stile
fiorentino, vasta, magnifica, un po' tetra. Gli specchi veneziani chiusi in
cornici di pallido oro riflettevan le imagini come attraverso un velo; i mobili
eran ricoperti di stoffe antiche dal color bigio stinto. La piccola sala aveva
qualche cosa di raccolto, dava un senso di intimità silenziosa, che, nella città
dai rumori incessanti, era incantevole.
Da poco avevan recata la posta.
- Queste sono per te! - aveva detto Folco,
consegnando a Gioconda alcune lettere.
E mentr'egli leggeva quelle che portavano sulla
busta il suo nome, Gioconda apriva con un tagliacarte sottilissimo le sue,
quasi tutte di donne; una sola con calligrafia maschile, alta, verticale,
precisa come uno stampato: la calligrafia d'un uomo risoluto e tenace.
Non appena udì ciò che miss Mary Garnett le
riferiva, la contessa gettò le lettere aperte sulla tavola e si alzò
precipitosamente.
- Vado a vedere! - disse a Folco. - Spero non
sia nulla. Stanotte stava benissimo.
- Non sarà nulla, - confermò il conte. - Miss
Mary Garnett è sempre pessimista.
Gioconda uscì.
Folco seguitò a leggere; poi sbadatamente gettò
le lettere su quelle di Gioconda; volle riprenderle, separarle. I suoi sguardi
caddero sulla calligrafia verticale, alta, precisa, e percorsero le prime
linee:
«Oggi alle tre vi attendo. Venite a questo primo
convegno, ve ne supplico con tutta l'anima. Esso vi proverà che non avete nulla
da temere in casa mia».
Folco si passò la mano sul volto, quasi credesse
di sognare, poi si fece pallido, bianco, si levò in piedi, e gettò un grido
rauco.
In quel punto. Gioconda tornava.
Prima ch'ella interrogasse, Folco avvertì:
- Ho urtato con la caviglia contro un piede
della tavola; ne ho sentito un dolore acuto. Come sta la bambina?
Gioconda era inquieta.
- Non sta bene, - annunziò. - Temo anch'io che
abbia la febbre. Te ne prego: manda a chiamare subito il medico.
E uscì. Folco si avviò per telefonare
immediatamente al medico di casa. La contessa tornò indietro a prendere la sua
corrispondenza.
La piccola Lillia dormiva in un letticciuolo
bianco presso il letto della mamma; questa la udiva durante la notte; non aveva
mai voluto affidarla ad alcuna governante, sebbene miss Mary Garnett fosse
prudente e seria.
Folco trovò Gioconda curva sul visino di Lillia;
era in tutto il volto della contessa un'ansia trepida, uno smarrimento, che la
faceva quasi irriconoscibile. Anche Folco si chinò a guardare la bambina, la
quale teneva gli occhi chiusi, e un breve lagno le sfuggiva di tra le labbra.
Il medico venne, studiò Lillia con attenzione,
poi si rivolse alla contessa:
- La febbre non è alta. Credo si tratti d'una
semplice indisposizione.
Folco vide una maschera di dolore arcigno cader
dal volto di Gioconda: i colori le tornarono alle guancie, la luce agli occhi;
le sue labbra sorrisero.
- Ora la lascino riposare, - consigliò il
medico. - E Lei, contessa, non abbia timore.
S'allontanarono. Folco non disse parola. Il
dottore scrisse una ricetta e promise che sarebbe tornato.
- Venga alle due, - pregò Gioconda, - perchè
alle tre ho un appuntamento.
Folco rattenne a fatica un guizzo.
Quando il medico si fu congedato, Folco domandò
con indifferenza:
- Hai un appuntamento alle tre?
- Sì, - confermò Gioconda. - Non si tratta che
di combinare con la contessa Stefani quella fiera di beneficenza...
Folco non obiettò nulla. Non aveva mai udito
parlar di fiera, ma poco gl'importava, sapendo benissimo dove e da chi Gioconda
era aspettata.
Da chi? No: veramente egli non sapeva; quella
calligrafia gli era ignota; si trattava d'un uomo ch'egli non conosceva o non
aveva mai avuto occasione di scrivergli: qualche cacciatore di femmine, qualche
libertino, che faceva il suo mestiere; il nome non contava. Folco si chiuse nel
suo studio; era annientato dalla rivelazione.
Riudì all'orecchio il ritornello d'Ariberto: «La
donna vuole un padrone: un pa-dro-ne!»
Gioconda l'aveva trovato: egli, Folco, non era
capace di far da padrone; egli era un pover'uomo, un letteratoide, un ambizioso
andato a male.
