XLVI.
Riapersi gli occhi in quelli di
suora Geltrude, che mi attendeva all'entrata dell'alunnato. Quand'ella mi vide,
fece involontariamente un certo atto di dolorosa maraviglia, dal quale mi parve
intendere ch'ella prendesse dello stato mio un orrore assai più grande, che già
non prese quella prima notte che mi raccolse moribonda d'in sulla ruota.
Riavutasi prestamente dalla sua maraviglia, ella corse a baciarmi e ad
abbracciarmi, ed io sentii come se un ferro aspro e tagliente m'avesse
stritolato il cuore, e versai un altro fiume di lacrime da questi occhi, che,
dopo tanto piangere, io giudicava seccati in sempiterno. Se dunque quel che si
chiama male è dolore e ci sforza alle lacrime, e quel che si chiama bene anche
è dolore ed anche ci sforza alle lacrime, chi fu mai il primo stolto che
inventò la parola piacere sulla terra?
L'alunnato prende tutto il primo
piano del magnifico edifizio del quale vi ragionai. In compagnia di suora
Geltrude, che mai non distaccò la mano dalla mia, io fui condotta dalla prima e
superba sala in una seconda a destra, e quindi, per assai altre, nell'ultima,
ch'era l'infermeria. Questa era assai ben allegra e spaziosa; non però tanto,
che non vi si potesse godere dentro quella specie di raccoglimento, quel non so
che di confortativo e di casalingo, tanto difficile a trovarsi in questa città,
vaga, come sapete, assai più della via di Toledo, di cui anche il nome è
servaggio, che degl'inestimabili e liberi e schietti piaceri domestici. Quivi
in poco d'ora io potetti obbliare compiutamente il convento; e mi parve
d'essere stata, come per miracolo, trasportata dagli angeli del Signore, non in
un'altra città, non in un'altra parte della terra, ma in un altro pianeta.
Appena i facchini ebbero posta
in terra la barella, suora Geltrude e un'altra monaca, ch'era già nella stanza
e che mi parve la medesima che già quella nefaria notte l'aveva aiutata allo
stesso ufficio, mi sollevarono sulle loro braccia, e mi riposero sopra un
canapé, così com'ero rinvolta in quel coltrone. I facchini, passata la
materassa dalla barella sopra un lettino, furono pagati ed accommiatati; e
suora Geltrude con la sua compagna, che le dicevano suora Giustina, aiutate
ancora da altre suore che ministravano intorno, mi tolsero soavemente quel
cencio di quella camicia ch'avevo indosso e lo mandarono ad abbruciare. E
nettomi, quanto lo stato mio lo consentiva, il molto fastidio che avevo per la
persona, mi ravviarono e rannodarono dolcemente i capelli, e mi vi misero su
una cuffia che m'incresparono mollemente con due piccole benderelle. E finalmente
fasciatemi con fasciature di lino le posteme onde mi marciva in più luoghi la
persona, massime quella piaga orribile che minacciava di rodermi la mano, mi
misero indosso una camicia lina di bucato, e m'assettarono in un molto
ragionevole lettino, dove sopra due coltrici di lana erano le lenzuola line
bianchissime, e due guanciali con le federe medesimamente line, e una bella
coltre di dobletto. Una conversa, ch'era anche francese, mi recò spacciatamente
una tazza di buon brodo; e durante tutto quel dì io ne fui, ad ogni ora,
ristorata di una tazza.
In quel mezzo suora Geltrude
aveva provveduto che per una conversa fosse domandata licenza al duca di poter
mandare per un cerusico. E non appena la conversa era partita con l'imbasciata,
che s'imbatté con uno di quegli uscieri, il quale mandato appostatamente dal
duca, veniva a pregare per parte di lui suora Geltrude, che, per qualuque cosa
concernesse me, egli intendeva di trasfondere in lei ogni sua autorità, e che
avea comandato a tutti gli ufficiali di obbedirle in ciò come a un altro se
stesso. Suora Geltrude sorrise il riso che i generosi sorridono alla viltà dei
vili. Pure, rendute urbanamente le convenevoli grazie al duca, pregò l'usciere
d'andare per il cerusico. L'usciere non ebbe mestieri di molti prieghi a
correre di volo; e poco di poi ci fu significato l'arrivo del cerusico.
Questi, la Dio mercè, era una persona di senno; e mai non m'uscirà della mente la sua amorevole
presenza. Era un uomo di forse cinquant'anni, di vista corta e caliginosa, ma
di quella caligine che annunzia l'ingegno e il lungo studio; era di Monteleone,
e gli dicevano Niccolò, e per semplicità di costume parlava quel suo dialetto
nativo non ingiocondo sulle sue labbra, ove sonava cordialità e fiducia di se
stesso. E sedendomisi accanto al letto, e con quella sua grossa e buona voce, e
con un sorriso che pareva la probità stessa, confortandomi a stare di buona
voglia, non m'aveva ancora slegata la piaga, ed a me già pareva ch'ella
cominciasse a guarire. La sciolse, la medicò e la rilegò con un garbo e una
pianezza ch'era tutta sua, ed in pochi giorni m'ebbe risanata, anzi ridonata la
mano, anzi tutta me stessa, che tornai liscia e lustra, come la serpe che si
rinnuova a primavera. L'ultima volta ch'egli venne, suora Geltrude volle dargli
della sua immensa gratitudine qualche lieve pegno, ch'egli, come pagato
dall'ospizio, rifiutò con una naturalezza, che mostrava il nessuno sforzo che
quel rifiuto gli costava. Quest'uomo vive ancora, perché, per entro la gelosia
di questa mia misera celletta, lo vidi pochi dì sono ch'entrava tutto pio nella
chiesa. O onore della specie umana, anzi, più che uomo, angelo di consolazione!
Io ti vidi, e non potetti caderti ginocchioni ai piedi, ed abbracciare le tua
ginocchia, e bagnarle delle mie lacrime, e adorarti come la virtù stessa, come
la più certa rivelazione del tuo divino Fattore!
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