XXXVIII.
Non fu sonno quello ch'io
dormii, ma una certa sonnolenza o litargia di relassamento. E quale sonnolenza!
Il volgo ha sempre sulle labbra mille dettati e proverbii, che accennano di
felicità sognate da infelici. Ma io credo e so per esperienza che lo sventurato
sogna sventure; e che il fato, insieme col vero bene, gli dinega anche il
finto.
L'ora ch'io giacqui risupina su
quel duro paglione, io non sognai già gli accidenti della giornata, come il più
delle volte interviene. Ma non è in questo vero mondo che ci è dintorno, o in
quell'altro che ha vita solo nella fantasia degli uomini, nessuna o cosa o
ombra, o brutta o terribile, ch'io non sognassi quella notte. Cadaveri,
becchini, feretri, mortori, sepolture, scheletri che mi minacciavano, e, volendo
io gridare, m'imponevano silenzio accostando l'ossa del dito al cavo del
teschio, assassini coi pugnali nudi che m'erano sopra e già mi sgozzavano,
l'oceano furibondo in una notte caliginosa ed io sola sur un battello e intorno
a me mare e cielo da per tutto. Mi fu veduta alla fine una larva
squallidissima, ed avea le sembianze della massima fra le tre maliarde. Mi
s'appressava lenta e minacciosa da prima, ma quando mi fu vicino, aprì la bocca
per mordermi. Gli occhi si fecero fuoco e le uscirono della fronte, ed ella
ingigantendo, toccò la volta col capo che ripercosso tornò sul mio. Ed io volli
gridare e non potevo, e mi destai: e mi trovai sulla fronte il pugno della fida
ancella che mi dormiva a fianco.
Tu non ci lascerai dormire
persona stanotte, mi disse l'ancella, con cotesto tuo sordo gemito; che m'hai
già rotto il capo. E se vuoi piangere, piangi il giorno, e la notte farai bene
a farci dormire.
E levandosi a sedere sul letto,
io non so donde si togliesse quegli arnesi: ch'io le vidi, a una sola percossa
di fucile, trarre il fuoco della pietra, e accenderne l'esca e il zolfino, ed
all'ultimo un piccolo moccolino, che appiccò così com'era acceso all'estremità
del trespolo che le sporgeva da capo, e vi ripose accanto gli altri arnesi.
Come più tosto ci si potè vedere, mi fece un gran cipiglio adirato, e
sollevando quello straccio che le serviva di coltre, vi si asciugò il pugno
bagnato del freddissimo sudore onde tutta la fronte mi gocciolava. Di poi scese
nuda del letto, e grattandosi, anzi graffiandosi per tutta la persona in un
certo modo assai sconcio e plebeo, si gittò in dosso quello straccio; e tolto
di sotto il letto, ove, si vede, lo aveva preparato, un bicchieruolo di vetro
tutto rotto agli orli, nel cui fondo aveva qualche gocciolo d'olio, andò a
rifornire ed a riaccendere la lucerna.
Poscia che il mortifero incubo o
la villana percossa della donna m'ebbero destata, io non potetti più chiudere
le palpebre. L'ancella mi si ricoricò allato tuttavia borbottando; e il suo borbottìo,
e il passeggiare che facevano la grotta e i letti topi grossissimi, piattoloni
e lucertole verminare, e lo scrosciare dell'acqua che veniva giù a furia dalle
grondaie prossime al finestrucolo di quella prigione per una gran pioggia che
s'era messa, mi tennero desta tutto il rimanente della notte.
Non andò guari che un raggio di
luce si fu messo per quel foro ingraticolato di ferro, e cominciò a farmi la
rete sul lettuccio. Questo raggio di luce non m'arrecò speranza e salute, come
il dì dinanzi; ma disperazione e languore di morte. Versai qualche altra
lacrima, ma presto mi racchetai per debolezza estrema. Fino che non vidi la
luce del dì, non avendo tocco nulla di cibo da trentasei ore, sentii qualche
stimolo di fame. Ma il primo raggio che mi ferì gli occhi, m'estinse quello
stimolo, e non mi conoscendo più la forza di alzare un solo dito, né avendo
nessuna cagione di sperare la mia liberazione, mi risolsi di morirmi di fame.
Ed avendo non una volta udito dire, che chi si muore o di sua mano o per
qualunque altra operazione della sua propria volontà, cade fra le bocche di
Lucifero per giudizio inesorabile di Dio, che non consente che l'uomo repugni
all'ordinamento di Lui quando per suoi imperscrutabili fini destina alcun
mortale a una lunga agonia su questa terra; ne prendevo un grande spavento. E
nondimeno, acquetandomi nella mia assoluta impossibilità di poter vivere in
quelle eterne tenebre, fra quelle anime già in vita dannate, mi parve
finalmente che niente di peggio io avrei potuto mai trovare nel vero inferno. E
parte, non troppo buona loica, ignorando che non si può volere e pentere al
tempo stesso, mi confortavo di poter ottenere già prima di morire il perdono da
Dio della mia morte. E raccolte tutte le forze dell'anima mia nel profondo di me
stessa, e volta la mente a Dio, lo pregai con ferventi preci a rivolgere un
istante sopra di me il suo divino sguardo, ed a considerare se non gli paresse
che il calice della mia passione fosse già consumato. E perdonando con intensa
volontà a chiunque mi avesse fatto male sulla terra, ed a' miei ignoti
genitori, ed alle balie, ed alla donna di Sant'Anastasia, ed a donna
Mariantonia, ed al duca; di tutti i sentimenti amari ch'io conservava nel cuore
contro agli uomini feci olocausto a Dio in redenzione di quel peccato nel quale
avevo a cadere. E pregandolo, alla fine, ad aver misericordia dell'anima mia,
ed a riguardare con giusti occhi quella mia operazione, compostami con gravosa
pena sul letticciuolo, tutta mi disposi ad attendervi la morte, che non mi
pareva troppo lontana, tanto mi sentivo esausta e rifinita.
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