LIII.
Io aveva creduto insino allora,
che la terra e il genere umano fossero Napoli e i Napoletani; che gli ordini
più sublimi di questo genere umano fossero quei feroci della fonte Capuana e
dell'orto Botanico, e quei gendarmi del convento; e che la meta finale a cui
questo genere umano intendesse, fossero certi saporitissimi desinari, e certe
appetitivissime cenette, che, con eloquenza senza pari al mondo, que' miei
eruditissimi studenti ragionavano sempre fra loro solersi dalla gente scelta
fare qui alle lune estive, ponendo le tavole o in una bella contrada marina
detta Santa Lucia, o in un'altra spiaggia deliziosissima detta Posilipo.
Il restante di quel libro mi
dimostrò, che Napoli era un punto di una piccola contrada detta Italia; che
quest'Italia era un punto d'un'altra piccola contrada detta Europa; e che
questa Europa era un punto fra l'immensità degli altri sterminati continenti, e
dello sterminatissimo oceano che la circonda. Mi dimostrò che i Napoletani
erano al genere umano meno di quello che una sporticciuola di pesciolini è a
tutti i pesci dell'oceano. Mi dimostrò che quegli ordini che io aveva creduti
soli al mondo di fatto e di bontà, erano un aborto né pure menomamente
considerabile nella lunghezza de' tempi e nella infinità e bontà degli ordini
con che il genere umano si è retto e si regge. E mi dimostrò ultimamente che la
meta finale del genere umano, non erano, o certo non dovevano essere, i
desinari e le cene di Posilipo e di Santa Lucia, ma la minore infelicità, e il
maggior perfezionamento morale di tutti gli uomini.
Così si concludeva quel libro, o
almeno così io me lo conclusi. E questa terra, che m'era apparsa un punto alla
fine del primo trattatello, m'apparve immensa, interminata, alla fine del
rimanente del libro. I tempi delle sue memorie, che mi erano spariti
nell'infinito, m'apparvero della più profonda e remotissima antichità. E dal
mio letticciuolo, anzi dall'Europa, dal vecchio mondo mi lanciai di volo per
l'Atlantico sul nuovo, e vidi la metà del genere umano sgozzata e interamente
distrutta da qualche rimasuglio, di cui una piccola parte dell'altra metà, detta
Europei, s'è voluta sgravare. E torcendo lo sguardo disdegnosa da tanta
immanità, seguitai il mio volo per l'immensità del Pacifico, e fermai l'occhio
sopra un piccolo paradiso che vi sorgeva, e si chiamava Otaiti, e quivi vid'io
approdare una fiera nave, e portarvi nel suo grembo necessità, colpe e sciagure
ignote. E involandomi da così disonesta fortuna, m'apparvero i lidi orientali
dell'Asia, e vidi la cuna delle prime memorie della civiltà, anzi del globo, e
un impero d'incredibile vastità che in vano innalza un muro di mille e mille
leghe contra le umane belve erranti dell'Orsa, che due volte lo straziano e lo
fanno schiavo; e vidi un altro impero, che già empì la terra del suo suono, cui
non fu arme o sostegno alla fatale rovina il doppio corno della luna. E mentre
seguo sull'Africa la traccia della sua rovina, rivedo stupefatta quel
rimasuglio d'Europei, che, non contento d'avere distrutta la metà del genere
umano, chiamandoli non uomini ma scimmie parlanti, compra con l'oro rubato a
quelli l'altro terzo degli uomini che avanzavano, e se ne serve e gli ammazza
come bestie, solo perché il colore di questo terzo degli uomini è diverso da
quello di esso rimasuglio. Volgo lo sguardo inorridita dalla riapparsa
schiavitù, ch'io credetti che Gesù Cristo avesse abolita dalla terra, e ritorno
all'Europa, e la veggo tutta lieta aggravarsi vilmente in sullo scempio della
più piccola ma più bella sua parte, per bassa voluttà di vendetta d'essere già
tutta poco fa stata una delle provincie di questa sua piccola parte. Quivi, al
suono delle catene e del dolore, riconobbi la mia patria, e discesi dal mio
immenso volo, e, discendendo, vidi anche quivi il vicino fastidire il vicino
povero e le fortune afflitte, ed il migliore gemere sempre. E rimasi stupefatta
che questa razza caucasea, sola dotata dalla natura del dono d'arrossire, non
arrossisse di tanta sua infamia.
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