LIV.
Quella geografia non era una
scarna noverazione di paesi e di città, ma era una descrizione, anzi una storia
ordinata e sugosa della figurazione materiale di tutto il globo in generale, e
delle varie contrade in particolare; una storia delle varie razze del genere
umano, de' vari popoli di ciascuna di esse, delle varie trasmigrazioni, de'
vari reggimenti e de' vari costumi di questi popoli nei vari tempi; di modo
che, come per via di magico incantesimo, io mangiava, dormiva, parlava,
passeggiava, viveva, in fine, con qual si fosse il popolo antico o moderno del
quale leggeva la descrizione. Ora volavo alla corsa dietro un ignoto amante
nelle più belle foreste americane, e poi gli spiravo nel seno, ed egli mi
seppelliva alla bocca d'una spelonca, e poi in sull'aurora veniva sul mio
sepolcro, e v'attendeva il sole genuflesso, e l'adorava, e ne invocava un
raggio di luce che penetrasse insino alla mia salma gelata. Ora, colà in riva
al Bosforo, fra i profumi e le gemme orientali, nuotavo con le spose di mio
marito in più camere di marmo piene insino al mio seno d'acqua tepida e
odorata; e contemplandomi tutta, e poi contemplando a parte a parte le mie
ignude rivali, o inorgoglivo della mia bellezza o mi sdegnavo della loro, e
sempre le odiavo quanto si può più odiare. Ora, nella petrosa Arabia, assisa su
un cammello e tutta carica di gomme odorate, seguivo fra il mare del deserto il
mio svelto e barbuto marito che guidava l'armento, e, fissi gli occhi in quel
cielo trasparente, o ne noveravo quasi ad una ad una le innumerabili stelle, o
contemplavo i misteri della luna, all'armonia celeste d'un mestissimo canto che
il mio sposo le inviava; e quel canto era tanto più che umano, che solo poscia
ne trovai la versione nei canti del Leopardi. Ora nell'India saltavo sul rogo
acceso al mio spento marito, e n'abbracciavo la fredda spoglia, e più tosto che
perdere la barbarica lode, m'incenerivo viva fra le fiamme. Ora appiedi del
Caucaso mi strappavo spietatamente la destra mammella, e saltavo sul feroce
destriero, e sguainata la spada, correvo i campi fulminando, e verginella osavo
combattere gli uomini. Ed ora in Roma, non più verginella ma donna, al padre
mio condannato a perire di fame, porgevo di cupa notte il mio seno lattante fra
i cancelli del carcere, e lo nutrivo lungamente del mio latte, e il popolo,
stupido prima dell'occulto e poscia del palese miracolo, mi concedeva la cara
vita ch'io ne implorava.
Erano, io credo, cinquanta dì
ch'io aveva quel libro fra le mani; e mai non me ne poteva distaccare. Lo lessi
e rilessi e tornai a leggere non so quante volte; corsi non so quante volte il
mondo antico e l'odierno; e quante più cose potetti, dedussi e figurai col mio
pensiero dalle premesse di quel libro. Ma tutto è finito ed ha un termine nel
mondo; ed anche il numero delle premesse contenute in quel libro e il numero
delle conseguenze ch'io potetti ricavarne, fu finito ed ebbe un termine. Mi
risolsi alla fine di renderlo a suora Geltrude; e persuasa, ch'io aveva
piantato il piede sulla base dello scibile umano, e che qualunque altro libro
io avessi letto non poteva altro essere che un corollario del già letto, lo
rendetti un dì fra lieta e pensierosa a suora Geltrude, dicendole non so che
(tanto ero astratta che non me ne rammento), dond'ella comprese, bench'io
ignorassi allora i termini propri, o più tosto indovinò, ch'io m'attendeva e
desiderava libri di storie e di viaggi. E ritogliendo il libro, e riaprendo e
tirando fuori la cassetta del cassettone, e riponendo il libro nel voto onde fu
tolto, benignamente sorridendo mi disse:
Tu non prenderai già altro libro
che quello che per fortuna di sito seguita immediate a questo.
E togliendo due bei volumi quasi
della forma medesima di quell'altro, porgendomeli mi disse:
Impara, o figliuola, che alla
mente umana bisogna aggiunger piombo, non ali.
Ed accommiatandomi, si ritirò in
quel suo gabinetto.
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