Rise beffardamente.
- Chi sa? - disse ad alta voce. - Chi sa ch'io
non sia capace di far da padrone?
A tavola, verso mezzogiorno, scrutò Gioconda;
fingeva di mangiare, ma tutto restava sul piatto; era irrequieta, distratta,
nervosa. Folco notò che, contrariamente alle sue abitudini, bevve due bicchieri
di Porto.
- Sei stato a trovare Lillia? - ella chiese.
- Sì, - rispose Folco. - Mi pare stia meglio.
E cominciò a discorrere. Sentiva dentro di sè
un'allegria stravagante, una voglia di ridere, di scherzare, di correre, che
veniva dall'incubo tremendo di quelle ore, dall'angoscia spaventevole ch'egli
conteneva con tutte le sue forze.
Gioconda rispondeva appena, curvata sotto un
pensiero troppo grave. Era il pensiero di Lillia? era il pensiero
dell'appuntamento? Folco non avrebbe saputo rispondere: forse l'uno e l'altro
le attanagliavano l'anima e pesavano tanto ch'ella non riusciva più a fingere.
Verso le due, la contessa chiamò la cameriera e le diede ordine di prepararle
l'abito per uscire.
Folco, il quale era presente, con un giornale
tra le mani, alzò il capo.
- Sei sicura di poter uscire? - domandò.
- Ma certo, - ella rispose. - Non credi che
Lillia migliori?
- Lo dirà il medico.
Gioconda si ritirò nella sua camera, e quando il
dottore giunse, Folco vide ch'ella era vestita.
Indossava un abito nero, semplice, che le dava
una grazia quasi di fanciulla, una bellezza nuova di riserbo e di verecondia.
Gioconda osservò che Folco era pallidissimo e tremava.
- Non ti spaventare tanto, - ella disse. -
Lillia sta meglio.
Folco guardò l'orologio.
- Sono appena le due e un quarto, - notò. - Il
tuo appuntamento non è per le tre?
- Sì, - rispose pronta Gioconda, - ma non voglio
far attendere. Più presto vado e più presto ritorno.
- Hai dato ordine d'attaccare?
- No: esco a piedi. Ho bisogno di scuotermi.
Dicevano queste parole sottovoce, accanto al
letticciuolo, mentre il dottore andava misurando la febbre di Lillia e le
apriva la bocca per osservare la gola.
- La febbre è salita! - annunziò.
Vi fu un silenzio. Il medico riprese a scrutare
la bambina, si piegò su di lei, accostò l'orecchio al suo piccolo petto
scoperto.
Non disse nulla. Scrisse una nuova ricetta.
- Tra due ore sarò di ritorno! - promise poi.
Folco guardò la contessa. La maschera di dolore
le era nuovamente calata sul volto, dura e chiusa.
- Non vai all'appuntamento? - egli chiese.
La contessa tacque.
Folco si allontanò, passò il limitare del suo
studio, aperse il tiretto della scrivania, fece scivolar qualche cosa nella
tasca destra della giacca. Poi tornò presso il letto della bambina. V'era
ancora, dritta in piedi, Gioconda. La veste nera, il pallore del volto,
l'immobilità, facevano della bellissima giovane una figura tragica.
- Non vai all'appuntamento? - chiese Folco di
nuovo.
- Non so! - ella rispose.
Ma d'un tratto si scosse, puntò l'indice al
bottone del campanello elettrico.
- Portami il cappello e la pelliccia! - ordinò
alla cameriera.
Folco ebbe un fremito che lo percorse da capo a
piedi, mentre la sua mano s'affondava nella tasca della giacca.
Gioconda appuntò il cappello in testa. Folco
vide che aveva un velo fittissimo, il quale avrebbe impedito di riconoscerla.
Poi la contessa indossò il mantello.
Ma esitava; si scatenava una tempesta dentro il
suo animo.
Folco ne seguiva ogni gesto, ogni movimento, con
un'intensità non più dissimulata, con un'attenzione che gli raddoppiava il
battito alle tempie.
La cameriera era uscita.
Gioconda si avvicinò a Lillia e le toccò la
fronte. Stette ad ascoltarne il respiro affannoso e quel breve lagno che le sue
labbra lasciavano sfuggire senza tregua. Allora, quasi con uno strappo, Gioconda
si tolse il cappello di testa, gettò a terra la pelliccia.
- Non vado! - annunciò con voce risoluta.
Folco levò la destra dalla tasca, e gettando la
rivoltella sul letto, disse freddamente:
- Fai bene!
FINE
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