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Antonio Ranieri
Ginevra o L'orfana della Nunziata

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  • Parte Seconda
    • XL.
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XL.

 

Ma già sono io stessa troppo sazia di andarmi ravvolgendo fra tante e sì inaudite meschinità. Le quali s'io mi sono potuta risolvere a raccontarvi tutte così com'elle furono, io spero che prima Iddio e poscia voi, o padre, me ne avrete qualche conto nel ponderare la giusta espiazione delle mie colpe. Non è piccolo rinnegamento di se, né piccolo trionfo sopra l'orgoglio concreato dell'uomo, il raccontare tutta la verità d'una vita oscura e tribolata. Perché gli uomini, e leggendo e scrivendo, cercano il nobile e il maraviglioso, in fine, il poetico, ed abborrono sopra ogni cosa il prosaico; cioè, cercano l'ideale e il fantastico, in fine, il falso, ed abborrono sopra ogni cosa il vero. Questo annullerà sempre ogni utilità delle vite e delle memorie che altri scriverà di se stesso. Perché la vita è il vero, e il vero è prosa; e di Giovanni Iacopi ve ne fu un solo.

Per non moltiplicare in più parole, vi dirò brevemente che quelle vecchiarde, non già, come loro malamente è detto monache, perché non hanno fatta professione alcuna, ma in sostanza converse ovvero oblate, sono, per così dire, il rifiuto di molte generazioni d'uomini e di cose. Sono il rifiuto de' loro genitori, perché sono anch'esse degli esposti; sono il rifiuto di tutta quella canaglia, uomini e donne che vanno a torsi i bambini alla Nunziata per tutte le ragioni che già vi dissi; sono il rifiuto della Nunziata medesima, che le caccia nelle sue più fiere spelonche; e ultimamente sono il rifiuto di tutti i vecchi o giovani che per voto vengono a menarsi a moglie qualche fanciulla di quel convento. E così di rifiuto in rifiuto, pervenute a una età assai ben provetta, si offeriscono a Dio, che non sappiamo in quanto grado abbia la loro offerta, ma senza professare, e non desiderando nessun'altra cosa al mondo tanto, quanto l'occasione, qualunque ella sia, di cavarsi quella pezzuola di testa.

Tali essendo quelle suore, per vivere con un poco meno di disagio, s'industriano sottilissimamente di fare alcun negoziuccio; né avendo alle mani altra merce, che il mangiare o il dormire o il vederci delle fanciulle, trafficano, come meglio loro vien fatto, la lucerna, i paglioni e la minestra.

Pigliano, oltracciò, a lavorare, di calze o d'altro, da chi possono, e in vece di lavorar esse, fanno lavorare le fanciulle; cui quel pochettino che danno di fattura lo pagano in olio o in paglia o in ceci, o per meglio dire, fingono di pagarlo così ed in effetto non lo pagano. Perché ritenendo, in conto di quel nonnulla che somministrano giornalmente, i cinque grani per testa che l'ospizio paga a tutte le abitatrici di quella chiostra, si può dire francamente che né pure quei cinque grani li spendono tutti. Esse poi dalla gente di fuori riscuotono per la fattura quel ch'ella veramente vale, e se ne avvantaggiano di non poco.

Spesso non v'è da lavorare per tutte. Allora le mercatantesse danno da lavorare alle più svelte, e l'altre per quel grano il che non hanno da dar loro beccare di più, rodono quel tozzo, e si struggono, anzi si svengono di voglia alla vista e all'odore della fatale minestra, cui le arpie non consentono loro di approssimarsi.

Esercitano, in oltre, un'altra specie di onesto commercio: ed è il seguente. V'è alcuni santocci, che per ogni menomo accidente, per ogni più lieve malattia o qualunque vogliuzza si ficcano in capo di cavarsi, di subito si botano alla Beata Vergine, che se o quell'accidente si risolva nel modo che loro torna il meglio, o guariscano di quella malattia, o si cavino quella vogliuzza, di sposarsi una sua figliuola; che con questo bello e troppo poco osservato nome siamo noi altre esposte domandate. E come piuttosto, o quell'accidente è risoluto in loro pro, o sono risanati di quella malattia, o è loro venuto fatto di cavarsi quella vogliuzza, ecco traggono all'entrata di quella chiostra, e si raccomandano alle suore di scegliere loro la più bella fanciulla. Le suore patteggiano e vendono la futura bellezza delle costoro mogli; e in quello scambio, per serbarsi le meno brutte a migliore ventura, menano loro per l'ordinario le più orrende.

Io non so se dirvi o tacervi, che poco di poi il mio felicissimo arrivo, un io vedeva quelle suore entrare e riuscire non so quante volte dalla grotta eveio era, menandone sempre con loro qualcuna delle mie compagne, e poi tornando con quella, rimenarne via un'altra. E mentre piena di maraviglia non mi sapevo risolvere di quella novità, ed ecco la badessa in persona che con piglio meno arcigno del solito, mi prende per la mano e mi conduce presso all'entrata. Quivi era un brutto vecchiardo, piccolo, scrignuto e mal fatto, con un naso lungo un braccio, con due stecchi di gambe, e con un giubboncello assai ben sudicio indosso, e tutto orlato d'un nastro bianco, per segno del voto, com'è qui il costume. Per non allungarvela, questi era uno di quei cotali, e, dispregiato da molte, mostrandosi a vicenda di non facile contentatura, molte egli stesso ne dispregiò delle non brutte; ed alla fine, o per la mia nudità che me lo facesse pietoso, o ch'io avessi la sventura di sembrargli bella, scelse me, avvicinandomisi protervamente, e volendomi già accarezzare come sua moglie. Io mi messi a gridare come se il diavolo m'avesse brancata, e la badessa mi teneva forte ghermita; e credo che m'avrebbe senz'altro sacrificata, se quell'opera di sposare quel ceffo si fosse potuta condurre senza l'intesa di tutto l'ospizio e del duca stesso. Ultimamente a finalissima pena me ne sciolsi, e fuggendo alle mie compagne, e raccontando loro il caso; ebbi da loro, che quegli era un lordo vecchio che s'era botato di sposarsi una di noi, se mai, sudo a dirlo, fosse guerito d'una cavernosa fistola ch'avea non so dove.

 

 




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