XXXII.
La stridula voce dell'usciere, e
l'agitata perplessità del viso di suora Geltrude, mi ruppero, a guisa d'una
bolla d'acqua, la cara visione che m'era apparsa. Suora Geltrude non rispose
sillaba, ma, senza mai lasciare di guidarmi per mano, s'incamminò tacitamente
appresso a quello.
Per corridoi e scale moltissime
pervenimmo a un'immensa sala, dove, presso d'un uscio grandissimo, ma
perfettamente chiuso, erano altri assai uscieri messi a nero, ritti in piedi,
con le braccia ripiegate sullo stomaco, e, quel che non è facile ai Napoletani,
tutti taciturni. Quivi giunte, l'usciere cui eravamo venute dietro, ci fe cenno
del viso e della mano di fermarci, quasi fosse dentro da quell'uscio la dea
Cerere d'Eleusi, de' cui misteri rompere l'augusto silenzio fosse troppo grave
peccato. Poscia, aperto, pianamente e il meno che gli fu possibile, l'imposta
destra di quell'uscio, e ficcatosi di traverso nella sottile apertura come
un'anguilla, se la trasse subitamente dietro, quasi avesse temuta la
profanazione del tempio. Riuscito poco di poi, ci accennò con la mano che si
fosse atteso un tantinetto. Rientrò, riuscì, tornò ad entrare e tornò a
riuscire non so quante decine di volte, accennandoci, sempre misteriosamente
che si dovesse attendere. Né v'era sedia o panca veruna dove poter sedere, ed
io già mi sentivo tutta venir meno. Onde suora Geltrude, non ne potendo ella
stessa più dalla noia, volse le spalle a quel servidorame, risoluta, che che ne
dovesse seguire, d'andarsi con Dio.
Non eravamo appena mosse, che
quell'usciere ci corse dietro, bisbigliando nell'orecchio a suora Geltrude, che
oramai sua eccellenza il duca già ci sapeva colà, e che bisognava attendere a
ogni modo. E mentre suora Geltrude gli poneva in considerazione che le religiose
non si tengono ad aspettare le ore intere agli usci né pure dalle grandissime
maestà, e ch'ella era ben ferma di partirsi, ed ecco sua eccellenza, quasi
avesse inteso il susurro e la causa di esso, dare una furiosa strappata di
campanello. L'usciere non ci consigliò più ma c'impose di rimanere; e, levando
le berze assai ridicolosamente, in meno che non balena, entrò, riuscì, aprì
ambo le imposte dell'uscio, e ci chiamò dentro.
Allora apparvero i penetrali di Priamo,
o più tosto apparve un'altra ampia sala, e sua eccellenza con un gran
latoclavo, con infiniti nastri, ricami e ciondoli rappresentanti o pianeti e
costellazioni celesti, o animali terrestri, o cose altre pellegrine. Sua
eccellenza era presso al muro destro della sala, che con un leggiadro
spazzolino di piume spolverava la cornice d'un gran quadro di Raffaello, e, per
conseguente, si trovò alquanto rivolto verso di noi, quando l'usciere ci mise
dentro. Ma noi non avevamo appena avuto il tempo d'inchinarci, quando sua
eccellenza, dilatatasi e rigonfiatasi un istante verso di noi, per tema forse
che noi non perdessimo alcun micolino di ciò che gli ornava la parte sinistra
del petto, senza credere convenevole di rispondere al nostro inchino, ci volse
in un attimo il suo pingue groppone.
