XLII.
I rei e lordi costumi di quelle
bolgie erano stati ab antico cagione, che, per legge immutabile dell'ospizio, le
maestre e le discepole di esse non potessero avere commercio di sorte alcuna
col resto della comunità! Questa legge io imparai ben presto, per avere, insino
dai primi dì, chiesto indarno per grazia alla badessa di vedere una volta sola
suora Geltrude. Laonde, quando la rividi, e vidi gli occhi suoi soffermarsi
sulle gelosie che me le celavano, m'indovinai tutto il desiderio che l'era
rimasto di me, dopo il materno amore che m'avea posto.
Quando la messa finì, la nostra
aguzzina, se mi consentite il nuovo vocabolo, c'impose a tutte di tornar via.
Io mandai l'ultimo sguardo a suora Geltrude, che, all'ite missa est,
levò di nuovo l'occhio alle gelosie, e li rabbassò all'immagine; e il loro
girarsi mi parve l'iride della speranza.
Ritornando alle spelonche io tremava tutta, e le gambe
negavano il loro ministero. Mi soffermava ad ogn'istante, levando il mento in
su a guisa d'orba, cercando, come sciogliendomi da un sogno, l'immagine di
suora Geltrude che ancora mi tremolava negli occhi. Ma un ceffone dell'aguzzina
mi distolse con la sua realtà da tutte le mie immaginazioni: perché io m'era
dimenticata di dirvi, che, nella scuola ov'io era, gli ammaestramenti o
qualunque sorta di ammonizioni, per instituto, non si davano con la parola o
con la voce, ma o con pugni, calci, schiaffi, sgrugnoni e simiglianti, o
veramente con certi scurisci o ferze che le suore avevano sempre in pronto
accomodati a quell'opera per maggiore utilità delle scolare.
Era il dì delle ceneri dell'anno
ventidue, quando io ebbi quella celeste visione, che tale veramente m'apparve.
Durante tutta la state io aveva sofferto un tal caldo, un tal sito, un tal
soffocamento in quegli antri, e, per quanto mi sforzassi di tenermi netta e di
pagare col solo nutrimento che m'avanzava un poco d'acqua fresca, che non se ne
poteva mai avere, io era stata infetta e morsa da tante maniere di luridi e
fastidiosissimi insetti, che, a raccontarvi il tutto, mi parrebbe quasi di
destarvi troppo sozzi pensieri, e d'abusare troppo dell'amorevole pazienza che
m'avete promessa. E non una volta mi sovrastò la morte da certe impetuosissime
correnti di sangue. Sopraggiunse l'inverno, e mi trovò senza calze, con quei
zoccoli e quella sottana e la camicia; cose tutte che mi sarebbero state
medesimamente arraffate, se, a tormele, io non ne fossi rimasta nuda nata. E
indozzando e marcendo ogni dì più in quelle più tosto cisterne che abitazioni a
uso umano, mi sottentrò un'altra sorte di soffocamenti di spietatissimi catarri
e di scese alla testa spaventevoli. Verso la fine del gennaio mi era
soprappresa una specie di paralisia o di tremito per tutta la persona, per il
quale a grande stento potevo soccorrere alle più urgenti necessità della vita;
e spesso avevo così impedita la mano destra, che quel tozzo di pane ero
necessitata di accostarlo alla bocca con la sinistra. Finalmente, tra la gioia
e il dolore, io mi fui così violentemente scossa e rimescolata alla vista di
suora Geltrude, che, conducendomi a stento in quel mio purgatorio, mi assalì
una fierissima febbre.
Io stetti ventuno giorno in un
quasi continuo delirio; né conservo memoria veruna di quello ch'io facessi o
dicessi, o che altri facesse di me. Solo mi rammento che tutte quelle ridicole
a un tempo e spaventose favole, delle quali un'educazione plebea suole riempire
la misera testa dei fanciulli, tutte, non già più come favole, ma come veri e
materiali tormenti, mi fecero assaggiare l'inferno sulla terra durante tutto
quel lunghissimo delirio. Lascio stare i diavoli con le ali di pipistrelli, con
le zanne di cinghiali, con la coda, con le corna, coi piedi d'avvoltoio, con le
branche di sparviere, con gli uncini fra le branche, che chi m'artigliava e
fendeva il petto, chi m'uncinava per la gola, chi m'arroncigliava le chiome,
che ora si nascondevano tutti sotto il letto, ora ne riuscivano gittando fuoco
dalla bocca e dalle corna. Ma io mi credetti veramente più volte in inferno,
ora passeggiando, ora nuotando, ora giacendo in un oceano di fuoco; e vidi
Lucifero così orrendamente brutto, come mai immaginazione seppe immaginarlo,
che mi dannava eternamente a quel fuoco, e che mi mostrava per mio padre un
diavolo, per mia madre una diavolessa, e per miei fratelli molti diavolettini.
E quel fuoco io non lo vedeva solo e toccava, ma lo sentiva, e n'era
atrocissimamente cotta e bruciata.
E questa era l'ardentissima
febbre, che non m'uccise, io non so perché; ma dopo il ventunesimo dì di
estuazione e di bollimento più che infernale, io me ne rimasi libera, ma con
una stupefazione nel cerebro che parecchi dì mi tenne stordita. Poi cessò anche
lo stordimento, e, quel che forse vi parrà strano, o padre, allora fui
veramente infelice. Allora compresi la grandezza del male che aveva avuto, e la
nullità delle forze che mi avanzavano per sopportare la mia miseria, e
l'impossibilità di racquistarle. Allora compresi d'essere rimasta per soprappiù
sulla terra, e quanto m'era sembrato dolce la convalescenza fra le carezze e i
baci di suora Geltrude, tanto mi sembrò allora, e la tenni poi sempre, la più
terribile delle malattie.
|