XXX.
Tutto quel dì non mi fu
possibile di prendere nutrimento veruno senza recerlo immantinente, benché io,
per appagare suora Geltrude che se n'accorava, mi sforzassi assaissimo del
contrario. La notte seguente peggiorai considerabilmente, e non fu un solo quel
momento che parve alla mia affettuosa vegliatrice, e da me medesima, ch'io
trapassassi. Allora ella accostava la sua bocca alla mia, non per raccogliere
il mio spirito fuggente, ma come per infondermi col suo fiato un poco della sua
vita in vece della mia che già svaniva. Oh padre! quando seppi qualche lettera,
e che lessi e rilessi mille volte Renato, fra l'estasi inenarrabile in cui quel
libretto rapisce, quando Amelia si fu renduta suora della Carità, la vestii
sempre delle forme e dello sguardo più che angelico di suora Geltrude.
Il terzo dì si attese fino alle
due pomeridiane, allorché fu udito giù per la corte un gran roteare di carrozza,
e un grande scalpitare di cavalli, e un frustare interminato. Suora Geltrude si
fece al finestrello della mia cameretta, il quale rispondeva sulla corte,
ch'era delle ampissime: e vide ch'era il cocchiere di sua eccellenza (così
quivi dicono al duca), che, per acconciarsi all'ombra, stringeva e rivolgeva
indietro una bella muta di quattro britanni destrieri. Incontanente si udì,
presso alla cameretta ov'io giaceva, una voce alta e imperiosa. Ed era sua
eccellenza in persona che montava le scale. Suora Geltrude non gli diede il
tempo di sparire; e uscita subito della cameretta, e fattasegli animosamente
incontro, non so che gli disse, né so che n'ebbe; ma se non le fu possibile
d'indurlo ad entrare nella cameretta, lo indusse almeno a permettere che
finalmente si mandasse per il cerusico.
Non vorrei che voi credeste che,
non già il cerusico, che non fu potuto avere per essere in quei dì andato a
Salerno, ma il medico, che fu domandato in quello scambio, fosse venuto quel dì
medesimo. Anzi venne soltanto alle due pomeridiane del dì seguente, ch'era il
quarto da che il fiero accidente m'era intervenuto. Battevano, dunque, le
diciannove ore quando l'uscio della cameretta, spalancato furiosamente da un
usciere, vomitò dentro un'onda di giovani sconosciuti; i quali tutti,
all'abito, alla cera ed al portamento, rammentavano don Gaetano. Quando costoro
furono tutti dentro, non altrimenti che sogliono i soldati nei loro esercizi,
fecero ale di se, lasciando per mezzo di essi libera l'entrata a un esimio barbassoro
di provetta età e di rigogliosa sembianza, che, con passo solenne,
appoggiandosi a un bastone o più tosto a una lunga mazza, incurvava
affettatamente il dosso, non perché tale fosse l'abitudine della sua persona,
ma come oppresso dal gravissimo pondo della sua scienza. Come per consuetudine,
e senza più quasi avvertirlo, alternava i suoi sguardi quando alle svariate
ragioni di ciondoli che gli pendevano dal sinistro petto della giubba, dei
quali pareva che tutto si venisse pascendo, e quando a coloro nei quali
s'abbatteva. E veduto che da poter ammirare il suo smisurato sapere non era
quivi se non io e suora Geltrude, già cortesemente levatasi in piedi al suo
entrare, del suffragio delle quali stimo che poco si curasse, inacerbì il viso
sì considerabilmente, che quel conforto che l'infermo sente all'appressarsi del
medico, sola medicina talvolta del male e dei rimedi, tornò in maggiore
spavento.
Postosi a sedere e incavalcato
l'un ginocchio sull'altro, que' suoi novizi mediconzolini gli fecero siepe intorno.
Ed egli non guardando né me né suora Geltrude né i mediconzoli, ma, per
enfiatura, i muri e il cielo della stanza, domandò, non si vedendo a chi e come
uomo che ha l'animo assai di lungi da quel che dice, quale fosse il male mio.
Suora Geltrude, rimessasi a sedere, gli venne narrando con eloquentissima
brevità il caso succedutomi, non tacendogli, com'io avessi già prima il capo
ferito, e come per ben quattro dì non fossi stata soccorsa per modo veruno. Le
quali ultime cose ella non potette dire altrimenti che a fatica grandissima,
perché il barbassoro, alla novella dell'olio e della buca, cominciò a
sghignazzare strepitosamente, quasi invitando que' suoi studenti a fare
altrettanto. I quali sbellicandosi alla volta loro delle risa, furono cagione
che assai guardie e custodi e serventi che si baloccavano scioperati per le
scale e per la corte, e che insino i cocchieri, i famigli, i donzelli, i
mazzieri e gli altri straordinari del duca, per l'appunto allora allora
arrivato, traessero tutti al portentoso romore.
Costoro, sbatacchiato
violentemente l'uscio della stanzetta, che s'era rinchiuso dietro al medico,
chi potette capire nella stanzetta, entrò, e chi no, sporse il capo dentro a
più potere; di modo che furono innumerabili le teste, che qual ritta e quale
curvata, ci furono vedute riempire tutto il vano di quell'usciuolo. Del quale
accidente il medico, non che darsene alcun fastidio, fu anzi il più contento
uomo del mondo. E poiché per quella volta la fortuna non gli aveva posto
davanti un auditorio più scelto, risolse d'aversi quello, qualunque si fosse,
che poteva. Laonde, ritornato assai grave e circonspetto nel viso, slungò un
cotal poco più il ginocchio di sotto, e battendo della mazza in terra,
rivoltosi a me, senza però guardarmi troppo fissamente, mi disse ad alta voce:
Andiamo, via: che ti senti?
Io poverina, scema più che mai
di forze per la dieta di quattro dì, già prossima a soffocare dall'aria
mortalmente rarefatta di quella cameruzza, e, nel tempo stesso, fieramente
sdegnata degl'increscevoli portamenti del medico e della sua scempiata domanda,
stetti un momento sopra di me, quasi risoluta di non rispondere. E nondimeno
già, per adolescente qual ero, assai ben avvezza a dissimulare gl'insulti della
bassa e della mezzana canaglia, gli risposi che mi sentivo vinta dai patimenti
e quasi moribonda; con voce così tenue e così fioca, ch'io credo
certissimamente ch'egli non aveva intese le mie parole, quando si volse alla
nobile udienza, e facendosi dai principii della medicina, disse cose nuove ed incredibili,
e parlò parole sesquipedali. E discendendo da Ippocrate insino a Hanneman,
fermò, più tosto in greco che in italiano, la diagnosi del mio male, e concluse
che l'acetato di morfina, ministrato nella dose di un trilionesimo di grano,
era medicina certissima alle mie infermità.
Dopo la quale conclusione,
confermata con innumerabili nomi francesi, inglesi e tedeschi, tutti non
facilmente pronunziabili, i quali nondimeno, per il fato singolarissimo
d'Italia, riuscivano assai solenni e sonori a quella plebe, rizzatosi in piedi,
senza degnare tanto basso da salutare, non dico me, ma suora Geltrude, ci volse
rapidamente il tergo, e scomparve in meno che non lo dico, seguitandolo la sua
fiorente scuola, e tutto il restante di quella prestantissima ragunanza.
L'usciolino si richiuse sopra di
loro: e noi ci rimanemmo libere da un così disonesto frastuono, ma assai più
incerte di quel che fosse da fare, e col capo assai più scempio e svanito, che
mai prima non s'era state.
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