XLIV.
Già tutto era chetato, e già non
si udiva più uno zitto nella sala, quando i due gendarmi ch'aveano attraversati
gli schioppi all'uscio, li dirizzarono. Ecco entra un figura, della quale io non
aveva ancora veduta la somigliante, e che a un tratto mi fece un'impressione
fra ridicola e spaventosa. Io vidi un vecchio altissimo, ma di assai verde e
pettoruta vecchiezza, avere in sul capo non già i capelli a uso umano, ma una
foltissima chioma da leone, tutta irsuta e riccia, che avendo la sua
dirizzatura dal mezzo della fronte, gli si sciorinava, sempre più crespa e
rilevata, per gli omeri, per le braccia, per le mani insino ad oltre i
ginocchi, dove si disperdeva nella sua medesima ampiezza. Questa chioma era
d'un certo colore scialbo, e pioveva intorno intorno un nembo bianchissimo,
tanto, ch'io, che non ancora avevo notizia dell'amido, lo presi per di farina.
Trionfava di quel portentoso capellizio un rigoglioso e sperticato nasone, la
cui maestà annullava l'effetto pittoresco delle guance solide e paffute, del
mento tronfio e rotondo a un tempo, e della gran pappagorgia che gli pendeva al
di sotto del mento, come i bargigli al gallo o la giogaia al bue. E ultimamente
di sotto alla pappagorgia eran sospese in forma di collare due come ampie liste
o facciuole di tela bianca, tutte ben distese e incartate. Lo seguitava
immediate un'altra figura tutta medisamente abbigliata, e del naso e delle
guancie e del mento e della pappagorgia così simile alla prima, che a un tratto
avresti detto ch'eran gemelli; ma l'età, la complessione e la statura, che nel
secondo erano mezzane, tosto ti chiarivano ch'essi erano, come erano veramente
padre e figliuolo. Terzo fra cotanta nasevolissima nasaggine era un nasoncello
(che veramente il naso solo appariva dal bel principio) d'un non già uomo ma
omicciuolo, anzi più tosto nano o albino o samoiedo: e quanto d'età, e di
statura, e di complessione si diversificava il primo dal secondo, tanto il
secondo si diversificava da costui, ch'era, e par maraviglia a dire, il figlio
del figliuolo di quel primo. Quando lessi la storia romana, così m'immaginai
che i Potizii o i Pinarii procedessero all'ara d'Ercole, come quella nuova
gerarchia procedevano in quel camerone.
S'avanzavano lentamente, non
guardando nulla di ciò che si parava loro dinanzi, né le mura, né i letti, né
pure lo smalto, che talora, incespicando, li faceva avvertiti di se per la sua
diseguaglianza. Ma tenevano gli occhi raccolti, o più tosto spensierati in un certo
modo strano e non dicibile, e che credo che sia proprio di cotesti
sentenziatori di ladri, di falsari, di micidiali e d'ogni sorta parricidi. In
conclusione, padre mio, il genitore era un certo presidente di non so qual
altissimo magistrato; ed i figliuoli due giudici del magistrato medesimo,
eletti a quell'ufficio per favore di esso genitore, ch'essendo un barbassoro di
gran possanza, aveva fatta della sua casa una grand'arca di giudici. Ed ora,
per una special fiducia che quel magistrato aveva, o mostrava d'avere, in
quella schiatta, padre, figliuolo e nepote venivano quivi come fiscali.
Quarto, ma a ineguale distanza
da questi tre, entrò finalmente il duca, addobbato in quel modo che si addiceva
a un tal quartiato, ed appresso a lui il duchino, abbigliato al solito, con una
giovane tutta in gala a braccio, che credo fosse la duchessina; ed accosto
accosto alla duchessina due altri di quegli incruenti pollacchi: i quali,
vezzeggiando ora la duchessina, piena anch'essa di lezi e di moine, ed ora i
loro propri mustacchi, ridevano con lei e col duchino dei tre messeri che
procedevano dinanzi, e, se Dio m'aiuti, anche del duca genitore.
I tre baccalari presero la via
del finestrello, e quando il primo vi fu da presso, quasi la sua testa superava
il parapetto di quello ch'era altissimo. Allora il duchino, a quella sua foggia
inglese, che mi parve d'averlo visto pur ieri, cominciò a sganasciare delle
risa con la duchessina e coi due apparenti pollacchi, bisbigliando loro
pianamente, ma, non sì ch'io non l'udissi, che se non fosse stato il padre, che
a lui sarebbe bastato il cuore, spiccandosi d'un salto sul capo del terzo
giudice (ch'era primo verso di lui che veniva dietro), montare su quello del
secondo e insino sulla gran capelliera del presidente, e, mostratosi al popolo
dal finestrello, ricalare di parrucca in parrucca per la medesima scala. La
duchessina e i pollacchi già crepavano della voglia del ridere, tutti ammirando
i graziosi e leggiadri sali del duchino. Ma il primo baccalare, gia pervenuto
al finestrello, si volse a quello benché sordo scroscio del duchino, e queglino
si sforzarono di reprimere quanto poterono la loro troppo vivida gaiezza.
