LXVII.
Quando fummo pervenute sulla
piazza del Serraglio, i gendarmi a furie di piattonate sbaragliarono quella
gran folla di lazzaroni che ci aveva seguite. Di poi, fatte fermare le
carrettelle innanzi alla magnifica scala di marmo a due ordini onde si monta
all'ampio vestibolo di quell'immenso edifizio, e fatteci scendere dalle
carrettelle, ci consegnarono capo per capo ad altri assai gendarmi a piedi che
ci attendevano colà presso. I quali, fatto ale di se, ci messero per coppie in
mezzo a loro, e salendo su per l'ordine destro della scala, e giunti nel grande
adito, dov'erano tre grandi entrate, una al dirimpetto, e l'altre due a' due
lati, entrarono per quella a mano ritta e ci menarono in un grandissimo e
lunghissimo corridoio. Quivi ci fecero fare alto, avvertiti dai serventi
dell'Albergo, che il governatore non era ancora venuto.
Era quel corridoio una specie di
pubblico ritrovo d'ogni sorta di persone. Quivi eran uomini, quivi eran donne
d'ogni sorta condizioni, quivi erano Inglesi e Tedeschi a dovizia che traevano
a pagare religiosamente il debito che ha ogni forestiero di vedere, o di poter
dire d'aver veduto quell'ospizio. E poiché era già andata per tutto la voce che
noi eravamo le trenta più riottose fra le figliuole della Nunziata che avevano
preso a zoccolate ed a piattellate in sul viso e in sul parrucchino il nostro
duca governatore, tutta quella gente, che senza noi sarebbe entrata e uscita
spacciatamente, ciascun pe' fatti suoi, ci si fermava e faceva calca intorno
per vederci e considerarci. E ci consideravan tutti, massime gl'Inglesi, con
una maraviglia e uno stupore così grande, che ben si pareva quanto gli uomini
anche più liberi son fatti per essere schiavi; che sempre par loro una gran cosa
strana, che l'oppresso pigli un tratto a panate, o a tegamate, o a quel che
meglio gli è alle mani, il suo oppressore.
In questa gogna s'ebbe io non so
se dire la stoltezza o la barbarie di tenerci per cinque lunghe ore, dalle
tredici alle diciotto, allorché ci fu recato che, questo gran governatore che
s'aspettava, era finalmente giunto per una sua scala segreta. Tosto fummo
condotte dal corridoio nella sua sala dove, in vece d'un qualche gran
baccalare, com'io m'era presupposta, trovammo un'abbietta e volgarissima
figura, un sudicio e stizzosissimo vecchio, un pretto lazzarone vestito, ed
anche malamente, con un certo logoro e rattoppato giubbone di questi che
s'usavano a' bei dì de' nostri arcavoli. Costui, con un fragorosissimo vocione
da Masaniello, con un dialetto purissimo di Lavinaio3, aprendo una gran
bocca, ed arrabbiando e facendo la bava, che non si sapeva qual diavolo il
toccasse, ci disse ex abrupto la più gran villania che mai nessun reo
mascalzone dicesse a nessuna più vituperata sgualdrinella di Mercato, dicendo
così sozze e sconce parole, che, a me almeno, che non ero mai stata a simili
scuole, o riuscivano al tutto ignote, o m'insegnavano quello che ignoravo. E
minacciandoci il capestro, la mitera e il fuoco, e mordendosi le mani per il
gran furore in cui era montato, alla fine levando su a tutta furia una gran
mazza ch'avea in mano, come per volerci rompere a tutte il capo e l'ossa, fu
trattenuto e fatto quasi a viva forza sedere da due zerbini tutti azzimati,
figliuolo e segretario suo, che gli erano intorno; i quali tutti molli dalla
fatica di tenerlo, e parte sogghignando, fecero cenno ai serventi ed ai
gendarmi di condurci via. E così fu fatto.
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