LXIII.
Poco di poi la levata del sole,
l'usciuolo fu aperto da que' due uscieri del duca che già sei anni prima
m'avevano accompagnata a registrare nel libro de' passati per ruota, a marchiare
e poi al convento, ed io maravigliai grandemente l'immortalità dei carnefici.
Costoro erano seguiti da un uomo macro e lungo, con un giubbone di seta e un
panciotto a falde pendenti, e i calzoni corti insino al ginocchio, e le calze
di seta e le scarpe con grandi fibbie d'argento, e tutto nero come una
piattola, salvo la goletta con le sue facciuole ch'era bianca, e con una gran
parrucca tutta piena d'amido e coduta, nobile somiglianza che l'uomo volle
avere al quadrupede. Ed era tale in fine, qual io non avrei mai creduto di
dover vedere effettivamente nessun uomo, e quali appresso a poco m'erano
apparse certe figurine ch'io aveva viste altra volta, rappresentanti i
cortigiani di Luigi decimoquinto di Francia, quando, incanutendosegli e
guastando la chioma troppo frescamente, gli comparvero, ultimo esempio di
schiavitù, in quella foggia, che assai ben celava la disonestà del capo reale;
e tutta Europa e insino America fu coverta di parrucche e di code. A costui
seguitavano due altre figure poco differenti da lui, e suora Giustina
all'ultimo, in atto assai mesto e dimesso, e come dolente di quello che
seguiva; alla quale s'accompagnava un giovane di forse trent'anni, che, solo a
vederlo, lo avresti detto avvocato, sì luccicanti occhiali aveva agli occhi,
tanto ciarlava, così spiccava le parole e così disonestamente gesteggiava con
le mani.
Questi, adunque, era un
avvocato, e propriamente l'avvocato salariato a vettura dal duca, e quell'altro
un notaio, e quegli altri due, due testimoni. I quali tutti, per ordine del
duca, venivano in visita ad apporre i suggelli ed a fare inventari e cose altre
delle masserizie state di suora Geltrude, come devolute di legge all'ospizio. E
venivano in compagnia di suora Giustina, che, per diritto d'anzianità, era succeduta
di fatto a suora Geltrude in quella specie di precedenza nell'alunnato; ma non
si trovava d'essere né tanto benivogliente di me, né stata nel convento di
Regina Coeli educatrice della figliuola del barbassoro.
Quand'io intesi la causa di
quella comparsa, non mi calse troppo dell'altre masserizie, che pure avrei
desiderate di serbare tutta la vita come si serbano le memorie carissime; ma
dei libri non potevo sostenere solamente il pensiero che mi fossero rubati. E
sapevo troppo bene che, già assai prima d'infermare, suora Geltrude n'aveva
distesa tutta di sua mano una scritta di queste che chiamano testamenti
olografi, nel quale dichiarava formalmente che, salvo quel che di legge
ricadeva al suo proprio convento di Regina Coeli, il restante e particolarmente
i libri, non voleva averli lasciati ad altri che a me. Onde tutta accesa d'uno
sdegno che il lungo digiuno rendeva più acerbo, significai a quegli avvoltoi di
corte, che suora Geltrude aveva fatta erede me della sua robicciuola, e che del
resto poco montava, ma dei libri non volevo lasciar toccare un solo a persona
del mondo.
Il notaio fu il primo a
sorridere, aggrottando le ciglia in un certo modo, come chi in difesa del
forte, fa beffe del debole che troppo presume del suo buon diritto. E
invitandomi, fra grave ridente e cortese, ad uscire del gabinetto, e
cominciando ad aprire il cassetto della tavola che quivi era, e gli armadi, e
ogni altra cosa, frugò e rovistò per tutto, mentre quelle due sue anime dannate
notavano quel ch'egli dettava; e finalmente venne fuori il testamento, che il
notaio lesse ad alta voce ridendo. L'avvocato, o che così veramente credesse, o
che tale fosse l'accordo già innanzi preso, dichiarò che quello era caso da
duca; ed essendo già assai ben tardi, gli uscieri corsero a chiamarlo, ed egli
venne col codazzo di due segretari, che mi parve che non gli si fosse torto un
capello in testa dal dì che lo vidi la prima volta, tanto somigliava se stesso.