Era nel fondo della sala una
gran tavola tonda ricoperta d'un bel drappo verde, ed accanto a quella sopra
una gran sedia d'appoggio era sdraiato un giovane di forse venticinque anni,
tutto vestito da cavalleggiere pollacco, con un morione o caschetto
quadrangolare in testa, da un lato del quale sorgeva un superbo pennacchio
bianco di penne di colomba, che pareva simbolo a un tempo di pace, d'innocenza
e di snellezza. Gli scendevano insino al petto due neri e lunghissimi mustacchi
alla cinese: i quali mentre si carezzava e palpava e allungava con la sinistra,
con la destra impugnava o più tosto palleggiava e percoteva a quando a quanto
in terra un'immensa scimitarra, che, non già nuda, ma nascosa in un largo
fodero d'acciaio, urtandosi in quello ad ogni scossa, pareva fremere della sua
ignobile prigionia. Ed alle percosse ed al fremito della scimitarra rispondendo
i colpi degli stivali e dei risonanti sproni contro la terra e contro le
spranghe di sotto della tavola, ne veniva tutto insieme un cotale strepito o
rimbombìo di guerra, che l'eco della capace volta fedelmente ripeteva.
Dall'altra parte della tavola, era un uomo di mezzana età, con assai libri e
carte innanzi a se sulla tavola, e una seggiola molto modesta di dietro, ma era
levato in piè, si vede perché sua eccellenza s'era levata. In conclusione,
questi era il segretario del duca, e l'altro il figliuolo, al quale il duca,
quando ci volse così amabilmente il tergo, disse ridendo, ma sforzandosi di
reprimere il riso per conservare il decoro ducale:
Duchino, ecco quella ragazza di
cui si rise tanto pochi dì sono con la duchessa e con la duchessina. Uh! Uh! Uh! Uh!
Cominciò a grugnire del riso il
duchino, pure guardandomi con certi occhi fra sciocchi e pazzi, e pure affaticando
della sciabla e degli sproni il pavimento e la tavola.
Uh! Uh! Uh!... ma
come è possibile!...
Seguitava spalancando
sghangheratamente la bocca, digrignando i denti, ritirando in dentro il labbro
di sopra, e sporgendo in fuori quel di sotto e il mento: moda di ridere che
poscia intesi avere il duchíno apparato dai droghieri inglesi, quando nei
teatri e nei giardini d'Italia vanno faccendo beffe degl'Italiani, che li
tollerano.
Poscia che lo sghignazzio del
duchino si fu alcun poco chetato, il duca passando dietro la seggiola del
figliuolo, andò ad assidersi alla gran sedia curule ch'era dietro la tavola,
nel mezzo, tra il duchino e il segretario. Quando sua eccellenza si fu seduta,
tossì, sornacchiò e sputò un gran farfallone in su un bel tappeto turco di
velluto cangiante ch'era disteso sul pavimento sotto la tavola, senza mai
degnare d'uno sguardo né suora Geltrude né molto meno me, volto al segretario,
disse:
Don Cristofano, vedete se il
numero delle alunne dell'opera è compito.
Don Cristofano squadernò un gran
libro; e veduto non so che in quello, e richiusolo, piegò le braccia e si volse
al duca in quella attitudine, io credo, che lo schiavo romano si rivolgeva al
suo padrone, dicendo:
Eccellenza si, è compito.
Dunque non ho che farvi, disse
il dica, a suora Geltrude, avendo sempre gli occhi raccolti in giù sulla
tavola. È mestieri ch'ella vada in convento. Né troppo me ne duole, a dirvela
fuor de' denti; perché di simile sorta canagliaccia non vorrei in alunnato.
Suora Geltrude volle umilmente
rispondere al duca. Ma sua eccellenza non aveva appena terminato di profferire
l'ultima sillaba, quando tutti gli uscieri, che avevamo veduti di fuori, i
quali, entrati nella sala appresso a noi, ci si erano di qua e di là schierati
intorno, divenuti tutti banditori:
Uscite, Uscite:
Gridarono con una voce così
orrendamente strepitosa, ch'io credo che ne tremasse Vicaria e Porta Capuana,
e, che tutte le madri stringessero al petto i loro figliuoli. E datoci subito
di piglio al lembo dei vestiti, e condotteci fuori poco meno che per forza, ci
serrarono l'uscio addosso che ancora quel gran tuono muggiva.
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