Durante tutti gli undici mesi
ch'io era dimorata in quel purgatorio, avevo sempre udito dire che in quel
solenne dì, a quella solenne visitazione, era mestieri di piangere e di
lamentarsi, chi fra quelle tribolate avesse avuto a far querela d'alcuno torto.
Veramente io aveva perduto insino quel modello che par che la natura ci
scolpisca a tutti nel cuore; né sapeva più indovinarmi che cosa fosse il torto
al mondo, e che cosa il diritto. Perché l'uomo, quando perviene a toccare
l'ultimo fondo della servitù, non solo perde il senso intimo di ciò che gli
altri uomini gli debbono come uomo, ma si conduce insino a credere ch'egli si
debba tutto di ragione a colui che gli comanda.
Avendomi, dunque, l'immensità
stessa della mia miseria condotta in tali termini, ch'io non trovava più di che
querelarmi, ero ancora trattenuta dall'inutile piagnisteo ch'io aveva veduto
fare alle mie compagne, senza che quei fiscali volgessero pure gli occhi. E
nondimeno l'aspetto del duca e del duchino mi rammentò la grandezza delle
oppressioni che si commettono sotto il sole, e sgorgandomi naturalmente dagli
occhi un poco più lacrime che per l'ordinario, come più tosto il presidente,
pervenuto al finestrello, si volse per tornar via, ruppi involontariamente in
un disperato lamento prostendendo, senza quasi avvedermene, ambo le mani. E un
fiero ascesso venutomi infra gli arti per isfogo della febbre sul dorso della
mano destra, per essermi stato fortemente premuto in quel trambusto del popolo,
rimasto in gran parte scoperto delle rozze fasciuole con che me l'avevan legato
e tutto esulcerato, quasi mostrava nudo i nervi e l'osso, e gocciolava un sangue
nero grumoso, che a me medesima faceva ribrezzo.
Io non vi dirò già che il
presidente si volse al mio doloroso lamento, o alla mia piaga, perché veramente
non si volse per questo. Ma, acciocché la mia narrazione vi sia chiara, è
mestieri ch'io vi narri prima quello ch'io seppi dappoi.
Una figliuola del presidente era
stata allevata nel monastero di Regina Coeli, ed amava tanto suora Geltrude,
che non aveva alcun bene se non quanto la vedeva. Questa figliuola era
amatissima dalla sua madre, e parmi inutile di dirvi, che pregata da suora
Geltrude, di disporre il suo padre in mio favore, ella si raccomandò alla mamma
acciocché l'aiutasse a quell'opera di pietà; ed entrambe insieme tanto vennero
più l'un dì che l'altro supplicando e scongiurando il presidente, che,
bench'egli fosse uomo di natura superbissimo e rotto, pure finalmente promise
loro, che il dì dell'Annunziazione avrebbe interceduto per me appresso il duca,
acciocché da quelle mortali caverne io fossi, almeno come malata, trasferita
nell'infermeria dell'alunnato.
Io non ho nessun dubbio che il
presidente aveva già dimenticata la sua promessa; tanto mi parve scarico ed
astratto mentre passeggiava quelle grotte. Ma riscoso dal mio lamento, che per
verità era assai differente da quello delle altre, mi guardò un istante con
viso più tosto umano, dico quanto è possibile a un presidente, e mi domandò
della mia condizione. E cominciandogli io dal profondo delle mie viscere, e
interrotta da un angoscioso affanno, a parlare alcune fioche parole, com'io era
stata esposta appena nata, e come consegnata due volte a gente strania e
feroce, e come da un ribaldo cuoco ricacciata e fracassata nella buca, egli
rompendomi la parola in bocca:
Abbiamo capito, mi disse. E
volto al duca, che già soffermatosi, ricordevole forse della sua crudeltà, mi
guardava con un certo piglio fra noiato e spregiante:
Duca, gli disse, non vi
parrebb'egli, per avventura, che questa giovane stesse meglio nell'infermeria
dell'alunnato?
Allora vid'io quanto è mai
sterminatissima la viltà degli uomini. Perché, acciocché voi sappiate, quel
baccalare del presidente era persona assai potente nella corte per assai
ragioni che saria lungo a dirvi, ed era tale che troppo mal comportava coloro
che osavano non fare della sua voglia la loro. E il duca, ch'aveva fatto di me
quello strazio che sapete, e che, per una sua naturale malvagità, aveva come
messo l'onor suo in fare che io non uscissi mai da quelle prigioni, percosso
prima dall'improvvisa proposta, tacque alcun istante, e subito di poi raccolto
l'animo, con viso lietissimo s'accostò a lisciarmi ed a carezzarmi; e
rispondendo pieno di urbanità e d'amorevolezza al presidente, che quella era
troppo piccola cosa, e che dovea spenderlo in cose maggiori, chiamò di presente
que' due medesimi uscieri che mi avevano condotta colà, e ordinò loro, con
grande ammirazione di tutti, ch'io fossi quel dì medesimo tramutata da quivi
nell'infermeria dell'alunnato.
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