E poiché il duca fu venuto,
tutti gli fecer piazza, ed ei passando ed inclinando il capo in qua e in là,
come chi è avvezzo ad essere sempre salutato, s'assise alla sedia d'appoggio
nel gabinetto, e in sedendo, gittato così un certo sospiro di soddisfazione di
se medesimo, disse:
Signori miei, eccomi qua.
L'avvocato e il notaio gli sedettero
incontro sopra due seggiole ch'erano nel gabinetto. Io, che non era mai voluta
uscire a malgrado dei replicati inviti del notaio, rimasi confitta in uno de'
due estremi cantucci del gabinetto, suora Giustina s'assise quasi sotto
l'architrave dell'uscio a un'altra seggiola che si fece portare, e i due
segretari, i due testimoni e i due uscieri s'acconciarono come poterono.
L'avvocato, sputato ch'ebbe e
nettosi il muso e tutto il volto con una pezzuola bianca assai ben sudicia,
distendendo e levando su il braccio destro, e poi, aperta la mano, e congiunto
l'indice al pollice, cominciò:
Veneratissimo signor duca
governatore, signora badessa, signor notaio, e signori testimoni, e voi tutti
signori e signore.
E qui si fece dai principii
della scienza delle leggi, e parlò della repubblica di Platone; e quindi
discendendo al dritto romano, citò le dodici tavole e gli euremi e i responsi
dei giureconsulti, e addusse le pandette, il codice, e le novelle; e fra un
mare di latinità divenendo all'età media, allegò Francesco d'Accorso, Cuiacio e
Gottifredo; e pervenuto al codice francese, recò le sentenze del Portalis, del
Merlin e del Sirey, e concluse: primieramente, che quel testamento era nullo di
dritto e di fatto; secondariamente, che la comunità di Regina Coeli non aveva
nulla che pretendere dall'ospizio in sull'eredità di suora Geltrude; e in terzo
luogo, che le masserizie, i libri e qualunque cosa fosse stata della defunta,
s'apparteneva di legge alla Madonna.
Laonde il duca, che già prima
d'una cotanto eloquente diceria, era persuaso che così era come l'avvocato
diceva, si levò sentenziando che il tutto s'intendeva devoluto alla Madonna; e
dato ordine che tutte l'altre masserizie fossero vendute per conto di lei,
comandò che i libri fossero stati il dì seguente trasferiti nella sua
biblioteca, che n'avrebbe egli tenuta ragione all'ospizio. E tornando via coi
segretari, rivoltosi un istante, chiamò a se suora Giustina, e le disse non so
che assai pianamente, e quella rispondendogli non so che altro, egli replicò
imperiosamente così doversi fare com'egli aveva ordinato. Di poi, continuando
il suo cammino, disparve fra un grande strisciare di piedi che faceva egli
stesso e che gli era fatto ancora intorno da' due segretari e dagli uscieri.
L'avvocato gli corse dietro strisciando anch'egli come un rettile, volendo così
somigliare quell'animale all'andatura, come lo somigliava al battere della
lingua. Il notaio, fatto prestamente trasportare dalla stanza nel gabinetto e
quivi ammonticchiare alla peggio i due cassettoni, il letto, la biancheria e
qualunque altra cosa v'era che si fosse appartenuta a suora Geltrude,
n'inchiavò l'uscio, e lo sigillò col suo sigillo: e conclusi e raccolti i suoi
atti e le sue scritture, fatta riverenza a suora Giustina, n'andò anch'egli con
Dio. E così fu ordinato e solennizzato legalmente un furto, non per grandezza
ma per qualità, il più infame che sia stato mai commesso sotto il sole.
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