XXXI.
La natura e le cure più che
materne di suora Geltrude mi furono vero medico e vera medicina. Appena,
partita che fu quella marmaglia, l'aria della stanzetta si fu alquanto
rinnovata, e che la respirazione cominciò a divenirmi più leggera, né la
mestizia di suora Geltrude, né la mia mortale debolezza, non bastarono a
rattenere il riso, che surse spontaneo sulle labbra di entrambe. Suora
Geltrude, pigliato animo del mio sorridere, mi recò incontanente una tazzetta
di brodo, ch'io mi sforzai di bere, e che bevvi. Né avendone ancora ai miei dì
assaggiato gocciolo, dopo poco tempo che l'ebbi bevuto, sentii corrermi non so
che di mirabilmente vitale per le vene e per l'ossa, ch'io non aveva mai più
sentito. Adagio adagio potetti di nuovo sollevarmi e sedere nel letto, di nuovo
la ferita risaldò; e per non ve l'allungare, dopo una settimana di questa cura
fui in istato di levarmi.
Era l'aprile, e il sole, tutto
pregno di vita e di speranza percoteva risplendentissimo su quel mio benché
assai misero finestrello. Suora Geltrude, tutta lieta e serena di cogliere
l'ultimo frutto delle sue angeliche cure, fatta recare una conca ripiena
d'acqua limpidissima e tepida, mi tolse la camicia che avevo, ch'era anzi
sudicetta che no, ed appressata la conca al lettuccio, e fattami discendere in
quella, mi venne tutta lavando con una delicatissima spugna instrisa d'un fine
sapone di rosa. E rasciuttami bene la persona con un asciugatoio nitidissimo,
mi sciolse e ravviò, e lasciò stare sciolti in forma di zazzerina, i miei
foltissimi capelli, i quali, acciocché il mio capo capisse meglio nella buca,
donna Marcantonia aveva ristretti e rannodati, non senza un'infinita fatica;
perché avendomeli ella stessa poco dianzi tagliati per venderseli, erano assai
ben corti. Poscia m'aiutò a mettere una camicia di bucato, un paio, di calze,
e, per la prima volta della mia vita, le scarpe, e mi vestì di sua mano una
sottana e la vesticciuola. All'ultimo, cavatesi della tasca due belle pezzuole
scempie di seta, m'appuntò l'una al collo con uno spilletto d'acciaio
vermiglio, e dell'altra mi fasciò assai morbidamente la fronte, ove la margine
della ferita era ancora un cotal poco livida e sanguigna.
Quando suora Geltrude m'ebbe
così caramente vestita, prese leggerissimamente il mio capo con ambe le sue mani,
e rialzatolo un pocolíno, mi baciò nella bocca e nella fronte. Ed a me, che
oltre alla consolazione di vedermi così abbigliata, imparavo per la prima volta
a conoscere i non dicibili piaceri della nettezza, mi pareva sensibilmente di
avere lasciato in quella conca, nella quale ero primamente discesa dal letto,
il grave fascio de' mali miei.
Suora Geltrude, presami per la
mano, e condottami fuori della cameretta, e fattami soavemente montare
sull'altro pianerottolo delle scale, per corridoi e viottoli molti mi fece
riuscire in una bellissima loggia, avanzo degli antichi giardini nominati della
Duchesca; che tutta ancora adorna e maestosa d'un bel colonnato dorico, così
come veramente era, così pareva una cosa reale. Quivi, per entro il colonnato,
interrotta dal quale è sempre più maravigliosa una prospettiva, forse perché
ogni bellezza, se da alcun velo apparisce tramezzata, viene più sovrumana, si
vedeva il Vesuvio, che, quasi pegno di pace alla terra ed al mare, facea grembo
di se alle onde placide e turchinissime del golfo; e mandando dalla bocca un
gitto di fummo sottilissimo e leggero, pareva in lontananza, non già il più
orribile dei vulcani, ma un vaso ove ardesse l'odorato profumo onde tutta oliva
l'aria che ne circondava. Quindi accompagnando dell'occhio il dolcissimo
declivio del monte, l'incontrava il colle di Camaldoli, come un piccolo
altarino, sul quale gli uomini della contrada venissero ad offerire umili
sacrifici al gran dio del fuoco, acciocché fosse più tardo a vomitare l'inferno
sulle città e sulla campagna. Apparivano finalmente le montagne di Stabia, di
Castellamare e di Sorrento, ben cerulee e bene spiccate dal cilestro
dell'orizzonte, e tutte terminate a frastaglio ed a lineette greche: e Capri,
all'ultimo, quindi visibilmente divelta da un'antichissima rovina.
O Padre, quanto è mai vero, che
tutte le maraviglie non sono nella natura, ma in noi. Io, che, dal primo dì che
fui menata via da quell'ospizio, aveva e da Sant'Anastasia e dalla via
Carbonara, e, più che altronde, dalle altissime finestre di donna Mariantonia,
contemplate mille e poi mille volte quelle eterne bellezze, e mi erano sembrate
o insipide o nulle, ne presi quel dì una cosa così grande e stupenda e più che
umana impressione, che sempre che poscia me ne rammentai, ed ancora ora che
vergo qui queste carte, sono interrotta dalle più cocentissime lacrime.
Il delirio in cui quella scena
mi rapì, l'ora tepida e tranquilla, quel senso ineffabile di dolcissima
malinconia causato sempre dalla convalescenza, e quel, direi quasi, soave
tremito delle ginocchia ch'ella porta sempre con seco, onde mi parea d'essere
tanto leggera che il mio piede non toccasse più la terra, mi fecero credere
fuori di questo mondo in un altro meno reo e meno infelice, ove mi fosse
conceduto alla fine di ricongiungermi per sempre al mio adorato garzonetto, che
in quel punto mi parve mio ab eterno, e mi parve che senza lui io non fossi
tutta, ma fossi la metà di me stessa. E sentendomi per le guance le tenere mani
di suora Geltrude, e stupida guardandola nel volto, e parendomi ch'ella fosse
un angelo di quel paradiso nel quale io mi sentiva novellamente salita, già
quasi le confidava il caro segreto del mio cuore, quel solo che ancora non le
avevo aperto... allorché venne un usciere del duca a dimandarci.
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